sabato 31 luglio 2010

Il modello Marchionne fa già scuola ora le imprese vogliono accordi separati

Repubblica — 30 luglio 2010 pagina 13 sezione: ECONOMIA

MILANO - Piccole Pomigliano crescono. Mentre Fiat e sindacati cercano ancora un accordo sullo stabilimento campano, il "modello Marchionne" inizia a far proseliti nel resto d' Italia. Con singole imprese e intere associazioni industriali pronte a chiedere ai lavoratori concessioni in deroga ai contratti nazionali per evitare licenziamenti e delocalizzazioni della produzione o in cambio di nuovi investimenti. L' associazione industriali di Brescia - ha accusato ieri il leader Fiom Giorgio Cremaschi - ha convocato Cgil, Cisl e Uil proponendo un patto territoriale costruito a immagine e somiglianza di quello realizzato per lo stabilimento del Lingotto. «Solo uno sciocco può pensare che quello che vuol ottenere la Fiat non lo pretendano tutti gli altri industriali italiani», ha detto Cremaschi. Qualche segnale in effetti c' è già: una proposta simile a quella di Brescia è stata avanzata da Alessandro Vardanega, presidente Unindustria Treviso: «Da noi imprese e sindacati si riconoscono come interlocutori affidabili - ha buttato lì - . Lavoriamo insieme, concordiamo subito soluzioni innovative che ci permettano di gestire al meglio gli effetti della crisi». Segno che le suggestioni di Pomigliano e l' appeal della contrattazione aziendale hanno iniziatoa far breccia anche nel mondo delle pmi di Veneto e Lombardia che puntano ad affrontare il tema a livello associativo per evitare di aprire mille piccoli fronti fai-da-te. I grandi, invece, si espongono in prima persona. Anche se quasi tutti, per il momento, sono in stand-by, in attesa che il braccio di ferro tra Marchionne e i sindacati detti le nuove regole del gioco per poi approfittare nel caso della breccia aperta da Torino. L' unica a uscire allo scoperto ad oggi è stata la Indesit che ha condizionato il suo piano di investimenti in Italia (120 milioni) - che prevede tra l' altro la chiusura di due stabilimenti - alla riscrittura delle relazioni industriali «in un contesto di competitività sostenibile» stile-Pomigliano. Il tamtam del mondo del lavoro dice che anche la Sirti potrebbe chiedere in tempi brevi una deroga al contratto nazionale di riferimento per mantenere gli insediamenti produttivi in Italia. Mentre il gruppo siderurgico Riva - tentato in passato dall' uscita da Federmeccanica (in Germania ha già abbandonato la Confindustria tedesca) - per il momento sembra aver scelto di evitare strappi. Resta il fatto che in qualche caso, anche in tempi molto recenti, lavoratori e aziende sono riusciti a raggiungere accordi "straordinari" non solo senza corti circuiti sociali, ma persino con la firma della Fiom. Ultimo esempio, di poche settimane fa, quello Electrolux di Forlì. Le parti hanno ridiscusso i metodi di produzione, i turni, le assenze e la malattia. I sindacati hanno fatto le concessioni, la multinazionale ha cancellato i licenziamenti previsti e dirottato dalla Polonia allo stabilimento italiano un investimento di 43 milioni. E l' accordo è andato in porto. Intese simili sono riuscite in Ducati Motor e Lamborghini Senza smantellare, sottolineano i rappresentati dei lavoratori, i paletti del contratto nazionale. - ETTORE LIVINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/07/30/il-modello-marchionne-fa-gia-scuola-ora.html

Brutti accordi e solitudine, la fine annunciata di Omsa

Lo stabilimento di Faenza sta per chiudere: mobilitiamoci per le 350 lavoratrici

Nando Mainardi Iuri Farabegoli
Non solo Marchionne. Nei giorni scorsi si è saputo che, due mesi fa, la Golden Lady Company ha sottoscritto un accordo con il ministero dell'economia del governo serbo per la delocalizzazione della produzione dello stabilimento Omsa di Faenza. Il 20 luglio, nell'incontro tra la proprietà e le organizzazioni sindacali per fare il punto sulla situazione, la Golden Lady si era guardata bene persino dall'annunciare la decisione. Eppure per certi versi è l'epilogo di un disastro prevedibile, 350 posti di lavoro in fumo, poiché da tempo la proprietà puntava a smantellare la produzione e a portare tutto altrove.
Le lavoratrici dell'Omsa sono in cassa integrazione straordinaria per cessazione attività da aprile ed era difficile già qualche mese fa credere alla favoletta della crisi. Golden Lady detiene in Italia il 50% del mercato delle calze da donna e il 18% del mercato statunitense; ha 7000 dipendenti, 15 stabilimenti, un fatturato di 540 milioni di euro; poco tempo fa ha inaugurato un nuovo stabilimento in Serbia, a 100 km da Belgrado, di 10 mila metri quadrati. Ha al momento 2 unità produttive nell'ex stato jugoslavo, dove ha investito circa 100 milioni di euro. I profitti non mancano ma evidentemente Nerino Grassi - il presidente del gruppo - ne vuole di più e la scelta di chiudere a Faenza è finalizzata a ristrutturare l'attività complessiva del gruppo abbattendo il costo del lavoro e fruendo dei regali dati dal governo serbo alle imprese: azzeramento per 5 anni di ogni tassazione sui profitti, contributi dai 2000 ai 10.000 euro per ogni lavoratore, esenzione fiscale totale per 10 anni nel caso di investimenti significativi.
Nel marzo scorso proprietà, governo italiano, regione, enti locali e organizzazioni sindacali hanno sottoscritto un accordo assolutamente "vantaggioso" per Golden Lady: prendeva atto della volontà di dismettere l'attività dell'Omsa, attivava appunto gli ammortizzatori sociali e in modo generico e vago poneva gli obiettivi della riconversione degli impianti e del mantenimento dell'occupazione delle lavoratrici. La chiusura dell'azienda in cambio di niente: quell'accordo era già l'anticamera della delocalizzazione. Accordo sottoposto al giudizio delle lavoratrici in un clima di pressioni tali - uniche voci fuori dal coro la Filtea faentina e la Federazione della Sinistra - che il voto è stato annullato e ripetuto, poiché inizialmente avevano partecipato anche persone che non c'entravano nulla. Alla fine l'accordo è passato con il voto contrario del 30% delle lavoratrici, segno dignitoso ed evidente di una contrarietà più ampia. E quale era il "refrain" con cui si sostenevano le ragioni dell'accordo? Che dalla proprietà non si poteva ottenere di più e che c'erano impegni precisi e rassicuranti da parte del ministero alle attività produttive…
La vicenda Omsa ci dice di nuovo di un padrone che fa beceramente il padrone, che punta al massimo profitto spezzando il legame con un insediamento produttivo "storico", che se ne frega delle regole e del confronto al punto di non comunicare neppure la scelta di delocalizzare. Ci dice di controparti, a partire dal governo, inesistenti, e oggi la subalternità all'azienda non produce più solo cattivi accordi, ma la scomparsa integrale dei posti di lavoro, dei diritti e delle tutele. Ci dice di lavoratrici che in questi mesi hanno lottato pur nella consapevolezza di una crescente solitudine e di un senso di sconfitta.
E adesso? Pensiamo che serva ciò che non è avvenuto fino ad ora: una mobilitazione vera per il futuro delle 350 lavoratrici dell'Omsa, visto che è evidente anche ai sassi quale è la situazione. In autunno lo stabilimento di Faenza chiuderà - i macchinari finiranno o a Mantova (dove il gruppo ha la sede centrale) o in Serbia - e ad aprile 2011 scadrà la cassa integrazione. In questi mesi si è manifestato più volte con le altre forze dell'opposizione - anche qui in Emilia-Romagna - contro la legge-bavaglio, contro gli attacchi del governo alla magistratura e contro il decreto salva-liste di qualche mese fa: iniziative sacrosante. Ma è possibile - pensiamo alle altre opposizioni - che non si capisca che il futuro della democrazia nella nostra regione e nel Paese si gioca anche e soprattutto in vicende come quella delle 350 lavoratrici dell'Omsa? E perché non costruire presto un'iniziativa unitaria a sinistra partendo da una questione concreta come la lotta contro le delocalizzazioni?

