mercoledì 27 ottobre 2010

Fiat, anche a Melfi pause ridotte di dieci minuti

A Melfi l'azienda ha disdettato con una lettera ai sindacati gli accordi relativi all'organizzazione del lavoro per poter ridurre di 10 minuti la durata delle pause. Esattamente come a Pomigliano dove, dopo l'accordo con Fim, Uilm, Fismic e Ugl, è prevista la sostituzione dell'attuale metodo Tmc2 con il sistema Ergo-Uas. Da due stop di 20 minuti ciascuno (uno per le esigenze fisiologiche, l'altro per affaticamento) si passerà dall'1 febbraio 2011 a tre pause da 10 minuti. Secondo Fiat il sistema è migliorativo. Ma la reazione della Fiom non si è fatta attendere: «A Melfi - dice Enzo Masini, coordinatore nazionale Auto dei metalmeccanici Cgil - si sta ripetendo il caso Pomigliano. Mi sembra un atteggiamento provocatorio e non mi pare ci siano spazi per una riapertura del dialogo».

Liberazione 24/10/2010. pag 4

Boomerang Marchionne

Giorgio Cremaschi
Le intenzioni erano diverse, evidentemente si voleva rispondere al grande impatto della manifestazione del 16 ottobre. Fatto sta che l'intervista dell'amministratore delegato della Fiat nella trasmissione di Fabio Fazio di domenica si è rivelata un boomerang. Sergio Marchionne, di fronte a un interlocutore sorridente e compiacente, si è sentito evidentemente autorizzato a dare il peggio di sé. Ne è uscita una sequela abbastanza sconclusionata di invettive e lamentele, che è servita unicamente a non fornire un solo dato, una sola notizia sui reali programmi della Fiat in Italia.
Conosciamo questo modello comunicativo, è quello di Silvio Berlusconi. Da un lato c'è il "fare" e dall'altro c'è il "sabotare". Sindacalisti, giudici, intellettuali non compiacenti sono i sabotatori, coloro che impediscono che sia apprezzato il fare di chi comanda. Sergio Marchionne ha parlato allo stesso modo. La Fiat non guadagna nulla in Italia, ma solo all'estero.
Naturalmente ha dimenticato di dire che fuori dal nostro paese la Fiat ha impianti solo ove i salari sono assai più bassi e i finanziamenti pubblici proporzionalmente più alti. Ha dimenticato di dire che in quell'Europa occidentale, ove ci sono quei salari più alti che lui ha promesso agli operai italiani, non c'è alcun stabilimento della Fiat.
Marchionne ha annunciato il taglio di dieci minuti delle pause per i lavoratori di Melfi e Pomigliano, presentandolo come piccola cosa, un piccolo sacrificio peraltro retribuito. Ha così dimenticato di dire che questo taglio corrisponde alla riduzione del 25% delle pause. Ci provi a ridurre del 25% i profitti dei suoi azionisti e vedrà dove lo cacciano. Marchionne ha lamentato l'anarchia degli stabilimenti ove però la Fiom ha solo il 12,5% degli iscritti, senza spiegare perché l'azienda non riesca a governare l'87,5% del proprio personale. Marchionne ha annunciato che l'Italia sarebbe al 118° posto su 139 per efficienza del lavoro. Senza spiegare, d'altra parte nessuno gliel'ha chiesto, da dove venga questa classifica, su quali basi sia costruita, quali siano i fattori che la compongono.
Marchionne ha smentito ogni intenzione di entrare in politica, con la solita ipocrisia degli amministratori delegati che danno giudizi politici, fanno operazioni politiche, e però sostengono che questo è solo mercato.
Marchionne ha lamentato che tre operai a Melfi hanno fermato 1.200 lavoratori, dimenticando che questa sua affermazione è stata condannata come antisindacale da un tribunale che ha disposto il reintegro di quei lavoratori. Sentenza che la Fiat non ha ancora rispettato. Marchionne, come Berlusconi, più fallisce più diventa prepotente, meno è in grado di spiegare più offende. E, come Berlusconi, vede la propria arroganza smontata dal semplice commento di un comico, in questo caso Luciana Littizzetto che alla fine della trasmissione si è più o meno chiesta: «Ma se è così bravo, com'è che chiude Termini Imerese?».
Marchionne ha passato un quarto d'ora in televisione senza spiegare nulla, ma non certo per riservatezza o rispetto delle relazioni sindacali, perché questo è esattamente quello che fa anche al tavolo delle trattative. In Marchionne, come in Berlusconi, è sempre più difficile distinguere l'immagine dalla realtà, la propaganda dai fatti. E poi, esattamente come fa il Presidente del Consiglio, Marchionne si è lamentato di una campagna mediatica avversa. Qui c'è un'assoluta irriconoscenza verso un mondo culturale e politico che invece ha sempre supportato le sue imprese. Al punto di non chiedere neppure conto di fatterelli come la distribuzione di lauti dividendi agli azionisti e poderosi aumenti al top management, mentre agli operai veniva cancellato il premio di risultato. In realtà con il regime informativo che c'è oggi in Italia, se raccoglie cattiva pubblicità Marchionne deve prendersela unicamente con se stesso.
Alla fine bisogna ringraziare questa trasmissione. Dopo di essa le ragioni della Fiom sono ancora più chiare e valide agli occhi di tutti.

Liberazione 26/10/2010, pag 1 e 3

Precari attenti, cercano di fregarvi

Piergiovanni Alleva
Tra le molte novità negative che si leggono nel "collegato lavoro" - ossia nella pessima legge antisociale sulla quale il centrodestra ha ritrovato, non per nulla, una transitoria unità - ne va subito segnalata, "a sirene spiegate", una assai grave e quanto mai pericolosa per il destino di decine e centinaia di migliaia di lavoratori precari, e per la quale occorre subito organizzare un rimedio.
E' infatti una questione da cui può derivare ai precari un grande male, ma che può anche - e questo è l'aspetto singolare - rovesciarsi nel suo contrario, in un grande fatto positivo, ossia nel sospirato ottenimento di un posto di lavoro stabile, se sindacati, partiti progressisti, associazioni democratiche e, ovviamente, gli stessi lavoratori sapranno esser capaci di un adeguato sforzo sia informativo che organizzativo.
Ecco di cosa si tratta. Fino ad ora, ossia fino all'entrata in vigore del "collegato lavoro", era possibile impugnare in giudizio i contratti di lavoro precario di qualsiasi tipo (a termine, di lavoro somministrato o interinale, di lavoro "a progetto" ecc.), che presentassero illegittimità formali e sostanziali e chiederne la trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato, in qualsiasi tempo successivo alla data di scadenza del contratto stesso, senza pericolo di incorrere nella "tagliola" del termine di decadenza di 60 giorni previsto, fin dalla legge n. 604/1966, per la impugnazione di un normale licenziamento da un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
In altre parole, il lavoratore licenziato da un contratto di questo tipo doveva e deve "farsi vivo" con una lettera raccomandata di impugnazione entro 60 giorni dal licenziamento: se spediva questa lettera poi aveva cinque anni per iniziare la controversia giudiziaria, ma se non la spediva il suo licenziamento, anche se illegittimo, diventava inoppugnabile e irrimediabile. Invece, il lavoratore precario che fosse stato estromesso dal posto di lavoro per scadenza del termine previsto nel contratto di lavoro precario poteva far valere la eventuale illegittimità e ottenere la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato anche dopo molti mesi e persino anni dalla sua estromissione dal posto di lavoro.
Era giusta questa differenza e come si spiegava dal punto di vista tecnico-giuridico? Certamente era giusta, perché rifletteva la diversità di atteggiamento psicologico tra i due lavoratori: quello titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che viene licenziato prende subito atto della circostanza che, seppur ingiustamente, la ditta non vuole avere più nulla a che fare con lui, che lo scaccia per sempre e quindi 60 giorni sono sufficienti per decidere se entrare o meno in controversia. Il lavoratore precario il quale invece viene "lasciato a casa" per il fatto "obiettivo" della scadenza del contratto, senza che gli venga fatto addebito alcuno, spera sempre che la ditta lo richiami con ulteriori contratti precari, e che prima o poi lo stabilizzi: per questo è molto restio ad impugnare il contratto precario appena scaduto, anche se sospetta che sia illegittimo, perché non ha, ovviamente, la certezza del risultato giudiziale e teme, intanto, di guastarsi con quel datore di lavoro, perdendo ogni speranza di richiamo. Solo dopo molto tempo, a mesi o anni di distanza, quando ogni speranza sarà svanita, si deciderà liberamente alla controversia.
Dal punto di vista tecnico-giuridico la differenza si spiega perché il licenziamento è un atto di volontà del datore di lavoro, che scioglie un rapporto contrattuale esistente, e quindi va impugnato nei 60 giorni, mentre la comunicazione che "lascia a casa" il lavoratore precario per scadenza del termine non è un atto di volontà ma solo un atto "di scienza", una sorta di fotografia della situazione. Però, se la situazione era in realtà diversa perché il contratto precario era per qualche motivo illegittimo e quindi automaticamente trasformato dalla legge in rapporto a tempo indeterminato, questa è la situazione che viene poi accertata dalla sentenza, senza bisogno di previa impugnazione nei 60 giorni della nullità del termine di scadenza.
Contraddicendo a questa giurisprudenza consolidata, il "collegato lavoro" ha introdotto la necessità di impugnare con raccomandata il contratto precario nel termine di 60 giorni dalla sua (apparente) scadenza e una volta fatto questo di procedere poi in giudizio nei 270 giorni successivi. Dal punto di vista della teoria giuridica si tratta di obbrobrio (in linea generale le nullità possono essere fatte valere in qualsiasi tempo), ma quel che importa è la portata giuridico-politica dell'operazione: si tratta niente di meno che di una sorta di "sanatoria permanente" delle diffusissime illegittimità dei contratti di lavoro precari, perché il lavoratore dovrebbe impugnare entro 60 giorni dalla scadenza, e, come detto, quasi mai lo farà, nella speranza di esser richiamato. E poi non potrà più farlo.
E' un calcolo cinico e vile, del tutto degno di quel gruppetto di transfughi ex sindacalisti che sono divenuti gli esperti e protagonisti della politica antisociale del berlusconismo ed è un calcolo che occorrerà contrastare in sede di Corte costituzionale oltre che di programma per un futuro diverso governo.
Ma vi è di peggio, molto di peggio e veniamo finalmente al punto che massimamente interessa: cosa accade, allora, per i contratti precari illegittimi già scaduti da più di 60 giorni al momento di entrata in vigore del "collegato lavoro"? Sono decine e centinaia di migliaia i lavoratori ex titolari dei medesimi che avrebbero potuto liberamente ancora per mesi e anni in futuro richiedere la loro trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato domandando al giudice sia la reintegra in servizio sia le competenze arretrate. Ovviamente, neanche il "collegato lavoro" ha potuto, per evidenti ragioni di costituzionalità, stabilire una semplice cancellazione retroattiva del diritto di azione per l'impugnazione di rapporti precari già scaduti da più di 60 giorni ed allora ha previsto, invece, che possano essere impugnati entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore. Ciò si legge nell'articolo 32 comma IV, lettere b e d.
E', comunque, un gigantesco colpo di spugna, una enorme sanatoria, perché trascorsi da adesso 60 giorni tutte le illegittimità passate saranno cancellate in quanto quelle centinaia di migliaia di lavoratori perderanno il diritto di far trasformare il vecchio contratto precario illegittimo in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato valido per il passato e per il futuro. Ma poiché del "collegato lavoro" nessuno parla, ed a quei pochi che ne parlano è semplicemente sfuggita questa maxi sanatoria annidata tra le sue previsioni, il piano del centrodestra e del padronato avrebbe, nell'insieme, ottime possibilità di riuscita.
Per fortuna c'è un rovescio della medaglia: quella previsione per cui bisogna, in sintesi, impugnare ora o mai più nei 60 giorni, è anche una gigantesca "chiamata alle armi", una fortissima sirena di allarme, purché qualcuno voglia suonarla, che chiamerà a raccolta tutti coloro che sono stati titolari di rapporti precari, allo scopo di spedire subito, senza guardare per il sottile, una raccomandata di impugnazione dell'illegittimità del contratto precario e di richiesta di trasformazione a tempo indeterminato.
Poi, nei 270 giorni successivi, si faranno analizzare i contratti stessi da esperti che individueranno esattamente le illegittimità: non bisogna però temere di avere - con l'impugnazione immediata nei 60 giorni - "sparato a vuoto", perché tutti gli avvocati lavoristi sanno che almeno il 90% dei contratti precari è illegittimo, alla stregua della stessa "legge Biagi" e perfettamente trasformabile in rapporti a tempo indeterminato.
La "cattiva novella" del "collegato lavoro" può allora divenire invece una buona, buonissima novella, perché darà la sveglia alle decine e centinaia di migliaia di persone, ex lavoratori precari, che oggi sono a casa nella depressione e nell'angoscia della disoccupazione. Essi non lo sanno, ma in realtà hanno in tasca il biglietto vincente della lotteria, ovvero il passaporto per un contratto di lavoro stabile, oltre che per un risarcimento.
Basta che adesso corrano senza perder tempo, con il vecchio contratto precario scaduto in mano a far scrivere e spedire la lettera di impugnazione che deve partire nei 60 giorni. Ma dove devono andare in concreto? Da un esperto, da un legale lavorista, certamente, ma soprattutto da quelle organizzazioni, e cioè sindacati, partiti progressisti, associazioni democratiche alle quali spetta il compito complesso, ma tutt'altro che impossibile, di pubblicizzare al massimo con ogni mezzo di informazione quanto abbiamo qui spiegato, e poi di organizzare, con "banchetti", "sportelli", "punti di incontro" la raccolta delle firme e la spedizione delle raccomandate.
Sessanta giorni sono pochi - è vero - ma se vi è la volontà politica sono più che sufficienti, agendo tutti senza gelosie di organizzazione, in uno sforzo comune, al quale ci sembra si addica molto il detto secondo il quale «poco importa che il gatto sia nero o bianco; importa che prenda i topi».
Piergiovanni Alleva

