giovedì 30 settembre 2010

Rossi, verdi, black e pink a Bruxelles contro l'austerity

Oggi e domani la prima contestazione europea. Sciopero generale in Francia, Belgio e Spagna

Checchino Antonini
Rossi, verdi, black e pink, tutti a Bruxelles: sono attesi in centomila per una giornata d'azione europea che contesti l'austerità di Merkel e Barroso e il loro golpe monetario. Contemporaneamente incroceranno le braccia i lavoratori di Spagna, Francia e Belgio. In Italia, dove nessuno ha proclamato lo sciopero generale, ci sarà comunque un palco della Cgil, con Guglielmo Epifani in piazza Farnese, per riempire virtualmente lo spazio di questa prova di opposizione sociale europea. Contro lo «zombie politico», l'Ue dopo la crisi greca, anche le reti no global stanno confluendo a Bruxelles dove resteranno fino al 2 ottobre per una settimana no austerity e contro il proibizionismo sui migranti. Tra otto giorni concluderanno la mobilitazione con un altro grande corteo nel "quartiere europeo" della capitale belga. Oggi anche loro risponderanno - «in forma critica» - all'appello della Ces.
La radio on line di Corso Italia,radioarticolo1.com, seguirà in diretta tutte le piazze che provano a sfruttare l'impulso delle grandi mobilitazioni della passata stagione per dire che l'Europa deve diventare uno spazio dei diritti. Perché già è uno spazio abitato quotidianamente da generazioni sempre più precarie, già è l'ambito in cui si costruiscono scelte strategiche che condizionano la vita di milioni di persone. Perché è il luogo in cui si decide il verso dell'uscita dalla crisi che oggi vede attive solo tendenze liberiste e deflattive. Per il leader della Ces, l'Internazionale dei confederali, «i governi sono in preda al panico» perché alzano le tasse e tagliano il welfare a scapito di chi è già vittima della crisi. 23 milioni di disoccupati e un numero inafferrabile di precari: i numeri spiegano da soli le tensioni sociali diffuse destinate a crescere non appena si dispiegheranno gli effetti dell'austerity. La Ces chiede investimenti pubblici, finanziati tassando le transazioni finanziarie, per l'innovazione tecnologica e il rilancio del welfare. «Vogliamo sostenere il potere d'acquisto dei lavoratori altrimenti la domanda rischia di crollare», dice Monks defindendo «cruciale» questa stagione di conflitto sociale.
Rifondazione Comunista e il Partito della sinistra europea (trenta sigle) aderiscono e partecipano alla mobilitazione. Il segretario nazionale del Prc/Federazione della Sinistra, Paolo Ferrero, sarà a piazza Farnese a partire dalle 16.30. «Si tratta - spiega Ferrero - del primo vero segnale di resistenza dei lavoratori su scala europea nei confronti delle brutali politiche di austerità che stanno mettendo in ginocchio milioni di persone e lavoratori in tutto il continente. Come Partito della Sinistra Europea siamo impegnati a costruire un'opposizione forte contro chi vuole far pagare la crisi a lavoratori e pensionati riproponendo le stesse ricette che l'hanno causata. Per questo occorre innanzitutto fermare lo scellerato tentativo di rendere più rigidi gli accordi di Maastricht, a cui il governo italiano non si sta opponendo con la necessaria energia. Contro questo progetto scellerato occorre organizzare un grande sciopero generale europeo, che lanci oltre i confini nazionali un modello alternativo di Europa sociale fatto di diritti, lavoro, redistribuzione della ricchezza e riconversione ambientale dell'economia, da finanziare attraverso la forte tassazione delle rendite finanziarie, della speculazione e dei grandi patrimoni».
I movimenti sociali sono più espliciti della Ces rispetto all'insostenibilità del modello di sviluppo e reclamano che il denaro dirottato al salvataggio delle banche serva a sostenere un'economia sostenibile socialmente ed ecologicamente. E, puntando alla generalizzazione dello sciopero, anche l'indomani andranno «nell'occhio del ciclone» a contestare l'Ecofin, il vertice dei ministri finanziari. «Bruxelles - dicono le reti precarie e no border - è la capitale delle istituzioni europee e il paradiso delle lobby. Non sarà una sfilata a fermarli. Se l'azione diretta non violenta fa parte del tuo linguaggio politico preparati a un grande gioco contro l'austerità».
Bruxelles intanto non cede. Nonostante nella task force presieduta dal presidente della Ue, Herman Van Rompuy, si sia creato un fronte di Paesi che frena su un eccessivo rigore del nuovo Patto europeo, oggi la Commissione Ue presenterà inalterate le sue proposte: giro di vite sui debiti pubblici più elevati e sanzioni semi-automatiche per chi viola le regole, anche a carattere preventivo. Ma l'accordo al tavolo dell'Ecofin informale di domani e venerdì è tutt'altro che scontato col rischio di una resa dei conti al vertice dei capi di Stato e di governo di ottobre.
«Contro l'idea di imporre dall'alto una sfilza di finanziarie lacrime e sangue, che di fatto rendono impossibile qualsiasi tipo di governo "amico" dei lavoratori, si apre un terreno nuovo per l'opposizione sociale e politica», dice Francesco Piobbichi della delegazione delle Brigate di solidarietà attiva, in viaggio per Bruxelles nonostante uno sciopero giallo di uomini-radar belgi. «Nell'esperienza dei campi di Nardò con i braccianti e davanti ai cancelli delle fabbriche in crisi abbiamo denunciato questo golpe monetario, per noi italiani - conclude Piobbichi - sarà cruciale proseguire verso il 16 e dopo rendere stabile la rete dell'opposizione».