Liberazione 29/07/2010, pag 4

Pomigliano, via a newco fuori da Confindustria

I sindacati accettano il diktat della Fiat, che ora chiede accordi simili in tutto il gruppo. No da Fiom e Ugl

Roberto Farneti
La Fiat vuole estendere a tutti i suoi stabilimenti in Italia le stesse deroghe previste nell'accordo per Pomigliano d'Arco, non siglato dalla Fiom. E pur di arrivare a questo scopo è disposta a uscire dalla Confindustria, in modo da non essere obbligata ad applicare il contratto nazionale dei metalmeccanici, sbarrando la strada ad eventuali ricorsi alla magistratura.
La lettera di disdetta del contratto è già pronta ed è stata mostrata ieri ai sindacati nell'incontro che si è svolto a Torino. «Se non intervengono fatti nuovi, al 31 ottobre ci verrà consegnata», riferisce Roberto Di Maulo, del sindacato aziendale Fismic.
Adesso appare più chiaro a tutti quello che la Fiom aveva intuito fin dall'inizio. La Fiat sta utilizzando il progetto "Fabbrica Italia" e il miraggio dei venti miliardi di investimenti ad esso legato come arma di pressione per scardinare le relazioni industriali nel nostro paese, riscrivendole a favore delle imprese.
L'unico che fa finta di non capirlo è il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, secondo cui dopo l'incontro con Emma Marcegaglia, Sergio Marchionne si sarebbe convinto di non cercare più «strade al di fuori delle relazioni industriali».
E invece, nessun passo indietro da parte dell'amministratore delegato. Il progetto rimane appeso come una spada di Damocle sulla testa dei lavoratori. Per non procedere, Fiat vorrebbe un accordo quadro che definisca le condizioni per attuare gli investimenti: massimo utilizzo degli impianti, flessibilità, garanzie su scioperi e malattie. In pratica, il modello Pomigliano esteso a tutto il gruppo.
Per far capire che non scherza, ieri la casa automobilistica ha comunicato ufficialmente ai sindacati firmatari dell'accordo che la newco "Fabbrica Italia Pomigliano", non iscritta all'Unione industriali di Napoli, è cosa fatta. Il passaggio dei 5.200 lavoratori dello stabilimento Gian Battista Vico, oggi tutti in cassa integrazione straordinaria (poi diventerà cassa in deroga), avverrà però a partire dal settembre 2011, quando inizierà la produzione della Futura Panda. La riassunzione verrà fatta attraverso la "cessione dei contratti individuali". Sarà quindi necessario l'assenso dei lavoratori. Se qualcuno dovesse non accettare, resterà in cassa integrazione e poi andrà in mobilità. Alla newco passerà anche gran parte dei lavoratori della Ergom di Napoli.
Per la Fiom le mosse della Fiat, compresa la minacciata disdetta del contratto nazionale, non sono altro che la conferma «che l'accordo di Pomigliano contiene in sè deroghe relative al Contratto nazionale e, a nostro avviso, anche a leggi fondamentali in materia di diritto del lavoro».
Le forzature messe in atto da Marchionne rischiano però di produrre più danni che vantaggi per l'azienda, aumentando la conflittualità nelle fabbriche. Lo dimostra il fatto che il fronte sindacale che ha appoggiato l'"operazione Pomigliano" inizia a incrinarsi: «Alle condizioni con cui Fiat intende far operare la newco di Pomigliano l'Ugl non ci sta», grida il segretario generale Giovanni Centrella, spiegando che «nel rispetto delle gravi decisioni prese dall'azienda e nella piena consapevolezza delle conseguenze che la nostra scelta comporterà, non possiamo in alcun modo avallare operazioni che vanno ben al di là di un semplice accordo industriale, quale era originariamente l'intesa su Pomigliano a cui infatti abbiamo detto sì, e che invece intendono, adesso, distruggere i diritti sindacali, la ragione di esistere delle organizzazioni stesse, rendendo carta straccia il contratto nazionale, che per noi sarà sempre la via maestra». Quello che Fiat vuole imporre, aggiunge Centrella, «è la legge della giungla che, tra l'altro, svuota totalmente anche il ruolo di Confindustria insieme a quello delle Confederazioni dei lavoratori. Non ci opponiamo al mondo che cambia ma alla barbarie nelle relazioni sindacali».
Il segretario generale della Uilm Campania, Giovanni Sgambati, non sa far di meglio che prendersela con la Fiom: «E' l'unica responsabile della costituzione della newco a Pomigliano», afferma convinto. Già, dopodichè? Se il contratto nazionale diventa «carta straccia», come teme anche l'Ugl, non è un problema anche della Uil?
Guglielmo Epifani non ha dubbi: «Marchionne - spiega il leader della Cgil - sta compiendo un'operazione molto pericolosa che danneggia l'intero sistema delle relazioni industriali. Uscire da Federmeccanica e derogare al contratto vuol dire, prima di tutto, dare uno schiaffo alla Confindustria e alla signora Marcegaglia».