Liberazione 24/10/2010, pag 1 e 5

Non siamo bestie

Quando abbiamo visto che i "ragazzi delle rotonde", come li chiamiamo qui, sono arrivati con i cartelli con su scritto "non lavoriamo per meno di 50 euro" quasi non ci credevamo. E' stato in quel preciso istante che abbiamo pensato al sacrificio dei nostri fratelli africani, trucidati dalla camorra nel 2008 a Castelvolturno. Fratelli di sangue e di sudore, non spacciatori di droga, come li ha dipinti la stampa italiana.
Alle "Kalifoo ground" di Licola, Pianura, Quarto, Casal di Principe, Villa Literno, Baia Verde, Giugliano, Qualiano, Afragola, Arzano, Scampia, Caivano alla fine abbiamo contato più di mille persone. Sono tante se consideriamo che il numero di chi di fatto è senza permesso di soggiorno si aggira intorno alle 3.200 persone in un'area che va dal litorale domiziano alle porte di Napoli.
Abbiamo costretto i caporali ad andarsene via con i pulmini vuoti. Uno l'abbiamo riconosciuto e gli abbiamo sbattuto il cartello sul parabrezza. A Baia Verde il presidio dei ragazzi ghanesi e nigeriani si è tenuto proprio nella piazzetta dove due anni fa, al termine di un concerto per le vittime di Castelvolturno, morì Miriam Makeba, mamma Africa.
Questo sciopero è cominciato come un avventura e alla fine è stato un successo. Ne abbiamo discusso tanto tra di noi. Alcuni non erano d'accordo. Alla fine abbiamo dimostrato che i migranti riescono ad alzare la voce. E riescono a farlo insieme. Non stiamo parlando di rivolta, ma semplicemente di alzare la voce e far capire che siamo uniti. Se prima la nostra battaglia era esclusivamente legale e burocratica contro le assurdità di una legge che di fatto ci impedisce di metter piede in Italia legalmente, nella provincia di Caserta l'8 settembre scorso abbiamo lottato contro la gestione del mercato delle braccia.
Alle "Kalifoo ground" tutte le notti tra le tre e le quattro i ragazzi vengono selezionati dagli emissari della criminalità, proprio come gli animali da macello, per essere poi trascinati nei campi. Lavorano per anche dieci, quindici ore e il compenso, se così vogliamo dire, è tra i quindici e i venti euro. Se non fai il carico che decidono i capi, del tutto arbitrariamente, il giorno dopo rimani a casa.
L'idea di fare lo sciopero era forse una pazzia, perché la crisi economica si fa sentire per tutti. E i migranti pagano doppia la crisi, se non tripla. Il loro "compenso" si riduce a causa dell'aumento dei prezzi, della mancanza di lavoro, dell'arbitrio dei caporali. Eppure i ragazzi hanno preso coraggio e sono venuti. Qualche caporale, incuriosito, si è pure avvicinato. Gli abbiamo spiegato che non ci stiamo più ad essere trattati come bestie. Perché nessuno fa i controlli? I ragazzi non possono fare denunce perché molti di loro non hanno il permesso di soggiorno, condizione che in base a una legge assurda ti fa uguale ad un criminale. Ci sentiamo dentro una tenaglia che blocca qualsiasi nostra capacità di reazione.
La verità è che non ne possiamo più. Dopo esserci spaccati la schiena per più di mezza giornata andiamo a fare la nostra misera spesa al supermercato. E la busta di plastica col passare dei mesi si fa sempre più piccola. Continuare così è impossibile. Solo una generazione fa, i migranti riuscivano a mandare qualcosa a casa. Oggi non accade più. Si lavora per la sussistenza e basta. Paghiamo l'affitto almeno cinquecento euro. E poi, la luce e il gas. Chi ha la possibilità di avere un trattamento sanitario temporaneo deve pagare pure il ticket qui in Campania. Il dieci per cento del Pil dell'Italia viene dalle braccia dei migranti. Perché l'Italia ci ripaga con questa violenza? Non è certo un paese che si può vantare di sedere al tavolo del G8. Ottenere il permesso di soggiorno è un incubo ormai. Nella sanatoria per colf e badanti del 2009 diversi di noi sono incappati in una truffa. Presi dalla disperazione hanno dovuto pagare anche migliaia di euro per essere regolarizzati ma alcuni datori di lavoro hanno presentato più di quattro o cinque domande.
Le pratiche in qualche caso sono state bloccate perché la differenza di reddito dei datori di lavoro era di poche centinaia di euro rispetto a quanto consentito. Ma non c'è un modo per scartare prima queste domande? Una volta associata la pratica al nome di un migrante se viene annullata il migrante diventa un clandestino.
A Roma ci hanno promesso un tavolo per aprire il discorso, ma ci hanno fatto anche capire che alla fine la decisione è politica. Sono ben due le direttive europee che il governo italiano non ha alcuna intenzione di applicare arrivando fino al punto di trovare normale il pagamento delle sanzioni. Molti hanno pure detto che il reato di clandestinità è non costituzionale.
I centri di identificazione ed espulsione rappresentano spese inutili. Avere il permesso di soggiorno sarebbe normale se fosse tutto più trasparente. Dalle campagne, in mano alla camorra, ai Cie la filiera dello sfruttamento e dell'umiliazione è sempre la stessa. E' evidente che se le leggi producono schiavitù non sono certo adeguate.
Il risultato dello sciopero delle rotonde ha fatto sì che i ragazzi siano diventati più consapevoli. Oggi, lo slogan "non lavoro con meno di 50 euro" è sulla bocca di tutti. A poco a poco diventerà una pratica sindacale quotidiana. Oggi è una provocazione, ma è servita a sensibilizzare.
La vera battaglia inizierà domani, quando vedremo la loro reazione. Non c'è un percorso prestabilito, si tratta di costruirlo insieme giorno per giorno. Certo, abbiamo paura che i fatti di Rosarno e Castelvolturno non rimangono isolati, ma adesso siamo più consapevoli. Grazie ai ragazzi dell'ex Canapificio ora sappiamo quali sono i nostri diritti. Quelli vogliamo, e non favori. Diritto vuol dire dignità, ciò che per troppo tempo ci è stata negata.
(Testimonianze di Said e Mamadou raccolte da Fabio Sebastiani)