Liberazione 29/09/2010, pag 4

Cgil sulla strada del nuovo patto sociale

Per ora ciò che vuole la maggioranza è un mandato in bianco a trattare

Fabio Sebastiani
Cgil sulla strada del patto sociale. Sì, ma quale? La riunione dei segretari generali a Todi, la scorsa settimana, l'abboccamento con Confindustria a Genova, la presentazione dei dati sulla perdita secca dei salari nell'ultimo decennio: tutti questi appuntamenti non sono serviti a chiarire la "substantia" del modello contrattuale che la Cgil potrebbe firmare nei prossimi mesi. E in effetti, anche a leggere attentamente il documento uscito da Todi di indicazioni ce ne sono poche. «L'obiettivo vero e proprio in questo momento», dicono gli esponenti dell'opposizione interna, «è far rientrare la Cgil nel confronto con Cisl, Uil e Confindustria, a prescindere dai contenuti». La "Cgil che vogliamo" la chiesto la convocazione urgente del direttivo nazionale.
Di passi politici se ne sono fatti tanti, comunque, nella direzione del nuovo patto sociale. E l'ultimo potrebbe arrivare oggi stesso, come sottolinea Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom, «quando Fim e Uilm firmeranno l'accordo separato sulle deroghe al contratto nazionale». «A quel punto che farà la Cgil?».
Non essendoci merito, se non uno schema di contratto nazionale che abbandona definitivamente la strada della ripartizione della produttività, abbraccia un indice di adeguamento all'inflazione svuotato di efficacia e trasferisce sul piano degli accordi aziendali materie come orari e inquadramenti, il discorso si fa tutto di "metodo". «Ciò che va premesso - si legge nella "Traccia di discussione" del seminario di Todi - è che non si difende il contratto nazionale senza una proposta che ne rilanci la sua funzione ed introduca delle innovazioni, così come non si determina un nuovo sistema di regole inseguendo la prescrittività». A parte l'evidente critica alla Fiom, non c'è da stare allegri. Innanzitutto, perché la "porta" del rientro della Cgil al tavolo del confronto sarebbe la già prevista "manutenzione" dell'accordo separato del 2009. Questo, che nella visione dei vertici della Cgil rappresenterebbe una sorta di "cavallo di Troia", in realtà preclude qualsiasi possibilità della consultazione presso i lavoratori. Un particolare non certo secondario visto che uno dei temi delle prossime battaglie sindacali sarà proprio quello della democrazia e della rappresentanza.
Secondo, il percorso di discussione interna alla Cgil non solo è tutto da costruire ma non ha alcun retroterra. Derubricato il congresso allo scontro con una minoranza interna «che vuole nuocere alla Cgil», come è stato più volte sottolineato da diversi esponenti della maggioranza raccolta intorno al segretario generale Guglielmo Epifani, sembra davvero difficile rintracciare un "patrimonio" comune a tutta la Cgil da cui poter ripartire. «I contenuti sono tutti da discutere - sottolinea Marigia Maulucci, esponente della "Cgil che vogliamo" -. C'è bisogno di una proposta che risponda ad almeno due criteri: ricomposizione del mondo del lavoro e soldi certi ai lavoratori».
C'è poi un terzo nodo da non sottovalutare: nel caso in cui si firmi un accordo che valga per il settore privato, cosa farà il Governo? L'esecutivo non solo ha cancellato il contratto nazionale ma sta anche bloccando iul rinnovo delle Rappresentanze sindacali, ovvero quegli organismi che dovrebbero applicare l'attuazione del nuovo modello.
E' chiaro quindi che questo nuovo patto sociale nasce di fatto sotto una forte ipoteca politica, se non proprio elettoralistica. Non può essere un governo guidato dal centrodestra a gestirlo. Considerando tutti i discorsi e le prese di posizione che si sono fatte al congresso sull'indipendenza del sindacato non c'è che dire.
La Maulucci avanza, infine, una considerazione di carattere macroeconomico. «E' complicato parlare di adeguamento all'inflazione in un momento in cui andiamo verso il rischio di una deflazione». «Quello che servirebbe sarebbe invece un aumento reale perché solo in questo modo avrebbe un senso la ripresa dei consumi».
Rimane infine l'obiezione ripetuta ogni volta che si prende in considerazione la platea dei lavoratori che effettivamente godono del livello aziendale del contratto. In Italia sono a malapena un terzo, anche se il dato risale al periodo "pre-crisi". E quindi che senso ha svuotare il contratto nazionale a beneficio di un secondo livello usufruibile da una ristretta cerchia?