Liberazione 30/07/2010, pag 2

Fiat, Marchionne non tratta: «Voglio un sì o un no»

L'ad: «Per Mirafiori ci sono altri modelli, ma gli stabilimenti devono funzionare»

Roberto Farneti
Il trasferimento della produzione in Serbia «non toglie prospettive» per il futuro dello stabilimento torinese di Mirafiori, a cui saranno destinati altri modelli. Ma la condizione per dar seguito all'investimento nel progetto Fabbrica Italia - venti miliardi di euro in sei anni - è «che ci siano le condizioni per cui quelli che non sono d'accordo non blocchino la maggioranza dei dipendenti della Fiat». Sergio Marchionne ribadisce al tavolo convocato ieri a Torino dal governo la linea dura scelta dall'azienda per gestire la fase che si è aperta dopo il referendum a Pomigliano.
Quell'inatteso 40% di operai contrari all'accordo capestro non firmato dalla Fiom non è stato proprio digerito dall'amministratore delegato del Lingotto. Che ora sfida i sindacati a dire «sì o no». Avvertendoli che «qualunque sia la risposta, Fiat è disposta a gestire entrambe le scelte». Ad esempio con l'uscita da Confindustria e la disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici alla fine del 2012. «Una strada praticabile», conferma Marchionne, anche se la via maestra, concordata sempre ieri in un incontro a parte con Emma Marcegaglia, resta quella di provare a trovare una soluzione che permetta di recepire le richieste del Lingotto sul fronte contrattuale senza scelte traumatiche.
E' a questo scopo che, come ha annunciato il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, «verranno messi a punto singoli tavoli bilaterali per affrontare stabilimento per stabilimento sulle questioni industriali. E il governo farà da coordinatore».
Tuttavia, minaccia ancora Marchionne, «c'è sempre un piano B». E per far capire che non scherza già oggi a Torino annuncerà ai sindacati di categoria la costituzione della newco per Pomigliano d'Arco. «Vogliamo solo i diritti e dei doveri non ce ne ricordiamo mai - scandisce il manager, ricorrendo a un linguaggio decisamente padronale - anche da un punto di vista etico e morale, credo che l'ordine sia importante. Io non mi aspetto niente quando mi sveglio la mattina». Detto da un signore che guadagna cinque milioni di euro l'anno fa un po' ridere... Il guaio è che non c'è niente da ridere, visto che dalle decisioni di Marchionne dipende il futuro di decine di migliaia di famiglie.
Ne sanno qualcosa i lavoratori di Termini Imerese, che ancora aspettano di sapere che fine farà la loro fabbrica. «Le parti saranno convocate, di intesa con la Regione Sicilia, entro il 15 settembre, per discutere di tutte le proposte che Invitalia sta esaminando», fa sapere Sacconi. Le ipotesi di newco e di disdetta del contratto dei metalmecanici da parte della Fiat imbarazzano il ministro, sostenitore di un illusorio modello partecipativo: «Atti unilaterali nel sistema delle relazioni industriali sarebbero inopportuni», balbetta Sacconi.
Il problema è capire quanto i sindacati sono disposti ad assecondare il sogno di Marchionne di un ritorno agli anni Cinquanta. Dalla Cisl arriva subito un «sì, senza se e senza ma», alla richiesta di Marchionne, purché «le modalità dell'investimento», precisa Raffaele Bonanni non escano dal «perimetro delle regole del nuovo sistema contrattuale che abbiamo costruito». Anche la Uil è pronta ad accettare la sfida per incrementare la produzione negli stabilimenti italiani, anche con accordi calibrati per ciascuno di essi, sempre però «rimanendo - avverte Luigi Angeletti - nella cornice del contratto nazionale di categoria».
Gli impegni assunti dall'amministratore delegato della Fiat non convincono la Fiom. «Se è vero, come ci hanno detto, che a Mirafiori arriveranno altri modelli - osserva Maurizio Landini - è anche vero che non dicendo "come quando e perchè" il rischio è nell'immediato più cassa integrazione per i lavoratori».
Anche il numero uno della Cgil Guglielmo Epifani scuote la testa: «Ho sentito troppo ottimismo, la verità è che non ci sono patti nuovi». Quanto alle minacce di Marchionne, «contro il dissenso - osserva Epifani - i carrarmati non servono, anzi possono essere controproducenti. La Cgil è convinta che si possa riaprire il confronto a partire da Pomigliano per trovare una soluzione condivisa».
Gli atteggiamenti da vecchio padrone delle ferriere dell'amministratore delegato della Fiat non piacciono al segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero: «Altro che fargli un monumento, bisognerebbe additarlo - osserva Ferrero - come un industriale che lavora a distruggere le condizioni che ancora ci sono di apparato industriale del paese». La Fiat «ha chiuso uno stabilimento, quello di Termini Imerese, e ne ha messo un altro, quello di Pomigliano, in condizioni "polacche". Perchè Marchionne è considerato un modernizzatore se riporta le condizioni del lavoro agli anni Cinquanta?», sottolinea il segretario del Prc.