Liberazione 21/10/2010, pag 13

Sì preventivo al licenziamento, così l'azienda ricatta i lavoratori

In cambio della cassa in deroga, Wagner Colora chiede la firma delle "pre-adesioni"

Matteo Gaddi
Ancora una storia di ricatti nei confronti dei lavoratori; una di quelle da raccontare a Bonanni e a quanti blaterano di "responsabilità" o a coloro che non hanno ancora capito cosa possa significare il collegato lavoro con il suo portato di rinunce per i lavoratori a far valere i loro diritti anche in sede giudiziaria.
Siamo tra Burago e Gessate, nel cuore della Lombardia, uno dei principali centri produttivi del Paese, forse d'Europa. La Wagner Colora, per sottoscrivere un accordo sulla cassa integrazione in deroga, pretende che una parte di lavoratori firmi un documento di pre-adesione con il quale viene accettato il licenziamento che farebbe seguito al periodo di ammortizzatore sociale, rinunciando preventivamente ad impugnarlo. Altrimenti, dichiara l'azienda, non si tratta su niente e si va avanti con i licenziamenti che per 37 lavoratori hanno già preso il via con la ricezione della lettera.
La Wagner Colora è una azienda tedesca che progetta, produce e commercializza apparecchiature e sistemi professionali per la verniciatura a spruzzo con vernici liquide e per il fluid handling (travaso ed estrusione). Nel gennaio 2009 subisce i colpi della crisi come la larghissima parte delle imprese, anche se nel dicembre 2008 la Wagner ha modo di festeggiare un ottimo risultato di bilancio. Nel 2009 si comincia con una cassa integrazione ordinaria a rotazione applicata abbastanza correttamente. Che le cose non siano particolarmente gravi è testimoniato dal fatto che, nonostante l'azienda abbia ottenuto 13 settimane di cassa, quest'ultima viene rotta dopo circa un mese e mezzo.
Per qualche mese, quindi, il lavoro riprende normalmente, ma di lì a poco la situazione peggiora e l'azienda decide di aprire stavolta una procedura di mobilità per 29 unità poi ridotte a 15. Viene concessa anche la cassa straordinaria, motivata da ristrutturazione, per 12 mesi. In questo caso la rotazione della cassa è molto più discrezionale di quella precedente: vengono colpiti innanzitutto i lavoratori iscritti al sindacato. Alla Wagner il sindacato prima dell'inizio della crisi non era mai entrato in fabbrica, è solo nel 2009 che cominciano le prime iscrizioni, subito penalizzate dal ricorso alla cassa nei confronti dei lavoratori sindacalizzati.
Tra aprile e luglio 2010 vengono a scadere sia la mobilità che la cassa straordinaria. Sulla mobilità il risultato è pressoché raggiunto: l'organico si riduce di 13 unità rispetto alle 15 ipotizzate dall'azienda. Ma è sulla ripresa del lavoro che cominciano i problemi più pesanti. Seppur con un organico ridotto di 13 unità, il carico di lavoro cresce almeno del 25%. Nonostante ciò, la Wagner decide comunque di aprire una ulteriore procedura di mobilità per 37 lavoratori. Il 20 luglio 2010 comincia così il nuovo timing dei 75 giorni necessari per il raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali. La motivazione della Wagner è l'intenzione di spostare parte della produzione in un Paese dove il lavoro costa meno. Cioè la Svizzera!
In realtà la volontà dell'azienda è un'altra: quella di cominciare la dismissione degli stabilimenti italiani per concentrare la produzione negli stabilimenti tedeschi e svizzeri. E' nel corso di questa trattativa che la Wagner cala il suo ricatto: si dichiara disponibile a sottoscrivere un accordo per la concessione della cassa in deroga (soluzione caldeggiata dal ministero del Lavoro) ma chiede in cambio la firma delle pre-adesioni. La Wagner pretende anche di scegliere essa stessa le persone da sottoporre a questo "trattamento". Altrimenti, fa sapere, non si parla nemmeno di cassa in deroga e si va avanti spediti con la procedura di licenziamento per i 37 lavoratori interessati dalla mobilità.
Ovviamente di fronte a questo ricatto la trattativa si rompe. Una parte dei lavoratori della sede di Brugherio dà avvio ad una forte mobilitazione che porta all'assemblea permanente. Un'altra parte, invece, si riunisce in un albergo a 4 stelle per dichiarare che «non è bello che qualcuno debba essere licenziato ma è per il bene degli altri che sono la maggioranza…». Insomma, una parte di dipendenti ritiene che seppur dolorosa questa scelta faccia parte di «un piano di sviluppo deciso dall'azienda per far fronte ad una difficile situazione finanziaria». Così, mentre i lavoratori del presidio si autofinanziavano per far fronte alle spese minime dell'assemblea permanente (un po' di generi alimentari, qualche striscione ecc.), nel centro congressi del Cosmo Hotel si decideva che la lotta non era il miglior modo di difendere i diritti dei lavoratori.
L'azienda, dunque, è riuscita a creare una grave frattura tra i lavoratori convincendone una parte che per mantenere la continuità aziendale si rende necessario sacrificare una parte di colleghi. Ma grazie alla lotta di chi è rimasto ad animare l'assemblea permanente la trattativa sembra riaprirsi. C'è ora la possibilità che possano essere rimosse le posizioni più estreme per cercare una soluzione che, quantomeno, rispetti la dignità e i diritti dei lavoratori.

Liberazione 21/10/2010, pag 5

La destra riscrive il diritto del lavoro. Con il sì dell'Udc

Il ddl introduce l'arbitrato. Fantozzi (Prc): l'atto più grave di questa legislatura

Piccolissime tracce sui giornali, qualcosina di più - ma parliamo sempre di poche decine di righe - sui siti Web di informazione. Che invece sono stracolmi di notizie e commenti sul lodo Alfano, sulle diatribe dentro la maggioranza. Eppure, l'altra sera - quando questo giornale aveva già chiuso in tipografia - la Camera ha approvato, in via definitiva, un disegno di legge destinato a cambiare profondamente la Costituzione. Destinato a cambiare le condizioni di lavoro di centinaia di migliaia di persone. Peggiorandole, e di molto. Lasciandole senza protezione.
Cos'è successo? E' accaduto che la Camera ha approvato, in seconda lettura, il testo di quello che tutti chiamano "ddl lavoro". L'ha approvato a stragrande maggioranza, con un voto che ha rimesso insieme i pezzi della destra. Con in più - dato rilevante - tutti i deputati dell'Udc, nessuno escluso. Contro, solo i democratici e l'Idv.
Che però - a differenza di quanto hanno annunciato a proposito del Lodo Alfano - in questo caso non hanno promesso di fare «le barricate». E dire, invece, per usare le parole di Roberta Fantozzi, responsabile Lavoro del Prc, che si tratta di «uno degli atti più gravi di questa legislatura».
Tanto grave che il Presidente Napolitano aveva già mosso dei rilievi, a marzo, alla prima stesura del testo. La maggioranza di destra e il «centro» - in questa inedita alleanza che può contare, naturalmente, anche sul sostegno di Bonanni e Angeletti - l'hanno invece riproposto sostanzialmente identico.
Ma ecco di che si tratta, in pillole. La misura più allarmante è quella che introduce nuove norme sull'«arbitrato». Si limita - e notevolmente - la sfera di competenza dei giudici e soprattutto si introduce il cosiddetto «canale della conciliazione». Per essere ancora più chiari: d'ora in poi per le nuove assunzioni sarà possibile firmare una clausola in cui il lavoratore e azienda affidano le loro controversie ad un «arbitro» e non più ad un giudice. Un «arbitro» che potrà decidere anche in deroga rispetto ai contratti di lavoro. Tradotto: significa che le nuove assunzioni - è facile prevedere: tutte le nuove assunzioni, nessuna esclusa - avverranno con questa clausola. Che di fatto lascerà i nuovi occupati senza più alcuna tutela. Hanno riscritto lo Statuto, insomma senza neanche discuterne. E senza neanche troppi clamori.
E ancora, non è finita. Grazie ad un emendamento proposto dal deputato Cazzola, del Pdl, il pacchetto di norme arriva ad eliminare anche una delle poche - se non l'unica - realizzazione dei governi di centrosinistra: l'innalzamento a sedici anni dell'obbligo scolastico. Ora invece si torna indietro: già a quindici anni sarà possibile entrare al lavoro. Naturalmente, a patto, che tutto sia mascherato da «apprendistato».
Nel raccontare le norme previste dalla legge si usa il verbo al presente, visto che il ddl è stata approvato e sta per entrare in vigore. Forse però sarebbe meglio utilizzare il condizionale. Perché sono evidenti - un po' a tutti, anche a molti ambienti lontani dalla sinistra - che le nuove norme contengono tanti aspetti anticostituzionali. Come il divieto - per i neo assunti che firmino la clausola ricattatoria - di poter poi ricorrere ad un giudice.
Ed è proprio sul terreno giuridico che la Cgil - che l'altra sera, appena s'è sparsa la notizia dell'approvazione, era già sotto Montecitorio coi cartelli di protesta - ha deciso di cominciare la sua battaglia. Fulvio Fammoni, segretario confederale, annuncia che la Cgil, da subito, procederà con un ricorso alla consulta. A cui seguirà un appello con firme di magistrati, costituzionalisti, per bloccare l'applicazione delle norme. «In ogni caso - dice Fammoni - sapremo come difenderci da queste norme».
Questo sul versante giuridico. Ma le organizzazioni dei lavoratori - la parte maggioritaria delle organizzazioni dei lavoratori - è decisa a condurre una battaglia politica e sociale per impedirne l'applicazione. Semplicemente perché - come sostiene ancora il dirigente della Cgil - «sovverte il diritto del lavoro, così come è esistito fino ad ora in Italia».
Su questa linea anche le opposizioni della sinistra fuori dal Parlamento. Paolo Ferrero, segretario del Prc, interpellato dai giornalisti a Bologna ai margini di un convegno della Fiom, ha detto che probabilmente lo schieramento contrario alla legge avrebbe potuto fare di più in Parlamento. «Ci si poteva svegliare prima - ha risposto il segretario - Per riuscire a farla rimandare alle Camere - ha aggiunto - ho dovuto fare uno sciopero della fame e chiederlo io a Napolitano. Forse si poteva fare di più». La battaglia, comunque, è appena cominciata.
s.b.