Liberazione 29/09/2010, pag 4

Sindacati in piazza a Bruxelles per la crescita e per il lavoro

La manifestazione avrà luogo il 29 settembre, in concomitanza con l'Ecofin. La Cgil ci sarà, Cisl e Uil no

In questo periodo di crisi i governi europei si sono preoccupati più di difendere i bilanci pubblici che di dare ossigeno e sostegno all'economia. Il prezzo di questa scelta è stato pagato dai lavoratori e dai pensionati. Che ora dicono basta con le misure di rigore nella spesa e di austerità fin qui adottate e sì, invece, a politiche per la crescita e per il lavoro. A sostegno di questa piattaforma rivendicativa la Confederazione europea dei sindacati ha organizzato una manifestazione a Bruxelles per il prossimo 29 settembre, in coincidenza con l'incontro dei ministri europei delle finanze, a cui prenderanno parte cinquanta sindacati in rappresentanza di trenta paesi. Al termine della manifestazione, una delegazione del sindacato europeo incontrerà il presidente della Commissione Europea José Barroso e il premier belga Yves Leterme, il cui paese detiene il semestre di presidenza di turno del'Ue.
L'Italia sarà rappresentata dalla sola Cgil, che nello stesso giorno darà vita anche a una iniziativa a Roma, in Piazza Farnese, che sarà conclusa dal segretario generale Guglielmo Epifani. Cisl e Uil invece in piazza non ci saranno. Hanno infatti preferito organizzare una propria manifestazione per il 9 ottobre. Una scelta che è stata duramente commentata da Giorgio Cremaschi, presidente del comitato centrale della Fiom Cgil: «A chi dice che la Fiom è isolata - dichiara Cremaschi - rispondo che Cisl e Uil sono gli unici sindacati dell'Ue che hanno scelto di non aderire alla giornata di mobilitazione europea contro i tagli proclamata per il 29 settembre. Questo perché - aggiunge - sono gli unici sindacati ad essere d'accordo con il proprio Governo».
Eppure le difficoltà che il nostro paese ha nel rimettersi in moto sono evidenti. Se ne rende conto persino Confindustria, che ora pretende risposte concrete. «Il governo deve andare avanti, deve governare, ma sappia che tutto il mondo delle imprese e i cittadini stanno esaurendo la pazienza», ha tuonato ieri la presidente Emma Marcegaglia. Un richiamo interpretabile anche in chiave opportunistica, in un momento in cui la maggioranza vacilla, dal momento che fino a ieri gli industriali avevano apertamente appoggiato la politica del centrodestra.
La giornata di mobilitazione promossa dal sindacato europeo rappresenta quindi un'occasione utile - anche se forse poteva essere decisa prima - per indicare una via d'uscita diversa dalla crisi, rispetto a quella fin qui seguita dall'Ue (tagli all'occupazione, alle pensioni, al welfare) e che gli stati membri applicano o progettano di applicare. Le misure di austerità, secondo la Ces, non solo «sono ingiuste, poiché la crisi ha indebolito milioni di persone che ora saranno costrette a stringere ulteriormente la proporia cinta» ma sortiranno anche «l'effetto opposto a quanto auspicato. Il potere d'acquisto diminuirà e le prospettive di ripresa si allontaneranno».
Nel frattempo, «l'acuirsi della crisi finanziaria - sottolinea ancora il comunicato di lancio della manifestazione - sta rendendo sempre più vulnerabili ed insicuri 23milioni di lavoratori in Europa e milioni di cittadini europei, con tensioni sociali in crescita quasi ovunque. Un'ondata di scioperi, proteste e manifestazioni, la più consistente degli ultimi decenni, sta coinvolgendo tutti i paesi europei, per contrastare una serie di manovre economiche e finanziarie che complessivamente costeranno 750 miliardi di euro».
Per questo la Ces «invita tutte e tutti a partecipare alla giornata d'azione europea il 29 settembre, per contrastare: l'insicurezza dell'occupazione e la disoccupazione; la povertà e l'esclusione sociale e invita a lottare per: un accesso ad occupazioni di qualità, lavoro stabile e potenziamento della formazione per tutti; per la garanzia di un salario dignitoso e di pensioni migliori; per il rispetto e lo sviluppo degli standard sociali in tutti i paesi; per l'accesso a servizi pubblici e sociali di qualità».
Ro. Fa.