Liberazione 29/07/2010, pag 4

La lunga storia della Max Mara che non insegna nulla a Marchionne

Condannata a restituire i benefici fiscali perchè non riconosce il contratto

Stefano Bocconetti
Ci hanno rimesso dei soldi, ce ne rimetteranno altri. E si parla di centinaia di migliaia di euro. Che forse sono disposti a pagare pur di avere l'assoluto «governo» della fabbrica. Si sta parlando della «Max Mara», il gruppo tessile della famiglia Maramotti, la stessa che controlla il Credito emiliano. Perché se ne parla adesso? Perché quando sui giornali si è letto che Marchionne aveva intenzione di uscire dalla Confindustria per non dover più rispettare il contratto di lavoro, a tutti è venuta in mente la vicenda della «Max Mara». Che ormai quarant'anni fa, fece la stessa scelta. Che ha pagato - e che con ogni probabilità dovrà continuare a pagare, come vedremo - in termini economici. Anche se così si è guadagnata l'arbitrio assoluto, o quasi, sulla sua azienda. Anzi meglio: sulle sue aziende. Perché una delle prime conseguenze della decisione della «Max Mara» di uscire dalla Federtessile, la Confindustria del settore, e di non applicare più il contratto, è stata quella di spezzettare in una miriade di «marchi» la fabbrica. Ora l'impresa è suddivisa in un vero e proprio arcipelago di fabbriche più piccole. Più piccole e perciò più «controllabili».
Insomma, è una storia che va raccontata. Tutto comincia nel '76. Quando i sindacati erano molto forti, quando le rivendicazioni contrattuali riguardavano non solo la parte economica ma anche la cosiddetta «prima parte». Riguardavano il diritto alle informazioni, il diritto di sapere quali fossero le strategie aziendali. Il diritto a poter intervenire su quelle strategie.
Ad Achille Maramotti, che nel '51, a Reggio Emilia, cominciò a costruire il suo impero tessile (che ben presto si sarebbe esteso alle attività finanziarie) tutto ciò era sembrato «troppo». Passi per i soldi, vada per le ferie ma non era disposto a trattare sui «diritti d'informazione». Li considerava esattamente come i primi imprenditori del secolo: di sua esclusiva competenza.
Così, piazzò la mossa a sorpresa. E nel '76 annunciò che sarebbe uscito dalla Confindustria. Mossa che gli permise di rifiutare il contratto nazionale di lavoro. Per lui, ciò che firmavano l'associazione degli imprenditori e i sindacati era solo un "pezzo" di carta. O meglio, e per essere più chiari: di quel "pezzo" di carta lui, almeno all'inizio, decise di rispettare solo la parte economica. Anche perché le leggi prevedevano - e prevedono - che la retribuzione dei dipendenti non possa scendere al di sotto dei minimi contrattuali.
Così - di nuovo: almeno all'inizio - Maramotti rispettò quel vincolo. Lo fece, però, attraverso un proprio "regolamento interno". Scritto dai suoi avvocati e firmato da lui stesso.
Pochi fogli dove si fissavano i minimi salariali e poche altre cose. Il tutto accompagnato dal rifiuto a riconoscere il sindacato.
Nelle aziende del gruppo ci fu una resistenza dura, scioperi su scioperi. Affidati - va anche detto se si vuole ricostruire con esattezza la storia - soprattutto ad un gruppo di lavoratori, a quelli addetti alla produzione. In un gruppo che 40 anni fa - proprio come oggi - assorbe la stragrande maggioranza dei dipendenti nel settore "commerciale".
Il sindacato perse, comunque, passò la linea Maramotti. Fatta di «bastone» ma anche di «carota»: è noto che il proprietario spesso si aggirava fra gli stabilimenti ricordando agli operai che se avevano bisogno di «qualcosa» si dovevano rivolgere direttamente a lui. Non c'era bisogno del sindacato.
Invece, poco alla volta, il «bisogno di sindacato» tornò ad affacciarsi. Al punto che alla fine degli anni '90, anche alla «Max Mara», anche nei vari stabilimenti delle «Manifatturiere Maurizio» o alla «Marina Rinaldi» ci si accordava su contratti aziendali.
Si va avanti così fino alla fine del secolo scorso. Quando il sindacato capisce che la mancata adesione della «Max Mara» alla Confindustria crea problemi alla gestione dei fondi previdenziali. Ma soprattutto quando, facendo due conti, si accorge che il gruppo ormai non rispetta più i minimi salariali. Perché per arrivare a quella soglia, l'azienda ci mette dentro anche il «cottimo». Di fatto, significa che la retribuzione minima è molto al di sotto di quella prevista.
Partono le denunce all'Inps. E arrivano i guai per la «Max Mara». Che dal '76 gode di sgravi fiscali che le hanno consentito enormi risparmi. Sgravi che però, è noto, possono essere erogati solo alle imprese che rispettano i contratti.
Si va in giudizio. La prima sentenza è di condanna per il gruppo: deve restituire alle casse dello Stato, qualcosa come sei miliardi di vecchie lire. Nel 2004, il secondo grado. Ed è sempre una sentenza di condanna. Ora, si è in attesa della sentenza sull'ultimo ricorso del gruppo. Anche se tutto fa capire che la «Max Mara» prima o poi sarà costretto a pagare. Lo dovranno fare i figli di Achille, i tre figli che hanno preso in mano l'azienda alla morte del padre, 5 anni fa. Un prezzo che forse hanno messo nel conto. Perché magari saranno costretti a tirar fuori molti euro, ma sono riusciti a garantirsi il «governo» dei loro 2600 dipendenti.
Un governo monocratico che da 40 anni il sindacato prova ad incrinare. Gregorio Villirillo è il segretario dei tessili Cgil di Reggio Emilia: «Da noi le cose non vanno bene. Ma penso che se passasse la linea Marchionne alla Fiat sarebbero molto, molto peggio». E allora dice che bisogna fermarli, adesso. Dopo, sarebbe troppo tardi.

Liberazione 28/07/2010, pag 3

La Lega fa la voce grossa. Chiamparino molto meno

Il "Carroccio" torna a chiedere protezionismo, il Pd se la prende pure col sindacato

Stefano Bocconetti
Arriva tardi e ci arriva male. Al punto che non si riconosce più «chi sta con chi». Insomma, la politica ufficiale arriva quasi distratta a parlare della Fiat. L'annuncio della delocalizzazione in Serbia è di due giorni fa, eppure - ancora ieri - le cronache del Palazzo si occupavano d'altro: di Di Pietro che ora tifa per Fini, di Bersani che sollecita un accordo con l'Udc sul Csm e così via. Si parla di tutto, insomma, meno che di Mirafiori, Pomigliano, Melfi.
La politica arriva tardi, dunque, a fare i conti con le strategie di Marchionne. E quando ci arriva, lo fa in modo spiazzante. Lo fa come nessuno poteva immaginare. Perchè si scopre che i pochi che provano a fare la «voce grossa» contro la Fiat sono i leghisti. E un pezzo - piccolissimo - del Pdl. Al contrario, invece, si scopre che i più «accomodanti» con Marchionne sono proprio alcuni dirigenti del piddì. Fra i più gettonati a scalare la gerarchia del partito.
Ma andiamo con ordine. La Lega, allora. Che ora "governa" il Piemonte - da cui si dovrebbero spostare le produzioni destinate alla Serbia - con Roberto Cota. Il quale non smette le sue vesti istituzionali, si dice preoccupatissimo e chiede che al tavolo di confronto promosso da Sacconi, il gruppo spieghi con esattezza le sue strategie. E che soprattutto, questo è l'auspicio, ci ripensi. Ben più duro è invece l'intervento del ministro Calderoli. Che, col solito linguaggio diretto, spiega che la Fiat ha avuto tanti soldi pubblici. E allora, «a me interessa poco sapere cosa la Fiat voglia andare a fare in Serbia, a me interessa che lo stabilimento di Mirafiori resti aperto. Diversamente saremmo costretti a far pagare il conto: non ci si può sedere ad un tavolo, mangiare con aiuti di Stato e poi andarsene senza pagare il conto».
In queste parole ci sono, certo, gli echi di una vecchia, vecchissima polemica che è sempre stata alimentata dalla destra italiana, contro qualsiasi intervento statale in economia. Ma c'è di più. C'è quel che rivelano le frasi di Marco Reguzzoni, neocapogruppo del «Carroccio» alla Camera. Dice: «Decenni di contributi a fondo perduto non evitano fenomeni di delocalizzazione. Per evitare la fuga è più utile dare nuove regole al commercio mondiale, evitando politiche aggressive dei paesi emergenti e difendendo la nostra piccola impresa». Di più, ancora più chiaro: «Il pilastro della nostra economia sono le piccole imprese che continuano a produrre nel nostro paese, soprattutto in Padania. Bisogna difenderle ad ogni costo, anche attraverso un confronto duro con l'Europa».
Tradotto: la Lega - che non ha mai trovato molti estimatori in Corso Marconi - coglie l'occasione per tornare a chiedere protezionismo, dazi e balzelli contro le importazioni. E poco male se questa strategia "localista" si scontra con i desiderata della Fiat, coi suoi progetti di globalizzazione non governata. Fra Lega e Marchionne non c'è mai stato molto amore.
E ancora. Al coro leghista, stavolta s'è unito anche un pezzo del Pdl. Il pezzo piemontese che col deputato Enrico Pianetta, prende a prestito un vecchio slogan della sinistra per dire che «la Fiat, come al solito, socializza le perdite e privatizza i ricavi».
Le sorprese non finiscono qui, però. Perché nell'altro fronte, l'opposizione parlamentare, a prendere la parola è Chiamparino, sindaco di Torino, la città che dovrebbe pagare di più per le scelte di Marchionne. Invece il sindaco - che forse, se si rivoterà in Piemonte, si candiderà a fare il governatore e che comunque coltiva progetti di leadership nazionali - è molto più cauto. Certo dice che la Fiat «deve mantenere le promesse e deve restare a produrre in Italia». Ma aggiunge, significativamente: «... ha comunque ragione anche Marchionne, che si aspettava un'accoglienza molto diversa su un progetto che rappresenta l'unica vera ipotesi di rivoluzione industriale. Invece è stata accolto con indifferenza, scetticismo, problemi di rappresentatività sindacale». I «no» della Fiom, insomma, non gli sono piaciuti. Esattamente come a Marchionne.