Liberazione 21/10/2010, pag 5

mercoledì 20 ottobre 2010

Dalla Zastava: «Siamo con voi»

Quella che segue è la lettera che il Samostalni, sindacato dei lavoratori della Zastava, ha inviato ai lavoratori della Fiat di Pomigliano.
«Cari lavoratori italiani, la crisi economica ha portato alla crisi del mercato di lavoro accompagnata dall'attacco grave ai diritti dei lavoratori. Mai come ora siamo stati così ricattati per mantenere posti di lavoro e si accettano condizioni peggiori di quelle precedenti. I padroni se ne approffittano con l'unico intento di mettere gli uni contro gli altri per fare maggiori profitti. Dicono che è colpa nostra se abbassano i salari, diminuiscono posti di lavoro e spostano produzioni, sempre in cerca di quelli che sono costretti ad accettare di lavorare ad ogni costo. Noi dalla Serbia ribadiamo che non accetteremo questi ricatti. Noi vogliamo lavorare ma in modo dignitoso, senza pressioni e ricatti e queste richieste saranno sicuramente sempre un legame tra noi e voi. Vi diamo la nostra piena solidarietà nella battaglia per difendere interessi e dignità comuni e vi invitiamo a rafforzare l'unità tra tutti i lavoratori con l'obiettivo di poter costruire un mondo migliore per i nostri figli».
Zoran Mihajlovic segretario Samostalni, Fiat Auto Serbia

Liberazione 17/10/2010, pag 11

In Abruzzo il 90% dei pastori è macedone

Rapporto Istat: gli stranieri residenti in Italia hanno superato la quota di quattro milioni

Stefano Galieni
Nelle stalle dove si munge il latte da cui si ottiene il parmigiano Reggiano, un lavoratore su tre è indiano, in Abruzzo il 90% dei pastori è macedone. Solo alcuni dati di complemento della Coldiretti al rapporto Istat sull'immigrazione in Italia aggiornato al 1 gennaio 2010. Per costoro la presenza migrante nei loro comparti - 90 mila persone quelle regolarmente assunte - è fondamentale per mantenere in piedi l'attività.
Ma quello della Coldiretti è uno spaccato parziale, secondo l'Istat sono 4.235.059 gli immigrati presenti in Italia, circa il 7% della popolazione, con un incremento di mezzo punto percentuale rispetto all'anno precedente. L'incremento c'è - 344 mila persone rispetto al 2009 - ma minore rispetto agli anni passati, segno che anche la crisi e il caos legislativo contribuiscono a rendere meno appetibile l'Italia come paese di immigrazione.
Cresce anche la presenza di figli di migranti nati in Italia, circa 77 mila, il 13,6% del totale delle nascite registrate. I minori stranieri risultano così essere quasi 933 mila, di questi 573 mila sono nati in Italia, gli altri sono entrati in gran parte attraverso i ricongiungimenti familiari. Chi emigra nel "Belpaese" proviene per oltre il 50% dei casi dall'Europa orientale, in gran parte dai paesi neocomunitari, aumenta anche la presenza asiatica. Nonostante le residenze si concentrino nelle regioni settentrionali grazie a maggiori opportunità occupazionali, (oltre il 60%) sta aumentando la presenza regolare anche nel meridione (il 13,1%), una crescita più intensa che nel resto del Paese. I dati dell'Istat fotografano una realtà però in eterno movimento; la mobilità dei cittadini migranti, il variare delle proprie condizioni socio lavorative, la ricerca di condizioni più confacenti per il nucleo familiare, soprattutto per i minori, ha un carattere fluido e difficilmente interpretabile da una ricerca puramente quantitativa. Su questo incidono due fattori strutturali: la crisi economica e la legislazione, intimamente interconnessi. La crisi sta espellendo lavoratori dal ciclo produttivo e in prospettiva li rende irregolari e clandestini, va da se che molti nuclei familiari facciano ritorno in patria per lasciare al capofamiglia l'onere di provvedere, spesso in condizioni di lavoro nero, al sostentamento. Le leggi che permettono facilmente di passare dalla regolarità alla irregolarità, difficilmente favoriscono il percorso inverso, col risultato che a questo rapporto sfuggono forse 700 mila persone, presenti irregolarmente o in attesa di regolarizzazione, ma impiegate a tempo pieno in diversi settori dell'economia, in primis agricoltura, edilizia, commercio, lavoro di cura.
Gli invisibili perennemente esposti alle variazioni di umore di questure e prefetture, alle necessità di espulsioni di propaganda piuttosto che a mantenere basso in alcuni settori il costo del lavoro. Invisibili per cui anche il codice penale, tanto con il Testo Unico, quanto con l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, assolvono il compito di strumenti discriminatori. Basti pensare all'ultimo caso balzato agli onori della cronaca, la rivolta dei 103 rinchiusi nel centro di prima accoglienza cagliaritano nei pressi dell'aeroporto. Dopo una notte di relativa quiete si è giunti ad una ricostruzione effettiva delle dinamiche che hanno portato alla rivolta, gli 11 che erano riusciti a raggiungere le piste di volo in un disperato tentativo di fuga , sono stati processati ieri per direttissima per danneggiamenti, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio. Rischiano condanne anche pesanti e il 16 ottobre saranno ancora in aula, ma intanto è già stato firmato per loro il decreto di espulsione.
L'accordo bilaterale con l'Algeria, firmato da un governo di centro sinistra, permette veloci procedure per il rimpatrio indipendentemente se i ragazzi saranno o meno assolti. Gli altri sono ancora trattenuti, il Prefetto continua a dichiarare idonea la struttura - in gran parte distrutta dopo la rivolta - il ministro Maroni, assicura maggiori forze per la vigilanza a Cagliari e negli altri centri, i sindacati di polizia e le associazioni di consumatori chiedono che il centro sia spostato in luogo meno pericoloso. Spostarli, come si fa con le discariche, magari in un comune disperso, non certo stabilire percorsi di inclusione e di valorizzazione delle persone per quello che sono e non per quanto producono. Questo non lo vuole dichiaratamente la Lega, ago della bilancia del governo, ma su questo poco si sofferma anche l'opposizione parlamentare, in fondo se per l'Istat gli irregolari non esistono, perché regolarizzarli?

Liberazione 13/10/2010, pag 2

lunedì 18 ottobre 2010

Metalmeccanici, contratto derogabile

Repubblica — 30 settembre 2010 pagina 30 sezione: ECONOMIA

ROMA - Arrivano le deroghe nel contratto dei metalmeccanici. Federmeccanica, Fim-Cisl e Uilm hanno raggiunto ieri l' accordo che permette alle aziende, d' intesa con i sindacati, di disciplinare specifiche materie in maniera diversa da quanto previsto dal contratto nazionale. «Uno strappo democratico gravissimo», l' ha definito il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, che non ha partecipato al negoziato non avendo sottoscritto il contratto nazionale del 2009 che apre la strada, appunto, alla derogabilità. «Un accordo che favorirà gli investimenti», invece, secondo il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Le deroghe potranno essere definite in tutti i settori e non solo in quello dell' auto dal quale è nata questa vicenda. A "imporre" un' accelerazione all' intesa di ieri è stata, infatti, la Fiat di Sergio Marchionne. L' ad del Lingotto ha chiesto certezze in tempi rapidi dopo che il referendum sulla nuova organizzazione del lavoro nello stabilimento di Pomigliano d' Arco non si tradusse in un plebiscito tra i cinquemila lavoratori: i sì arrivarono al 63 per cento, un livello secondo la Fiat da non garantire la piena governabilità della fabbrica dove il gruppo sta investendo 700 milioni di euro. Il nuovo contratto dovrebbe così creare una rete protettiva dalle "incursioni" dei ricorsi giudiziari. L' accordo sulle deroghe non ha tuttavia chiuso il capitolo delle modifiche al sistema delle relazioni industriali perché la Fiat insiste anche nel chiedere un contratto specifico per il comparto dell' auto. Ieri la Federmeccanica ha rilanciato la questione. Uilm e Fim sono contrari ma il 5 ottobre ci sarà un incontro a Roma tra la Fiat e, questa volta, tutti i sindacati. Le deroghe, temporanee o sperimentali, saranno possibilio per contenere gli effetti economici e occupazionali di una crisi aziendale; oppure per favorire nuovi investimenti e nuove iniziative industriali. L' accordo - sulla scia di un' intesa identica, anche se mai applicata, tra i chimici - precisa le materie che non possono essere modificate: i minimi tabellari, gli scatti di anzianità, l' elemento perequativo (una voce contrattuale che tutela i lavoratori privi del contratto aziendale), i diritti individuali, infine, derivanti da norme «inderogabili» di legge. Tassello dopo tassello - con l' opposizione della Cgil - sta prendendo corpo un nuovo modello di relazioni industriali così che sembra già scolorire la cosiddetta "svolta di Genova" quella dello scorso week-end con l' invito di tornare al tavolo rivolto dalla Confindustria a Epifani. Al nuovo modello contribuiscono anche il governo e la maggioranza. Ieri al Senato è passato, in sesta lettura, il controverso disegno di legge sull' arbitrato che in una prima versione tendeva pure ad aggirare le tutele previste dall' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Anche per questo il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firmò la legge e la rinviò in Parlamento per un nuovo esame. Il testo approvato a Palazzo Madama modifica, tra l' altro, i tempi entroi quali scegliere se affidarsi all' arbitro (tranne che per i licenziamenti) oppure al magistrato per la risoluzione delle controversie. Tale scelta va fatta entro trenta giorni dall' assunzione. Nella versione licenziata dalla Camera, dove il ddl dovrà tornare, si prevedeva, invece, per effetto di un emendamento del Pd, che si potesse scegliere una volta sorta la controversia tra il lavoratore e il datore di lavoro. Per l' opposizione e per la Cgil continua ad essere una norma «anticostituzionale». Il disegno di legge contiene tantissime altre cose tra loro eterogenee e per questo criticate da Napolitano. È previsto, per esempio, l' abbassamento di fatto dell' obbligo scolastico da 16 a 15 anni, con l' ultimo anno in cui si può andare a fare l' apprendista anziché frequentare la scuola. I tempi per l' impugnazione dei licenziamenti (pure per quelli invalidi) si accorciano dagli attuali cinque anni a 60 giorni (più i 270 giorni per il deposito dal giudice). Tornano i risarcimenti per le vittime dell' amianto sulle navi di Stato (stanziati 5 milioni di euro l' anno a partire dal 2012) ma si elimina l' eventuale responsabilità penale degli ammiragli. E poi le norme sui dirigenti del servizio sanitario che potranno lavorare fino a 70 anni di età. Infine viene confermata la delega al governo per la definizione dei lavori usuranti e si allungano i tempi per la riforma degli ammortizzatori sociali: l' esecutivo potrà varare i decreti delegati entro due anni dall' approvazione della relativa delega. - ROBERTO MANIA