Liberazione 26/09/2010, pag 4

Allarme salari, persi 5.500 euro in 10 anni

Rapporto Ires Cgil. Dal 1995 al 2008 profitti netti cresciuti del 75,4%. Epifani: «Meno tasse sui redditi da lavoro»

Dal duemila ad oggi i salari dei lavoratori italiani hanno perso complessivamente 5,500 euro, grazie a un'inflazione più alta di quella prevista (3.384 euro) e alla mancata restituzione del fiscal drag, calcolata in oltre duemila euro. A fare i conti - e a lanciare l'allarme - è l'Ires Cgil che ieri a Roma a presentato il suo quinto rapporto sulle retribuzioni.
Uno studio ricco di tabelle, dati, statistiche, che certifica l'impoverimento progressivo dei redditi da lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, che dal 1995 al 2008 sono cresciuti invece di circa il 75,4%. «Al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l'87%», rendono noto gli economisti di Corso Italia.
Aumenta insomma la forbice tra ricchi e poveri, figlia di una redistribuzione del reddito diseguale. Una ingiustizia resa ancora più forte dalla crisi economica. La riduzione dell'occupazione e l'abbattimento delle retribuzioni hanno infatti trascinato ancora più in basso il potere d'acquisto delle famiglie di operai e impiegati, che dal 2002 al 20010 hanno perso 3mila e 118 euro. Trend opposto invece per le famiglie di imprenditori e liberi professionisti, che hanno guadagnato 5mila e 940 euro. «Classificando i 30 paesi Ocse attraverso l'indice di concentrazione del reddito l'Italia risulta il sesto paese più diseguale», ricorda l'Ires Cgil. Basti pensare che nel periodo 2000-2008, a parità di potere d'acquisto, le retribuzioni lorde italiane sono cresciute solo del 2,3% rispetto alla crescita reale delle retribuzioni lorde dei lavoratori inglesi del 17,40%, francesi (11,1%) e americani (4,5%).
Già oggi, oltre 15 milioni di lavoratori dipendenti italiani guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 7 milioni ne guadagnano meno di mille, di cui oltre il 60% sono donne. Oltre 7 milioni (63%) di pensionati di vecchiaia o anzianità guadagna meno di mille euro netti mensili. Da chi è composto il ventaglio delle disuguaglianze italiane? Elaborando i microdati dell'indagine sulle Forze di Lavoro Istat e prendendo come riferimento il salario netto medio mensile di 1.260 euro, emerge che: una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (1-19 addetti) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20,0% in meno; un lavoratore immigrato (extra-UE) il 24,7%; un lavoratore a tempo determinato il 26,2%; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27,0% in meno e un lavoratore in collaborazione il 33,3% in meno.
Il fatto è che questa distribuzione diseguale del reddito non sembra nemmeno avere giovato al paese, visto che l'analisi dell'Ires Cgil sottolinea le note, irrisolte e perfino accentuate debolezze strutturali del sistema economico-produttivo italiano, emerse nell'ultimo decennio, che hanno portato una maggiore profondità della crisi rispetto agli altri paesi industrializzati. La produttività reale delle imprese italiane è cresciuta dal 1995 di 1,8 punti percentuali, mentre quella delle imprese di Francia, Regno Unito e Germania è cresciuta dai 25 e i 32 punti. Colpa anche di un settore produttivo costituito per oltre il 90% da piccole imprese e «della forte specializzazione» di molte azienda «in settori a bassa intensità tecnologica e della conoscenza». Escludendo le piccole imprese dai raffronti sulla produttività, «i differenziali con gli altri paesi si riducono radicalmente», osservano gli economisti di Corso Italia.
Cosa fare? Per Guglielmo Epifani si potrebbe cominciare con «un intervento urgente che sgravi il lavoro dipendente» riequilibrando il peso del prelievo fiscale a favore dei salari. «I salari - denuncia Epifani - pagano al momento di più di altri redditi ed è necessaria una svolta che affronti il problema delle retribuzioni». Come Epifani la pensa Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera.
Va oltre invece la Federazione della Sinistra, che definisce la questione salariale «una vera e propria emergenza», contro la quale il governo non può più fare melina. «Serve una nuova "scala mobile", un sistema di indicizzazione automatico dei salari e delle pensioni legato al reale costo della vita» propone Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Pdci. «E' il momento che la sinistra - afferma ancora Diliberto - ricominci a ritrovare unità di intenti da questa verità. Il 16 ottobre prossimo, in occasione della manifestazione indetta dalla Fiom Cgil, ci si ritrovi tutti uniti e determinati a chiedere che i diritti dei lavoratori siano rispettati per davvero come sancisce la Costituzione, a cominciare dal diritto ad un lavoro certo e ben retribuito».
Ro. Fa.