Liberazione 25/07/2010, pag 2

Fiat, l'illusione liberaldemocratica di Eugenio Scalfari

Dino Greco
Eugenio Scalfari ha dedicato il suo tradizionale commento politico su la Repubblica di domenica al caso Fiat o, per meglio dire, al caso Marchionne. Lo ha fatto, in primo luogo, per rivendicare a se stesso la lungimiranza di avere intuito anzitempo - quando il manager del Lingotto veniva osannato urbi et orbi come un genio della lampada - che il suo principale merito era stato quello di salvare dalla bancarotta l'impresa simbolo del capitalismo italiano grazie ad una spregiudicata operazione di politica industriale e finanziaria, resa possibile dalla crisi irreversibile della Chrysler e da una straordinaria congiuntura economica e politica, colta con encomiabile tempismo. Scalfari, ci rivela anche di aver subito intuito che una Fiat "globalizzata" avrebbe trasferito il suo baricentro negli Stati Uniti e che nessuna speciale attenzione sarebbe più stata dedicata all'Italia, neppure a Torino, dunque, con buona pace del sindaco Chiamparino che si illude di far valere la sua moral suasion nei confronti del Lingotto. Perché, anzi, con tutta evidenza, lo spin-off, la scissione del gruppo in Fiat group e Fiat industrial preluderebbe alla vendita dell'auto. La precoce intuizione (non esattamente solitaria, come suppone il mentore di Repubblica, ma pazienza...) si arricchisce però ora di una per lui inconsueta chiave di lettura, questa invece tutta legata alle relazioni economico-sociali. Scalfari ci dice che la soluzione inventata da Marchionne per Pomigliano non era affatto destinata a disciplinare i rapporti sindacali in quell'area soltanto, come servilmente Cisl e Uil hanno finto di credere, ma rappresenta un modello da esportare in tutto il gruppo per riplasmare l'intero sistema delle relazioni industriali in Italia, con pesante e stabile compromissione dei diritti acquisiti dai lavoratori lungo una pluridecennale stagione di conquiste. Scalfari certo non se ne compiace, ma dà l'esito per scontato e ricorre, per descriverne la dinamica, ad una metafora "idraulica", quella della «legge chimico-fisica dei vasi comunicanti», in forza della quale «in ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica». In questo contesto, cioè, tutto tenderebbe fatalmente ad allinearsi: «tasso di interesse, tasso di efficienza degli investimenti, condizioni di lavoro, prezzo delle merci».
Ma poiché il lavoro medesimo è stato ridotto allo stato di merce, ecco che il suo valore, il salario, si collocherà non già, come crede Scalfari, ad un livello mediano in ogni punto del globo, bensì, tendenzialmente, al livello più basso consentito dal "libero" mercato delle braccia. Perché questa è la legge della concorrenza, del capitale. Che è diversa, sostanzialmente diversa, da quella della fisica, e agisce secondo modalità tanto più brutali quanto più efficace sarà stata la neutralizzazione della capacità di autodifesa e di autorganizzazione dei lavoratori. Per intenderci, la fase in cui Marchionne spiegava che il costo del lavoro incideva solo in minima parte (dal 5 all'8%) sui complessivi costi di produzione, per cui sarebbe stato inutile dedicarsi compulsivamente a comprimerlo per ricercare altrove le fonti della competitività industriale, è completamente tramontata.
Insomma, si è tornati al classico: si produrrà a Pomigliano, oppure a Melfi, o a Torino solo se, tendenzialmente, lì si imparerà a lavorare come a Tychy o a Kragujevac, cosa - malgrado tutto - piuttosto improbabile. Dunque, la delocalizzazione è considerata inevitabile. L'attacco frontale alla Fiom, vale a dire al solo sindacato esistente, si riduce a pura propaganda che serve a inventarsi un capro espiatorio oltre che a recuperare un potere assoluto sulle attività produttive che ancora non saranno espiantate dall'Italia.
Eugenio Scalfari ci riserva, tuttavia, una chiusa nella quale è riassunta tutta l'impotenza di una cultura liberal-democratica che non riuscendo ad oltrepassare i propri confini culturali si impantana in qualche palese incoerenza e si abbandona ad un'ipotesi del tutto velleitaria.
La chiave di volta, «la madre delle riforme», come la chiama Scalfari, starebbe in un grande processo redistributivo della formidabile ricchezza accumulata nel nostro Paese, applicando, alla rovescia, quello stesso sistema idraulico che nei rapporti di produzione genera sottosalario e sfruttamento, ma questa volta, grazie ad un intervento «virtuoso» della politica, potrebbe compensare questa "oggettiva" ingiustizia, rimettendo il sistema in equilibrio.
L'appello di Scalfari è accorato: «cosa aspettate - dice - che la casa vi crolli addosso?». Ma a chi rivolge, Scalfari, questa domanda di soccorso? A chi governa oggi l'Italia incoraggiando le più spregiudicate manovre antioperaie e le accompagna con il saccheggio del welfare? Difficile crederlo. Oppure ad un Pd che di fronte all'infame ricatto della Fiat invita i lavoratori di Pomigliano a preferire un lavoro da schiavi alla ribellione? E se è in questa direzione che Scalfari guarda: chi, nell'opposizione che siede in Parlamento, possiede la forza, il bagaglio culturale, il radicamento sociale, la chiarezza strategica per perseguire un simile obiettivo con la radicalità che renderebbe la terapia efficace? Ancora più precisamente: come si fa a pensare che si possa produrre una frattura così diametrale fra chi domina i rapporti sociali da una parte e la rappresentanza politica - tutta - dall'altra, che dalla cultura libersista è così profondamente permeata? Come si fa a pensare che ad un'economia di mercato insediatasi in ogni ambito dell'organizzazione sociale si possa contrapporre una politica solidale, magicamente capace di generare maggiore equità (se non giustizia) e di trasformare in bene comune quello che invece si vuole pervicacemente mercificare, privatizzare, mettere a mercato?
Perché un progetto riformatore possa prendere corpo occorre agire, simultaneamente, sui due terreni, quello dell'economia e quello della politica, avendo il coraggio di riaffrontare il tema cruciale, quello della proprietà, delle sue forme e dei suoi limiti, secondo il sentiero tracciato dagli articoli 1, 3, 36, 38, 40, 41, 42 e 43 della Costituzione. Tenere questi terreni separati significa non uscire dal cul de sac e predicare al vento. Mentre continueranno ad essere i poteri forti, protagonisti dello scempio in cui viviamo, a tessere indisturbati la loro tela.