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/09/30/metalmeccanici-contratto-derogabile.html

giovedì 14 ottobre 2010

I sindacati Usa che piacciono a Marchionne aderiscono alla manifestazione della Fiom

Repubblica — 29 settembre 2010 pagina 26 sezione: ECONOMIA

TORINO - Quando ieri pomeriggio, nel grande albergo del Lingotto alle spalle degli uffici della direzione Fiat, il capo della delegazione americana Bob King ha incontrato i sindacalisti della Fiom, la prima domanda è stata: «È vero che siete l' ultimo sindacato comunista rimasto in Europa?». Risata generale. Conseguenze della strana guerra diplomatica (e relativi colpi bassi) che si è scatenata tra i sindacati metalmeccanici italiani alla notizia che era in Italia uan delegazione del Uaw, l' organizzazione dei lavoratori della Chrysler, oggi principale azionista (attraverso una società terza) della casa di Detroit. Lunedì pomeriggio gli americani sono stati ricevuti da Giuseppe Farina e una delegazione della Fim nazionale: «Piena sintonia con il sindacato Usa - hanno dichiarato i metalmeccanici della Cisl - nell' approccio ai temi della difesa dei posti di lavoro e dei diritti». Non meno positivo il giudizio del Fismic: «Un incontro proficuo», ha detto il segretario nazionale Roberto Di Maulo che ha anche regalato alla delegazione americana un toro di bronzo, simbolo della città di Torino. Ma l' attenzione era ovviamente puntata sull' incontro di ieri pomeriggio tra King e il vertice della Fiom, il sindacato che non piace a Sergio Marchionne. Incontro preceduto da una mossa imprevista: il Uaw ha aderito alla manifestazione del 16 ottobre, quella organizzata a Roma dalla sola Fiom per protestare contro la linea della Fiat nella trattativa su Pomigliano e sui licenziamenti. «Quel che dobbiamo evitare - ha detto Maurizio Landini - è che si crei una contrapposizione tra i lavoratori. Per questo sono contento della solidarietà del sindacato americano alla nostra manifestazione». King e i suoi non hanno nascosto alla Fiom di «apprezzare molto quanto sta facendo Marchionne alla Chrysler. Del resto hanno aggiunto - anche voi avevate un atteggiamento simile fino a poco tempo fa. A proposito, che cosa è accaduto per farvi cambiare opinione?». Al termine il giudizio del resposnabile auto della Fiom, Giorgio Airaudo,è positivo: «Abbiamo da tempo contatti con il sindacato americano e li rafforzeremo. Tutti abbiamo concordato che non ha senso immaginare di trasferire in Italia il modello sindacale americano e viceversa». © RIPRODUZIONE RISERVATA - (p.g.)

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/09/29/sindacati-usa-che-piacciono-marchionne-aderiscono.html

mercoledì 13 ottobre 2010

La miseria del riformismo. Distrutto dai campioni della globalizzazione

Sinonimo di trasformismo, oggi serve solo a sorreggere le ragioni del potere

Pubblichiamo ampi stralci del sesto capitolo, "Il riformismo della miseria", dell'ultimo libro di Giorgio Cremaschi "Il regime dei padroni" (Editori Riuniti, pp.220, €15,00), in libreria da domani.

Giorgio Cremaschi
«Tina: There Is No Alternative. Non c'è alcuna alternativa. L'acronimo della globalizzazione è questo.
Il primo che l'ha adoperato nella polemica politica quotidiana è stato il primo ministro britannico, signora Margareth Thatcher, nelle sue guerre degli anni Ottanta contro i minatori e contro tutte le conquiste sociali del suo paese. Non c'è alternativa: le scelte del mercato hanno la stessa oggettività della natura, sono eventi naturali. Che poi l'ideologia della naturalità del mercato sia professata da parte di chi sta distruggendo gli equilibri dell'ambiente e della vita sul pianeta, è solo il segno che, chi pensa così, in realtà pone il mercato al di sopra di tutto.
Per i fanatici del Tina il mercato è la prima natura. La natura vera, quella che ci circonda, viene dopo e può essere manipolata a piacere. L'aria, l'acqua, la terra e la vita possono essere sfruttate e devastate, perché gli unici limiti realmente intoccabili sono quelli del profitto.
Il delirio d'onnipotenza che si manifesta dietro la sindrome del Tina è mal simulato dalla oggettività di cui si circonda. Evidentemente un potere che si legittima dando forza di natura alle proprie scelte, si sente insindacabile. Può essere solo rovesciato, come i sovrani assoluti francesi, che erano figure sacre, addirittura dotate di capacità taumaturgiche. Ai sovrani francesi l'autorità veniva direttamente da Dio; ai potenti della globalizzazione viene direttamente dal mercato. La svolta politica liberista dei governi ha così prodotto, come effetto collaterale, la distruzione del prodotto più tipico della cultura politica europea: il riformismo.
Ma com'è possibile affermare che il riformismo sia stato distrutto dalla globalizzazione, se oggi la maggior parte delle forze politiche di destra e di sinistra usano questo termine per autodefinirsi? Sono riformisti i sindacalisti e i governanti, gli scienziati e i teologi, gli imprenditori e gli operai. Il riformismo pare abbracciare tutto e tutti, definisce il perimetro che chiude il campo della politica reale; perimetro oltre il quale veleggiano solo le utopie. (…)
Nella storia europea il riformismo è sempre stato la cultura politica e sociale della crescita equilibrata, senza avventure rivoluzionarie. Soprattutto dopo la sconfitta del fascismo è stato l'alternativa vincente rispetto al comunismo, che aveva conquistato l'Europa orientale. Il riformismo mostrava che potevano crescere i diritti sociali e il benessere, poteva affermarsi un certo livello di eguaglianza sociale, anche senza mettere in discussione la democrazia, come invece si faceva a Oriente. Il cambiamento graduale, l'equa ripartizione della ricchezza senza danneggiare davvero nessun ceto sociale, lo sviluppo che includeva sempre più persone nella cittadinanza: tutto pareva destinato a continuare. (…)
Quando invece il riformismo ha preteso di definirsi come tale, proprio allora il progresso graduale si è arrestato e le società europee hanno cominciato a regredire. Così il riformismo ha trovato la sua precisa collocazione. Non era più lo strumento per disciplinare la crescita economica e l'eguaglianza sociale senza avventure rivoluzionarie, ma quello per governare la ritirata dalle conquiste sociali e civili di un secolo.
Se non ci sono alternative al domino del mercato globalizzato, compito del riformismo è di educare ad accettare le perdite, trasformandole in rinunce condivise. Riformismo diventa così una parola malata, secondo il giudizio dell'ex segretario della Cgil Sergio Cofferati. Una parola che serve semplicemente a sorreggere le ragioni del potere. Sono tutti riformisti, perché nessuno lo è davvero più. (…) Il compromesso riformista prevedeva che il pubblico guadagnasse spazi e arrivasse anche a rilevare importanti settori del sistema industriale e del sistema bancario. Tutto, però, senza intaccare gli affari e i poteri fondamentali della casta economica che guidava le imprese private.
In ogni caso anche questo compromesso venne messo in discussione a partire dagli anni Ottanta e da allora la parola riforme ha cambiato il suo significato sociale. Oggi i lavoratori, quando sentono parlare di riforme, subito hanno un brivido e mettono la mano per tenere fermo il portafogli. Essi sanno perfettamente che le riforme cui si allude li riguardano. Di riforme strutturali oggi parlano il Fondo monetario internazionale, la presidenza della Banca europea, le agenzie di rating che danno i voti sull'affidabilità speculativa delle aziende così come degli stati, la Confindustria e il sistema delle imprese.
Se un'economia non va bene, vuol dire che ha bisogno di riforme strutturali. Che nella sostanza sono il riavvolgimento all'indietro del film del progresso sociale. Le riforme di oggi sono semplicemente controriforme. Dove c'era il pubblico, si torna al privato; dove la gestione politica, i poteri del mercato; dove il servizio sociale, il profitto; dove c'era l'uguaglianza, la frantumazione, per favorire la competizione tra le persone. (…) Oggi si usa la parola riforma proprio per distruggere le riforme sociali realizzate nel secolo scorso.
Quelle riforme in molti casi estendevano a tutti i cittadini diritti e conquiste sociali che i lavoratori avevano raggiunto per se stessi. I risultati privati dei lavoratori diventavano diritti pubblici. Le mutue diventavano sistema sanitario nazionale, le pensioni diventavano un sistema pubblico per tutti, il controllo sindacale sul mercato del lavoro diventava pubblico collocamento e così via.
(…) Quando il lavoro estendeva le sue conquiste, miglioravano i diritti di tutti; quando l'impresa impone alla società la sua logica del profitto, quei diritti sono messi in discussione.
Qui sta la miseria del riformismo attuale. Che non a caso, nella crisi permanente della politica italiana, è progressivamente diventato sinonimo del trasformismo. Cioè di quel fenomeno politico di fine Ottocento, definito dal poeta Giosuè Carducci come: «La sinistra che si fa destra senza essere più sinistra senza essere vera destra».
(…) E così i politici di destra e di sinistra si contendono la primogenitura delle scelte più incisive e, come si dice oggi, coraggiose, a favore del mercato e ai danni delle conquiste sociali. Tutte le parole cambiano segno: le riforme diventano controriforme, il coraggio significa sfacciataggine contro i più deboli, il nuovo e il moderno spesso nascondono il ritorno all'antico, alle condizioni sociali di prima delle grandi riforme. (…) La differenza tra destra e sinistra non sta nei diversi obiettivi, ma solo nel metodo per realizzarli. (…) I tempi per tagliare le pensioni e la sanità pubblica, flessibilizzare il lavoro, superare i contratti nazionali, possono essere così più lunghi, perché bisogna concertare con i sindacati. Ma il punto d'arrivo è lo stesso.
Questo sosteneva il ministro Padoa Schioppa, mentre si preparava a guidare l'economia nel governo Prodi, e si capisce perché quel governo sia rapidamente crollato, aprendo la via al ritorno al potere di una destra ancora più aggressiva di prima. Lo stesso è avvenuto in molti altri paesi occidentali, dove magari il riformismo ha governato di più, come nella Gran Bretagna del primo ministro laburista Tony Blair, che si considerava l'autentico erede della signora Thatcher. Può durare di più o di meno, ma questo riformismo, alla fine, lascia dietro di sé solo macerie di democrazia e di diritti; soprattutto, una rassegnazione sociale sulla quale costruisce le sue fortune la destra. (…) La miseria del riformismo attuale è nel suo essere diventato solamente un riformismo della miseria, totalmente dominato dalla sindrome del Tina. Per questo il riformismo, almeno nella sua versione attuale, non ha più niente da dire.
Con la crisi le caste dominanti e il sistema di potere della globalizzazione hanno irrigidito tutte le proprie posizioni e ridotto ai minimi termini la disponibilità alla mediazione. Come i sovrani assoluti e la nobiltà precedenti alla rivoluzione francese, chi comanda oggi vuole conservare tutto il suo potere e non è disponibile ad alcun reale cambiamento.
Oppure, in Italia, quel potere è capace di comportarsi come il nipote del principe di Lampedusa nel romanzo Il Gattopardo. Quel nobile allo sbarco dei garibaldini in Sicilia nel 1860, decise di arruolarsi con loro. E a suo zio, che rivendicava la fedeltà di famiglia ai Borboni, spiegava: «Deve cambiare tutto perché non cambi niente».
Per questo solo grandi movimenti sociali e solo grandi conflitti possono cambiare le cose. I riformisti di una volta sapevano che la lotta di classe era necessaria per avere le riforme. Essi usavano perfino strumentalmente la minaccia dell'impossibile, per ottenere i risultati immediati. In una società dove la mediazione sociale è stata cancellata e tutte le rigidità del potere si scaricano sul lavoro e sui poveri, la ripresa del progresso sociale e civile può essere guidata solo da una cultura conflittuale diversa dal riformismo attuale. Anche per ottenere piccoli cambiamenti bisogna costruire conflitti che rompono le compatibilità del potere, bisogna mettere in discussione alla radice i principi del Tina.
Quando la pura e semplice contrattazione dei tempi di lavoro, per gli operai di Melfi come per quelli di Pomigliano, viene intesa dalla Fiat come un atto di sabotaggio, da combattere con i licenziamenti e le minacce; quando tutti i riformisti di governo e d'opposizione si schierano con l'azienda, spiegando che quello che chiede è inevitabile; quando la più piccola affermazione dei diritti richiede sacrifici personali e lotte eccezionali, allora è chiaro che siamo entrati in un'epoca nella quale non si può più essere riformisti, ma modernamente e democraticamente rivoluzionari. Più stato sociale, più diritti, più giustizia e più cultura non sono obiettivi incompatibili con la ricchezza che abbiamo raggiunto e accumulato: lo sono solo con il potere che le governa. Per questo ogni lotta e ogni richiesta autenticamente riformatrice diventano, necessariamente, radicali. Perché la casta politico-economica che ci comanda non vuole rinunciare a nulla e perché il suo potere, così come l'ha costruito, è un potere che a ogni richiesta risponde dicendo di no. Perché Tina.

Liberazione 10/10/2010, pag 8

Castel Volturno sfida i caporali

Il primo sciopero in Italia dei lavoratori alla giornata. Oggi il corteo
"Almeno 50 euro". Migranti in piazza contro i caporali

Laura Eduati
Castel Volturno - nostra inviata
Lo sciopero degli schiavi comincia quando il mattino è ancora nero e Castel Volturno dorme. Grappoli di lavoratori africani escono dalle case lungo la via Domiziana, salgono infreddoliti sugli autobus e raggiungono come sempre le kalifoo round, le rotonde dei caporali, il mercato delle braccia che ogni giorno all'alba popola le strade del casertano e dell'hinterland napoletano. Ieri è stato diverso. Per la prima volta hanno deciso di ribellarsi alle paghe da fame, venti-trenta euro al giorno per dodici ore di fatica nei cantieri o nelle campagne, e mettono al collo un cartello: "Oggi non lavoro per meno di cinquanta euro", ripetuto in inglese e francese. Sanno di sfidare i caporali, ma non hanno paura. All'incrocio di Licola, sulla strada che porta a Pozzuoli, sono un'ottantina ed esibiscono orgogliosi il cartello agli automobilisti.
Un caporale sopraggiunge a bordo di un Suv, rallenta e abbassa il finestrino. Poi si dilegua, contrariato. Probabilmente ricorrerà ai migranti dell'Est, polacchi, rumeni e ucraini, che vivono silenziosamente nel Casertano e questa mattina stanno alla larga dalle rotonde, e che però chiedono paghe maggiorate. «Succede spesso che per lo stesso lavoro a noi africani danno venti euro mentre ai rumeni ne danno anche sessanta», racconta Appiah, ghanese: «La differenza è che noi non abbiamo un permesso di soggiorno e non possiamo denunciare, sennò finiamo per essere espulsi».
In realtà allo sciopero contro i caporali partecipano africani regolari e irregolari, uniti dalla stessa rivendicazione: un salario migliore. Brononiba, 24 anni, arriva a Licola con la bici e la tenuta da ciclista: «Spero davvero che questo sciopero serva, ma noi abbiamo bisogno prima di tutto dei documenti. Io li ho chiesti al mio padrone ma lui non vuole pagare le tasse e preferisce pagarmi poco».
L'iniziativa, promossa dal movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta e sostenuto dalla rete antirazzista, è andata ben oltre le aspettative: lo sciopero si è esteso in molte rotonde della zona, da Casal di Principe a Villa Literno, Villaricca, Pianura, Afragola, Scampia, Marano di Napoli. Simbolica la scelta di incrociare le braccia sulla rotonda di Baia Verde a Castel Volturno, a pochi passi dove due anni orsono morì Miriam Makeeba e dove oggi sorge una stele che ricorda Mama Africa.
Ad ogni kalifoo round - i kalifoo sono gli schiavi a giornata - si ripetono la stessa scena e la stessa contentezza dei braccianti che per la prima volta in Italia trovano il coraggio di manifestare contro le durissime condizioni di lavoro: «Lo sciopero di oggi dice a tutti che il lavoro immigrato in Campania non è solo quello di colf e badanti e chiede una presa di posizione decisa di tutti gli attori sociali e politici veramente democratici» scrive in un comunicato il movimento dei migranti e dei rifugiati al termine dello sciopero, rivendicando il permesso di soggiorno per coloro che ne sono sprovvisti eppure evidentemente servono al mercato del lavoro locale, e l'estensione dell'art. 18 ovvero la protezione sociale per chi denuncia gli schiavisti.
Ad Afragola un centinaio di lavoratori in nero si raduna nel piazzale davanti alla pescheria. Qualche anziano si ferma e chiede i motivi della mobilitazione. Tra gli organizzatori, con pettorina fosforescente e un cartoncino con la scritta a mano "staff", c'è anche John, uno dei protagonisti di "Il sangue verde", documentario sulla rivolta di Rosarno girato da Andrea Segre e presentato all'ultimo Festival del cinema di Venezia. E John, che fino a qualche mese fa viveva in una casupola di cartone nella ex cartiera di San Ferdinando, vicino a Rosarno, ricorda quei passi sul tappeto rosso accanto al regista. Tutto è durato lo spazio di un giorno, un giorno soltanto prima di tornare ad Afragola e continuare la vita di sempre: sveglia all'alba e poi la rotonda, in attesa che qualcuno lo scelga per lavorare. «Può succedere che non lavoriamo per molti giorni di seguito, stiamo qui fino alle dieci e poi ce ne torniamo a casa colmi di preoccupazione».
Alla vigilia dello sciopero gli organizzatori non avevano nascosto una certa inquietudine e non soltanto per le possibili rappresaglie dei padroncini e dei camorristi. A Castel Volturno il clima è teso. O almeno, lo era fino all'incontro di ieri pomeriggio voluto dal sindaco Antonio Scalzone (Pdl) che il mese scorso aveva rifiutato di porre un monumento in memoria dei sei africani uccisi dalla camorra il 18 settembre 2008 e aveva anzi invocato l'aiuto di Maroni affinché da Castel Volturno, come da Rosarno, venissero cacciati gli illegali che costituiscono il 60-70% dei circa 7mila migranti presenti in città. Invece del ministro, in paese era giunto Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova, accolto in sala consiliare dove aveva promesso l'apertura di una sede del partito e la formazione di comitati popolari anti-immigrati. Ieri, a sorpresa, Scalzone ha ricevuto in Municipio i rappresentanti del movimento antirazzista casertano (Comboniani missionari, centro sociale ex-Canapificio di Caserta, Caritas, associazione Jerry Masslo, associazione Black and White, padri sacramentini e movimento dei migranti e dei rifugiati) con l'intenzione di aprire un tavolo comune per risolvere le questioni legate all'immigrazione.
Per il primo cittadino di Castel Volturno il numero di migranti è sproporzionato alle dimensioni della città, che conta ventimila abitanti, e occorre assolutamente ripristinare "la legalità". Parola che suona certamente bizzarra in un territorio devastato dall'inquinamento e dalla camorra prima ancora che dai traffici di droga e dallo sfruttamento della prostituzione che vedono implicati anche alcuni stranieri, come la mafia nigeriana. Bizzarra soprattutto alle orecchie degli stessi lavoratori migranti che chiedono per primi di uscire dal limbo della clandestinità.
Ma è proprio sulla lotta ai migranti senza documenti che Scalzone ha vinto le elezioni lo scorso marzo, scaricando sugli africani - i migranti dell'Est e la comunità cinese rimangono comunque esclusi dal discorso politico - il peso dei drammi di Castel Volturno. «Le mie parole sono state strumentalizzate, dobbiamo lasciare fuori la politica», ha spiegato Scalzone. La rete antirazzista accoglie di buon grado la mossa distensiva, giunta proprio alla vigilia della manifestazione convocata per questa mattina a Caserta con le medesime rivendicazioni dello sciopero delle rotonde: diritti per i migranti. In origine il corteo doveva svolgersi a Castel Volturno, poi gli organizzatori avevano deciso di non alimentare la tensione creata dallo scontro con il sindaco, al quale la Questura aveva bocciato una mobilitazione in favore della legalità così come aveva negato l'autorizzazione negli stessi giorni ad un corteo di Forza Nuova.
Alla manifestazione di oggi, come allo sciopero delle kalifoo round, non aderisce la Cgil. Jean Bilongo, che un tempo era considerato uno dei leader del movimento migranti e rifugiati di Castel Volturno e che oggi collabora con il sindacato, spiega che «è sbagliato creare una contrapposizione tra immigrati e istituzioni» e che «è necessario creare un dialogo».