Liberazione 27/07/2010, pag 1 e 5

giovedì 29 luglio 2010

Se gli operai si mettono in cooperativa

Paola Baiocchi
Un anno fa i 39 operai della Bulleri Brevetti erano in presidio davanti ai cancelli della fabbrica - senza stipendio da sei mesi, senza cassa integrazione e con un caldo asfissiante - per impedire che le macchine già terminate fossero portate via dai creditori e avevamo parlato di un caso Innse a Cascina, alle porte di Pisa.
Ora gli operai sono dentro al capannone e lo stanno allestendo per ricominciare la produzione a settembre, con il marchio Nuova Bulleri Brevetti - Società cooperativa.
Sembrerebbe una storia a lieto fine, invece la parola fine non si può ancora dire: anche se si sono registrati molti importanti passi avanti dall'anno scorso, non è il momento di abbassare la guardia.
Il presidio infatti non è finito, continua in una forma diversa. Il capannone in allestimento non è quello di proprietà della Bulleri Brevetti, ma è un capannoncino più piccolo in affitto, proprio alle spalle della vecchia fabbrica. Non sfugge il senso di una "presa di posizione" del genere: la vecchia fabbrica contiene ancora materiali e macchine che andranno all'asta nei tempi che il tribunale di Modena disporrà, ma già una parte delle attrezzature della Bulleri sono state rubate dal piazzale da ignoti, mentre una linea di produzione terminata è stata sequestrata da un creditore, con una procedura autorizzata dal tribunale, ma con tutti i contorni del blitz in favore di un concorrente.
Allora controllare a vista la propria fabbrica in attesa dell'asta non è un fatto solo simbolico, ma un atto di vigilanza in un momento in cui la partita è ancora aperta, i concorrenti sono molti, i colpi di mano si sono già verificati e il tribunale che segue la procedura concorsuale è lontano.
La Bulleri Brevetti è una fabbrica storica di Cascina. Fondata nel 1935 è passata di mano nel 1997 dalla famiglia Bulleri al Gruppo Sicar Spa, dei Signorino, che hanno un'altra fabbrica a Carpi e una a Verona. La Bulleri produce macchine per la formatura dei metalli e per fabbricare altre macchine utensili, macchinari richiesti in tutto il mondo perché ognuno è un prototipo costruito su misura per le produzioni richieste. Un caso di internazionalizzazione, in controtendenza nel distretto produttivo del mobile di Cascina, che ha ceduto presto alle lusinghe della delocalizzazione in Romania o in Polonia e ora risente pesantemente della crisi.
La Bulleri invece è un caso un po' particolare perché non è in crisi di commesse, ed è un caso un po' particolare anche perché due dei vecchi proprietari, i fratelli Franco e Alberto Bulleri, dopo il passaggio di proprietà restano a lavorare in fabbrica, uno come progettista, l'altro come addetto commerciale. In un'altra forma di presidio.
Dopo la cessione le cose vanno avanti senza grossi cambiamenti per qualche anno, anche se tra le seducenti dichiarazioni di intenti dei Signorino e la realtà c'è uno scollamento, che si evidenzia nel portare fuori dalla Bulleri il fatturato a vantaggio delle altre aziende del Gruppo Sicar ("spolpavano l'azienda", dicono i lavoratori).
I problemi vengono fuori alla fine del 2008 quando i fornitori sospendono le consegne perché non vengono pagati da troppo tempo. Da febbraio 2009 gli operai non vengono più retribuiti, ma restano in fabbrica e comincia una corsa con il tempo attivata dalle Rsu, dai Bulleri, dai Cobas e sostenuta da Liberazione: si cerca una soluzione per continuare a produrre, si cerca un compratore, bisogna far partire la cassa integrazione per permettere agli operai di non soccombere.
Il Consiglio comunale di Cascina eroga un fondo a sostegno dei lavoratori che risiedono in zona; la Provincia di Pisa e la Regione Toscana attivano i tavoli di gestione della crisi, incontrando le parti.
Intanto i Signorino nominano un liquidatore che cerca di svendere i macchinari ultimati e giacenti in fabbrica, ma gli operai lo impediscono presidiando la fabbrica.
Il tempo passa, attirati dall'attenzione mediatica diversi compratori si propongono, ma si rivelano ben presto del tipo "non ho soldi, ma l'oggetto mi interessa".
Finalmente si fa strada l'idea della cooperativa tra i lavoratori che si forma a febbraio di quest'anno ed è piuttosto atipica: ne fanno parte venti ex dipendenti e 7 nuovi soci. Il presidente è Alberto Bulleri, il vice presidente è un ingegnere 68enne: si chiama Vanni Bonadio ed è molto conosciuto in zona perché è stato a fianco di Giovanni Alberto Agnelli, il figlio prematuramente scomparso di Umberto Agnelli e Antonella Bechi Piaggio, per impedire il trasferimento negli anni '90 a Nusco della Piaggio di Pontedera.
Bonadio conosce tutti negli ambienti imprenditoriali ed è stimato per essere una persona che non improvvisa. È un deus ex machina per la Nuova Bulleri, una fabbrica che si affaccia ora alla produzione, forte della professionalità delle sue maestranze e della sua tradizione, ma in un periodo di crisi mondiale di portata straordinaria e che deve strappare l'ex fabbrica all'asta.
Il finale è aperto, da settembre rientreranno in produzione 12 operai, non tutti ancora per non bruciarsi il capitale investito che viene prevalentemente dalla mobilità dei lavoratori.
Le dichiarazioni ufficiali dell'azienda sono di reintegrare tutti, ma non possiamo ancora dirci tranquilli perché per ora resterà fuori anche qualcuno che è stato molto attivo sindacalmente.

Liberazione 22/07/2010, pag 14

Marchionne ha gettato la maschera

Dino Greco
E tre. Dopo l'annunciata chiusura di Termini Imerese, dopo il ricatto di Pomigliano, ora Marchionne getta definitivamente la maschera: via anche da Mirafiori. La Lo, l'utilitaria destinata a sostituire la Multipla, la Musa e l'Idea non si farà più negli stabilimenti di Torino, bensì a Kragujevac, dove il salario mensile di un operaio tocca a malapena i duecento euro mensili, dove pur di lavorare, gli operai della ex Zastava, la "Fiat dei Balcani", rasa al suolo dai bombardamenti della Nato nella guerra contro la Serbia del 1999, sono disposti a subire qualsiasi condizione pur di guadagnarsi un tozzo di pane. E dove il primo ministro Kostunica è pronto a concedere ogni sorta di beneficio o franchigia fiscale per accaparrarsi l'investimento della casa automobilistica che con una sempre più grottesca espressione chiamiamo ancora "torinese".
La rivelazione schock l'amministratore delegato della Fiat l'ha fatta da Detroit, argomentando che questa scelta è la conseguenza obbligata della rigidità sindacale imperante nel nostro Paese. L'escalation del manager italo svizzero è stata impressionante. Dapprima egli ha spiegato che continuare a lavorare in Sicilia avrebbe significato andare in perdita per ogni auto prodotta, lanciando un messaggio devastante a tutta la borghesia industriale contro gli investimenti nel Mezzogiorno. Poi ha preteso che gli operai di Pomigliano si piegassero a barattare il loro posto di lavoro con l'azzeramento di ogni diritto e con il ripristino di prestazioni di tipo servile. Infine, ha concluso che anche a Mirafiori, in quello che fu l'epicentro dell'impero Fiat, non è più conveniente stare. Perché, in definitiva, cercare il freddo per il letto? L'azienda che fra un anno sarà della Chrysler per il 35% e che controllerà Fiat Group, chiude questa stagione con un'eccezionale performance economica, tornando all'utile netto, remunerando gli azionisti e incontrando l'entusiastico apprezzamento dei mercati, sempre golosamente sedotti da operazioni che sanno di profitto, anche e proprio perché costruite sui licenziamenti collettivi e sulla compulsiva limitazione dei diritti dei lavoratori.
Il gioco ora è scoperto: l'influenza del bene di questo Paese sulle scelte strategiche della Fiat è pari a zero. Si investe e si produce solo ed esclusivamente là dove i costi complessivi, a partire da quello del lavoro, sono più contenuti e dove l'unilateralità del comando non trova alcun ostacolo, né di natura sindacale, né legislativa.
Più le regole sono lasche, evanescenti, più i lavoratori sono spogliati di prerogative, privi di forza contrattuale e più è forte la spinta ad allocare lì le proprie risorse: un'idea ottocentesca della competitività, che chiede - come correlato politico - rapporti sociali fondati sulla dominanza senza contrappesi del capitale e istituzioni democratiche involute o assenti.
Ora la Fiat, immemore di avere succhiato montagne di denaro ai lavoratori e ai contribuenti italiani, se ne sta andando, compiendo un atto piratesco, di rapina. Con il governo complice e Cisl e Uil a far da palo, come utili idioti.
Sovviene una domanda a cui molti illusi, a partire dal Pd, dovranno prima o poi rispondere: troverete mai la forza morale, l'autocritica resipiscenza per capire che non c'è possibile tenuta democratica del Paese se si continua ad accettare che l'impresa, ed essa sola, detti le condizioni dello sviluppo e se si pensa che la rinascita di una società sfibrata possa avvenire a spese della sua parte più debole? Non passa giorno, ormai, che nuove perle non si aggiungano al rosario delle nefandezze che opprimono la vita materiale e spirituale di tanta parte di quel "popolo" che i satrapi al potere pretendono di rappresentare.
Proviamo allora ad unire le energie di quanti - e sono sempre più - avvertono che questa situazione può soltanto ulteriormente degenerare. Andiamo oltre i singoli episodi di resistenza e di autodifesa di gruppo, che nascono e si spengono - troppe volte senza esito positivo - nel vuoto dell'ascolto e della rappresentanza politica. Possiamo farlo. Non da soli, ma possiamo farlo. C'è un appuntamento, quest'autunno, che va preparato con certosino impegno e grande tensione unitaria.

Liberazione 23/07/2010, pag 1 e 3

Operai Fincantieri in lotta. E l'azienda denuncia la Fiom

Epifani attacca la Fiat: «Licenzia per intimorire». Ma Sacconi sentenzia: colpa dei lavoratori

Roberto Farneti
«Mi accusano di avere organizzato delle lotte, ne sono orgoglioso». Francesco Grondona, segretario generale della Fiom Cgil di Genova, non sembra per nulla intimorito dalla rappresaglia messa in atto dalla Fincantieri per gli scioperi e l'occupazione del dicembre 2009. E' di ieri infatti la notizia di 19 avvisi di garanzia inviati dalla Procura di Genova allo stesso Grondona, al responsabile organizzativo della Fiom di Genova Bruno Manganaro e a 17 lavoratori e delegati sindacali dello stabilimento Fincantieri di Sestri Ponente.
La loro colpa? Avere "preteso" di partecipare all'assemblea pubblica sul futuro dell'azienda, organizzata il 18 dicembre scorso da Fim Fiom e Uilm all'interno dello stabilimento occupato, con la partecipazione del governatore ligure Claudio Burlando e del sindaco di Genova Marta Vincenzi. «Avevamo anche avvertito l'azienda - ricorda Grondona - la quale lì per lì non ebbe nulla da eccepire, salvo poi farci trovare l'ingresso dello stabilimento sbarrato con delle transenne». A quel punto, i lavoratori decisero di entrare lo stesso, rimuovendo l'ostacolo. L'assemblea ebbe luogo nella sala mensa e così i lavoratori ebbero la possibilità di esporre democraticamente ai rappresentanti degli enti locali il loro timore per la paventata chiusura del cantiere navale di Sestri Ponente. Ma la parola "democrazia" evidentemente non piace ai dirigenti della Fincantieri, che pensarono bene di denunciare quei sindacalisti e lavoratori per avere... danneggiato le transenne.
Scuote la testa Marco Veruggio, responsabile Economia Lavoro Prc della Federazione di Genova, che ieri ha espresso «piena solidarietà» alla Fiom e ai lavoratori indagati: «Quando si usano i tribunali contro le lotte - commenta - significa che si cerca di trasformare il conflitto sociale in un problema di ordine pubblico, colpendo in primo luogo i lavoratori e le avanguardie sociali».
L'unico risultato che la Fincantieri è riuscita a ottenere, con queste forzature, è stato quello di aumentare la conflittualità nel gruppo. Ieri un grande sciopero di due ore contro il taglio dei premi ha bloccato il cantiere di Monfalcone. «E' chiaro che per i lavoratori, in Fincantieri, le cose vanno sempre peggio e che l'azienda reagisce alle difficoltà solo con chiusura e autoritarismo», dichiara Giorgio Cremaschi della Fiom nazionale.
Il modello Fiat sembra avere fatto scuola. Dopo lo schiaffo subito da Sergio Marchionne per il mancato plebiscito sull'accordo per Pomigliano non firmato dalla Fiom (40% di No), la reazione del Lingotto è stata rabbiosa: cinque operai, tre dei quali sindacalisti, licenziati in sette giorni.
Un po' troppi per pensare che sia un caso. Tanto che ieri il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani ha esplicitamente parlato di «ritorsioni» accusando la Fiat di ricorrere a «qualsiasi pretesto pur di provare ad intimorire o colpire lavoratori e delegati. E questo - ha sottolineato Epifani - mi sembra inaccettabile nell'Italia e nell'Europa di oggi».
Per fortuna lo Statuto dei lavoratori ancora esiste. Sempre ieri la Fiom ha presentato l'annunciato ricorso «per comportamento antisindacale» contro la direzione dello stabilimento di Melfi della Fiat, in seguito al licenziamento degli operai Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli (due dei quali delegati Fiom). La prima udienza è già stata fissata per il giorno 30 luglio, alle ore 9.
I tre operai (che, in segno di protesta, la settimana scorsa, avevano occupato la "Porta Venosina" di Melfi) sono stati "puniti" dalla Fiat per aver bloccato il passaggio di un carrello per la produzione di "Punto Evo" durante uno sciopero interno in un turno notturno. Per il legale della Fiom invece «i lavoratori stavano legittimamente manifestando contro l'azienda che, in un periodo di cassa integrazione, nei due unici turni di servizio (il terzo era in cig) aveva aumentato il numero di vetture da produrre».
Se il giudice fosse Maurizio Sacconi, la sentenza sarebbe già scritta: «Non siamo più negli anni '70, una persona ha il diritto di scioperare ma non ha il diritto - afferma il ministro del Welfare in polemica con Epifani - di impedire agli altri di lavorare. Non si può impedire la libera circolazione delle merci e bloccare le linee di produzione». Dopodiché Sacconi aggiunge: «Non dò giudizi, i fatti li conosco - ammette - solo da quanto riferito». E allora un prudente silenzio non sarebbe più opportuno?