Liberazione 09/10/2010, pag 1 e 4

«Lo sciopero degli irregolaripuò essere un episodio da imitare nel Paese»

Renato Natale medico, attivista per i diritti dei migranti, ex sindaco di Casal di Principe

Stefano Galieni
Renato Natale è un medico, presidente dell'Associazione Jerry Masslo. Per alcuni mesi è stato anche sindaco di Casal Di Principe. Continua ad occuparsi di immigrati avendo un quadro di insieme delle problematiche del territorio.
«Molte amministrazioni locali, tanto dei paesi sulla Domiziana quanto dell'entroterra, continuano a mischiare i piani: passa l'equazione per cui tutti gli immigrati sono clandestini e quindi delinquenti. La verità è che in gran parte sono lavoratori in nero, tenuti in condizione di irregolarità perché così si tiene basso il costo del lavoro. Un meccanismo perverso, i contadini non potrebbero raccogliere i propri prodotti ed essere competitivi sul mercato se mettessero tutti in regola, gli edili sono anche taglieggiati dalla camorra, sia chiaro che questo non li giustifica ma la soluzione va trovata tenendo presenti questi problemi, non c'è solo voglia di sfruttare. Molti vivono qui da anni, c'è chi non ha potuto rinnovare il permesso, chi è tornato dal nord Italia dove era inserito ma ha perso il posto di lavoro, chi è rifugiato o richiedente asilo, ci sono anche molte persone regolari. Quel che manca è l'integrazione, si vive separati e questo acuisce tensioni e paure».

Cosa pensi dello sciopero dei braccianti?
Tre mesi fa non lo ritenevo possibile invece sembra che possa riuscire ed è un bel segnale. Potrebbe scatenare un effetto a catena, un processo di liberazione che va ben oltre le intenzioni degli organizzatori. La mobilitazione sarà anche vista come una provocazione, il pretesto per poter dire che ci sono troppi immigrati, che per colpa loro non funzionano i servizi. Ci vorrebbe più capacità di affrontare le questioni diverse: io comprendo anche chi non accetta di vedersi sotto casa spaccio e prostituzione ma non ci si può lasciar soverchiare dalle percezioni. Si protesta contro gli immigrati perché si allungano le file agli ambulatori o alle poste, invece di prendersela con chi è in fila e soffre lo stesso disagio bisognerebbe provare a lottare insieme per avere più servizi. Il dramma è quando chi guida una amministrazione come quella di Castel Volturno, soffia sul fuoco.

I sindacati non hanno aderito...
È un dato negativo. In Campania c'è sempre stato un rapporto conflittuale fra centri sociali e sindacati, con argomentazioni che rischiano l'autoreferenzialità. Io penso che in situazioni come queste una scelta di mediazione sarebbe stata opportuna e credo anche che il maggior sindacato nazionale avrebbe dovuto dimostrare maggiore responsabilità rinunciando a posizioni di principio e di prestigio.

Il sindaco di Castel Volturno, come ricordavi invece sposa posizioni pericolose
Si ma pericolose per la sua città. Io parlo sempre di un vecchio sindaco, Mario Luise che con la morte nel cuore fece anche murare delle abitazioni occupate ma poi lavorò per realizzare politiche di accoglienza. Il numero degli immigrati dimezzò e a lamentarsi furono soprattutto i commercianti. Avevano perso clienti. Il sindaco dice che se se ne vanno gli immigrati arriveranno i turisti. Ma come è possibile? Senza infrastrutture, con il mare più inquinato d'Italia, in case dove non c'è la luce, l'acqua, le fogne. Il sindaco soffia sul fuoco e minaccia una nuova "Rosarno". Come fa a non capire che se accadesse qualcosa di simile qui si arriverebbe alla guerra civile. E poi si dice che è Saviano a dare una pessima immagine di queste terre.

E su tutto l'ombra della camorra
Si e qui la camorra non è tanto estorsione quanto imprenditoria. Basti pensare che nel mese scorso soltanto sono stati sequestrati beni per decine di milioni di euro. Il nostro Pil è costituito in parte considerevole da economia criminale. Se sparisse senza altre opportunità ci ritroveremmo peggio che nei paesi dell'Est. Il nesso con l'immigrazione è rappresentato dal fatto che una mafia imprenditrice abbassa i costi del lavoro anche utilizzando immigrati, che consente alle organizzazioni straniere di tenere il traffico della prostituzione, pagando si intende e che c'è senz'altro un'intesa comune per il commercio di eroina. Per questo la camorra è stata capace anche di organizzare strategie del terrore, dai sei innocenti ammazzati due anni fa, per dare una "lezione ai neri" agli omicidi di parenti di collaboratori di giustizia fatti anche 15 anni dopo, in pieno centro e sotto gli occhi dell'esercito. Come a dire: io comando e comanderò per sempre, anche dalla galera.

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Ferrero (Prc/FdS): Percorso unitario fino a Roma il 16
La sfida dei migranti che lavorano in nero nei paesi sulla Domiziana, che oggi rifiuteranno di lavorare (...), rappresenta un momento di riscatto e ribellione verso un sistema di sfruttamento schiavistico attraverso la costruzione di una coscienza comune». E' quanto afferma Paolo Ferrero, spiegando l'adesione del Prc/Federazione della Sinistra alle due giornate di mobilitazione organizzate a Caserta, dove sabato si svolgerà anche un corteo. «La mobilitazione è tanto più rilevante in quanto si inquadra in un percorso di costruzione di iniziativa per mandare a casa questo governo nefasto; un percorso che porterà i lavoratori migranti a Roma il 14 e il 15 ottobre e che vedrà molti di loro confluire nella manifestazione nazionale del 16 ottobre indetta dalla Fiom».

Liberazione 08/10/2010. pag 2

giovedì 7 ottobre 2010

Castel Volturno, primo sciopero degli schiavi

Venerdì gli stranieri non lavoreranno per meno di 50 euro. Sabato il corteo

Laura Eduati
Come Rosarno, peggio di Rosarno. I migranti di Castel Volturno guadagnano ormai pochi spiccioli per dodici ore di fatica: venti o venticinque euro. Ma alcuni, disperati, accettano di lavorare nei cantieri o nei campi una giornata intera per cinque miseri euro. Il costo di un panino.
«Le paghe sono le stesse di cinque anni fa, se non peggiorate», conferma Filippo della rete antirazzista casertana. Ed è per questo che venerdì 8 ottobre il movimento dei migranti e dei rifugiati di Castel Volturno organizzerà il primo sciopero dei nuovi schiavi italiani: alle cinque del mattino, come sempre, raggiungeranno in autobus le rotonde del litorale domiziano per aspettare che qualcuno offra un lavoro ma questa volta porteranno un cartello con la scritta: "Oggi non lavoro per meno di 50 euro".
La mobilitazione proseguirà il giorno dopo, sabato, con un corteo promosso dalle associazioni cattoliche e dai centri sociali campani per chiedere diritti e permesso di soggiorno per i migranti.
Non sarà una manifestazione semplice, visto che gli animi di Castel Volturno sono accesi dallo scontro tra il sindaco Antonio Scalzone (Pdl) e gli antirazzisti. In un documento sull'immigrazione approvato il primo ottobre, l'intero consiglio comunale - eccetto l'unico consigliere del Pd - chiede l'intervento urgente del Viminale per cacciare i «quindicimila» migranti illegali che vivono in «porcilaie» aggravando il tessuto sociale di una città già segnata dall'inquinamento e dalla camorra.
Il governo di Castel Volturno chiede una soluzione analoga a quella di Rosarno, ed è anche per la completa insofferenza nei confronti dei migranti che Scalzone si è opposto al monumento in ricordo dei sei lavoratori africani trucidati il 18 settembre 2008 in un negozio della città per mano di un commando camorrista.
Al Viminale il documento, accorato, chiede insomma di mantenere fede alla promessa fatta da Maroni all'indomani dei fatti di Rosarno ovvero fare piazza pulita dei migranti «clandestini» e «di tutti coloro che hanno commesso reati». Non solo: chiede di rinforzare l'organico delle forze dell'ordine e di impiegare parte degli agenti inviati dopo la strage di due anni orsono «esclusivamente per controllare gli extracomunitari». Inoltre esorta il ministero a finanziare progetti di integrazione che però devono essere gestiti «esclusivamente» dal Comune. Una frecciata, quest'ultima, diretta a quelli che il sindaco chiama i «professionisti della solidarietà» ovvero le associazioni che appoggiano i migranti.
A complicare il quadro è intervenuto il segretario di Forza Nuova, Roberto Fiore, giunto a Castel Volturno nei giorni scorsi per portare solidarietà al sindaco e alla cittadinanza. La Questura ha vietato in successione sia la manifestazione voluta da Scalzone per la legalità, sia il corteo organizzato da Fiore.
Alla mobilitazione di sabato, che partirà alle nove e trenta del mattino in via Domitiana 564, aderiscono il centro sociale ex Canapificio di Caserta, i padri comboniani, i padri Sacramentini, l'associazione Jerry Masslo, la Caritas, i centri sociali campani, il Pd. Hanno aderito, ma non è ancora confermata la loro presenza, i vescovi di Capua e Caserta. Spicca l'assenza dei sindacati e specialmente della Cgil, che preferisce mantenere un profilo basso e dedicarsi soltanto a fornire servizi ai migranti: a Castel Volturno è aperto uno sportello interamente dedicato agli stranieri.
«Quelle del sindaco Scalzone sono mistificazioni», raccontano i ragazzi dell'ex Canapificio che organizzano materialmente il corteo di sabato. «Dice che i migranti sono quindicimila, quando al massimo sono seimila. E' vero, il 60% non possiede il permesso di soggiorno ma è altrettanto vero che la maggior parte vive stabilmente in città e soltanto una parte si dedica alla transumanza agricola».
Proprio per risolvere il problema degli illegali, impossibilitati ad emergere dal limbo della clandestinità, i promotori chiedono il permesso di soggiorno per coloro che ancora non lo possiedono, l'estensione dell'articolo 18 ovvero la protezione sociale per chi denuncia condizioni di schiavitù, la proroga del permesso di soggiorno per chi ha perso il lavoro e la cittadinanza basata sullo jus soli. La mobilitazione proseguirà il 15 ottobre con una manifestazione davanti al Viminale, a Roma.

Liberazione 06/10/2010, pag 7

Fiat, Pomigliano «per tutti e anche oltre»

Ieri a Roma l'incontro con i sindacati. Fiom: «Pomigliano non è un riferimento»

Fabio Sebastiani
Vere e proprie "uova terroriste" in caduta libera ieri mattina contro muri dello stabilimento Fiat-Cnh di Jesi. Ad armare il lancio non solo le tute blu, in sciopero contro l'accordo separato firmato da Fim, Uilm e Ugl, ma anche gli studenti, in lotta contro il "capolavoro" della Gelmini.
Un vecchio binomio, quello di "operai-e-studenti" che, c'è da scommettere, questa volta ha ben poco di nostalgico e punta dritto alla manifestazione del 16 ottobre. Grande e bella manifestazione - ha commentato a caldo Giuseppe Ciarrocchi, segretario generale della Fiom Cgil delle Marche - capace di unire le lotte anche al di fuori del mondo sindacale del lavoro e che ribadisce, da parte della Fiom, la difesa dei diritti e del lavoro come un bene comune, escluso dai ricatti».
Più o meno nelle stesse ore, a Roma, c'è stato l'incontro sull'estensione dell'accordo di Pomigliano a tutti gli altri siti produttivi. La Fiat è sicura non solo di estendere l'esperienza della deregolamentazione anche a Mirafiori, Cassino e Melfi, ma «se necessario» può andare anche oltre il quadro di "Fabbrica Italia". E' questo che si sono sentiti dire i vertici dei quattro sindacati di categoria convocati a viale dell'Astronomia, sede storica di Confindustria. Per il Fismic di Roberto Di Maulo non ci sono problemi, anche perché, come ha ribadito lui stesso, «non ho mai detto che Pomigliano fosse da considerare un caso isolato»; per la Fim di Giuseppe Farina, «bisogna ora affrontare la discussione sulla flessibilità azienda per azienda e non è detto che ci sia l'automatica applicazione del modulo sottoscritto a Pomigliano»; per la Fiom, infine, «Pomigliano non è per niente un riferimento». «Siamo disponibili al confronto - aggiunge il segretario generale della Fiom Maurizio Landini, nel corso della breve conferenza stampa al termine del confronto con la Fiat - ma nell'ambito delle regole che già ci sono». La Fiom, che ha chiesto alle altre organizzazioni sindacali, ufficialmente, di aprire un confronto assembleare con i lavoratori di tutto il gruppo Fiat, non parteciperà agli incontri su Pomigliano.
L'idea della Fiat è quella di assicurarsi la cosiddetta «governabilità» di tutto il gruppo automobilistico. Per questo «ha ulteriormente ribadito che l'avvio del progetto è subordinato all'esistenza di condizioni preliminari che assicurino il quadro di certezze necessario per la sua realizzazione». Finché i sindacati non saranno in grado di assumersi un «impegno formale» il progetto non decollerà. Il 28 ottobre è previsto un altro incontro sindacale.
«La Proposta di Marchionne è un ricatto inaccettabile - attacca il segretario del Prc Paolo Ferrero - Secondo lui, oltre a quanto già imposto a Pomigliano, i lavoratori dovrebbero accettare anche una dispensa dal rispetto degli obblighi di legge per la Fiat; poi sarà Marchionne medesimo a decidere cosa fare secondo il proprio insindacabile e inappellabile giudizio. Una posizione inaccettabile per un'azienda che sta in piedi grazie ai soldi pubblici, ed è gravissimo che il governo stia a guardare». «La Lega poi è il massimo dell'incoerenza - conclude Ferrero - non vuole che le tasse del nord finiscano al Sud, ma poi è disponibilissima a regalare i soldi a Marchionne che vuole andare a produrre fuori dall'Italia».
Ad entrare in campo è anche il neoministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, che ha chiesto di vedere nei prossimi giorni i vertici della Fiat.
Intanto, ventotto europarlamentari italiani appartenenti ai gruppi del Ppe, dei Socialisti e Democratici e dell'Alde hanno sottoscritto un appello promosso dal vicepresidente vicario del Parlamento europeo, Gianni Pittella e indirizzato al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, «affinchè il governo si adoperi per il reintegro dei tre operai nello stabilimento di Melfi della Fiat, licenziati a seguito di uno sciopero nel luglio scorso», chiedendo così di dare piena applicazione alla sentenza del tribunale di Melfi. Secondo gli europarlamentari, «l'intervento è necessario in considerazione del fatto che la Carta dei diritti dei fondamentali dell'Unione europea, vincolante per le istituzioni e per gli Stati membri, sancisce il diritto di ogni lavoratore ad essere tutelato contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni nazionali, diritto sancito anche dalla legislazione italiana, in particolare dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori».

Liberazione 06/10/2010, pag 6

Con la Fiom, contro l'eversione del capitale

Dino Greco
Fra meno di due settimane, sabato 16 ottobre, la Fiom chiamerà a raccolta, in quella che già si annuncia come un'imponente manifestazione di popolo, tutte le forze sociali che nella necessità di respingere l'attacco furibondo alle conquiste e ai diritti dei lavoratori vedono la via maestra per impedire che si compia la più devastante rottura democratica dell'era repubblicana.
Occorre dire che di un simile rischio vi è, anche a sinistra, solo parziale consapevolezza. O meglio, dello smottamento democratico si coglie l'aspetto più immediatamente politico e morale: la degenerazione corruttiva della coalizione di governo, il potere dispotico, personale, del capo del governo che travolge l'intera architettura costituzionale, l'oltraggio sistematico alla legalità, il disprezzo ostentato per ogni procedura democratica e l'assalto liquidatorio ai poteri indipendenti che rifiutano di sottomettersi all'esecutivo. Si coglie meno, e nel Pd non si coglie affatto, quello che con chiarezza e semplicità esemplari Oscar Lafontaine, fondatore della Linke, ricordava in un recente dibattito svoltosi alla festa della Federazione della Sinistra, e cioè che domina nella sfera politica chi domina nei rapporti sociali. E che se questi sono caratterizzati dallo sfruttamento e dall'unilateralità del comando d'impresa, la politica non potrà autonomizzarsene ed anzi finirà per divenirne lo specchio fedele. Ancora ieri, qualche giornale di area democratica titolava, in prima, «Eversore», epiteto impresso sul faccione torvo di Berlusconi. E a ragione. Dubito tuttavia che quella stessa grave espressione verrebbe usata per qualificare il comportamento di Marchionne. All'amministratore delegato della Fiat, capintesta della crociata contro il lavoro e a Confindustria, la cui parola è ormai ascoltata con la deferenza che si deve ad un organo istituzionale, non si rivolge lo stesso capo d'accusa.
Una volta era nozione di senso comune, maturata nella concreta esperienza di milioni di persone, che l'affermazione della democrazia dentro i luoghi di lavoro, le conquiste frutto del conflitto operaio, si riverberassero a 360 gradi sull'insieme della società, rendendola più giusta, più civile, più coesa. Difendendo gli interessi dei lavoratori - si diceva - si difendono gli interessi generali del Paese.Non vi era ombra di dubbio sul significato pregnante dell'articolo 1 della Costituzione, che coniuga non casualmente la democrazia con il lavoro, riconoscendo ai produttori associati una funzione quasi demiurgica per l'inveramento dei precetti della Carta. Oggi no. Il rovesciamento è stato diametrale. L'impresa e la regola ferrea (sebbene non scritta) che ne informa i comportamenti, quella della competitività, hanno occupato interamente il proscenio, unendo destra e sinistra moderata nel culto dell'ideologia neo-mercatista. Quella in ragione della quale si è accreditato Marchionne come l'interprete genuino della modernità ai tempi della globalizzazione e si è accettato che il posto di lavoro fosse messo in concorrenza con i diritti.
La fortuna della destra in tutta Europa e specialmente nel nostro Paese ha molte convergenti ragioni. Ma l'egemonia culturale del capitale, la "costituzionalizzazione" del mercato è ciò che ne ha più di ogni altra cosa legittimato la funzione dirigente. L'impotenza di fronte alla crisi planetaria è la più plateale confessione di un disarmo culturale che ha sin qui impedito alla sinistra di candidarsi alla guida di una grande riforma economica e sociale. Una riforma che o passa attraverso un profondo mutamento dei rapporti di produzione, o ha la forza di riproporre la questione divelta del carattere sociale della proprietà, oppure è destinata ad insabbiarsi, perdere di vigore e rinculare nell'alveo del riformismo, trasformista e subalterno. La Fiom ha preso nelle proprie mani e proposto alla sinistra la precondizione di questo necessario salto di paradigma: l'affermazione dell' irriducibilità del lavoro al capitale. Per questo viene ferocemente combattuta dal potere costituito e dal groviglio di interessi di cui esso è espressione. Per questo il successo dell'appuntamento del 16 ottobre, al quale offriremo tutto il nostro sostegno, rappresenterà molto più che la buona riuscita di una pur importante manifestazione.
Dino Greco

Liberazione 05/10/2010, pag 1 e 3