Liberazione 22/07/2010, pag 2

Diritti, la Fiom rilancia. Il 16 ottobre in piazza

Strappo degli epifaniani: Durante rifiuta di entrare nella nuova segreteria, che scende da 5 a 4 componenti

Roberto Farneti
Diritti e contratti, la Fiom rilancia. Dopo la vittoria nelle elezioni per le Rsu alla Fiat di Melfi e quell'inatteso 40% di No piovuto nelle urne del referendum truffa sull'accordo separato per Pomigliano, il sindacato delle tute blu Cgil si prepara per la campagna di autunno, annunciando una manifestazione nazionale dei metalmeccanici per il 16 ottobre. Purtroppo, come se non bastassero gli attacchi della Fiat e del governo, la Fiom deve pure preoccuparsi dei rapporti con la Cgil. La speranza è che lo strappo che si è consumato ieri, con il polemico rifiuto da parte dell'epifaniano Fausto Durante di occupare il posto riservato alla minoranza nella nuova segreteria, possa essere ricucito nel più breve tempo possibile. Nel frattempo, la maggioranza che ha vinto il congresso della Fiom ha il diritto e il dovere di portare avanti il mandato ricevuto dai lavoratori. Anche perché, quando si abbandonano logiche di schieramento e si discute nel merito delle questioni, non è impossibile trovare una sintesi. Lo dimostra il fatto che il dispositivo finale del comitato centrale è stato approvato all'unanimità.
Al primo punto del documento c'è, come detto, l'indizione per il 16 ottobre di una manifestazione nazionale dei metalmeccanici «ma aperta - chiarisce subito il segretario generale Maurizio Landini, interpellato da Liberazione - a tutte le forze sociali e all'opinione pubblica», per la difesa del lavoro dei diritti della democrazia e per la riconquista di un vero contratto contratto nazionale, dopo quello separato firmato da Fim e Uilm. «Un elemento importante - sottolinea Landini - perché vuol dire dare una continuità alle lotte che sono in corso a partire dalla Fiat di Pomigliano, mettendo al centro il fatto che il lavoro non può essere senza diritti». Il comitato centrale della Fiom ha anche deciso di dare mandato alla segreteria nazionale di convocare, nel mese di settembre, la Conferenza per il Mezzogiorno a Bari «perché è evidente - spiega Landini - che il sud del paese rischia di pagare il prezzo più alto per questa crisi. E quindi c'è bisogno anche di avere proposte in grado di rimettere al centro la lotta per la legalità, per una diversa politica industriale e per un diverso modello di sviluppo».
Ultima, ma non certo per importanza, la scelta di lanciare una campagna straordinaria di tesseramento e di risottoscrizione della delega alla Fiom tra tutte le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici. Una sorta di "operazione trasparenza" e di verifica del reale tasso di rappresentatività del sindacato, «coerente - sottolinea Landini - con la legge di iniziativa popolare sulla democrazia che sarà depositata il 23 luglio alla Commissione lavoro, con cui chiediamo che il diritto di voto per i lavoratori sugli accordi e la certificazione della reale rappresentanza di ogni organizzazione attraverso il numero di iscritti e i voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu. Questo bisogno di democrazia appare più evidente nella nostra categoria, dove sta succedendo che le imprese siglano accordi separati con organizzazioni generalmente minoritarie».
E' stata inoltre eletta la nuova segreteria nazionale, il cui numero scende da cinque a quattro componenti. Giorgio Cremaschi e l'ex segretario generale Gianni Rinaldini, arrivati a scadenza di mandato, sono stati sostituiti da Giorgio Airaudo e Sergio Bellavita, che entrano così a far parte dell'esecutivo Fiom assieme a Laura Spezia e, ovviamente, a Landini. Cremaschi diventa invece presidente del Comitato centrale.
L'altra novità è che, dopo sei anni "all'opposizione", Durante lascia la segreteria nazionale. Una mossa, secondo alcuni, dettata direttamente da Epifani. Pare infatti che il giorno prima dell'annuncio, Durante e i sostenitori della mozione uno nella Fiom abbiano partecipato a una riunione di corrente a Corso Italia, con il segretario generale uscente della Cgil nella veste di relatore. Durante, perchè questa decisione? «Perchè - spiega il sindacalista a Liberazione - si è verificato un elemento di novità rappresentato dal fatto che il segretario generale della Fiom, il 6 di luglio, ha firmato un documento con il quale la ex mozione due, "La Cgil che vogliamo", si trasforma e si costituisce in area programmatica di emanazione congressuale. Il punto politico che io ho sollevato - prosegue Durante - è che questa nuova area programmatica si pone esplicitamente, come dice il documento costitutivo, l'obiettivo di realizzare il dissenso e l'opposizione alle scelte della maggioranza della Cgil. Io credo che il segretario generale della Fiom, così come di qualunque categoria della Cgil, non possa essere contemporaneamente garante dell'unità di tutta la sua organizzazione e organizzatore dell'opposizione in Cgil».
Secca la replica di Landini: «Io faccio il segretario generale della Fiom, perciò non rappresento nessun altro che i metalmeccanici Cgil. Chi sostiene il contrario - afferma Landini - utilizza un argomento che non ha ragione di esistere. Perché io non assumo decisioni o sostengo punti di vista che non siano stati discussi dagli organismi dirigenti della Fiom. Se poi questo punto di vista a volte possa coincidere con quello che pensa la maggioranza della Cgil o l'area programmatica di cui faccio parte sarà il merito a deciderlo».
Molto meno diplomatico Gianni Rinaldini. Nel suo intervento al Comitato centrale l'ex segretario generale ha definito «vergognoso» l'atteggiamento della Cgil durante la vertenza alla Fiat di Pomigliano d'Arco, con particolare riferimento all'invito a votare Sì al referendum giunto dalla Cgil Campania e di Napoli. «E non mi si venga a dire - ha precisato Rinaldini - che si è trattato di posizioni espresse a livello locale, perché se così fosse stato la segreteria nazionale avrebbe dovuto prendere le distanze. E invece ha taciuto». Insomma, chi è che non si comporta in modo corretto: la Fiom con la Cgil o la Cgil con la Fiom?

Liberazione 21/07/2010, pag 2