Liberazione 28/09/2010, pag 2

lunedì 27 settembre 2010

Un esercito di 640mila lavoratori in nero

Confartigianato: "Sommerso" il 17% del Pil, con punte nel Sud e in Calabria. L'Emilia la regione più virtuosa. Servizi ed edilizia i settori più colpiti. Evasa Iva per 2 miliardi
di VALENTINA CONTE

ROMA - Un esercito «numeroso e agguerrito», «micidiali concorrenti sleali» di quelle imprese che operano secondo le norme. I 640 mila irregolari, setacciati da uno studio della Confartigianato, sono lavoratori insabbiati, senza contratto né partita Iva, che si muovono nel limbo dell'economia sommersa italiana. Tutti insieme valgono quasi il 17% del Pil, oltre 250 miliardi di euro, e crescono con la crisi. Direttamente proporzionali alle fabbriche che chiudono, alle casse integrazioni che si allungano, alle sacche di scoraggiati che si gonfiano. E a quelli che non studiano, non sono in pensione, non cercano un lavoro, ufficialmente. Anche loro, gli inattivi, sempre meno per scelta, sono qui. In rosso e al nero. Più al Sud che nel Nord Est. Più a Crotone, Enna, Brindisi che a Bolzano, Reggio Emilia e Parma. Operano nei servizi (10%). Ma anche nelle costruzioni (8%) e nel manifatturiero (4%).

È la Calabria la regione con il primato delle irregolarità. Nel Meridione il sommerso incide per il 18,3% sul totale della forza lavoro, molto sopra la media nazionale dell'11,8%, il doppio rispetto al Centro-Nord (9,3%). In Calabria quasi un lavoratore su tre (27,3%) non esiste per lo Stato e per il fisco. Non a caso le prime tre province nella classifica degli "abusivi" sono tutte calabresi: Crotone, Vibo Valentia, Cosenza. A seguire, nelle regioni dove dilaga il "nero", Sicilia, Puglia, Campania e Molise. Meno problemi in Emilia Romagna, regina delle regolarità, come un po' ovunque nel più virtuoso Nord. Bene anche Trentino, Lombardia, Lazio e Toscana.

Il danno per l'economia nazionale è enorme. L'Iva dovuta ed evasa, ad esempio, è balzata del 24,4% tra il 2008 e il 2009, per un totale di 2,2 miliardi di euro non versati dai 7.513 evasori totali scovati dalla Guardia di Finanza lo scorso anno. Che si aggiungono ai 3.790 individuati nei primi cinque mesi del 2010, per un imponibile pari a 7,9 miliardi. Fantasmi che non hanno mai presentato una dichiarazione dei redditi.

«L'incidenza del lavoro nero in Italia non è una novità, ma la crisi ha spinto molti a infoltire le schiere già nutrite degli irregolari e ci aspettiamo che la situazione possa peggiorare nell'ultima parte dell'anno e nei primi sei mesi del 2011», si allarma Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato, convinto di una ripresa lenta. «Tremonti dice che l'emergenza è finita. Vero per la crisi finanziaria, non per l'occupazione. Il governo ha tenuto la barra dritta sui conti pubblici. Ma senza incentivi fiscali alle piccole imprese sarà difficile ripartire e sconfiggere le sacche di sommerso, specie al Sud. Il costo del lavoro è molto alto in Italia e gli "abusivi" sono un ulteriore fardello per le aziende che assumono».

Molti degli irregolari hanno perso il lavoro durante la crisi. Il totale dei "fuoriusciti" dal marzo 2008 al marzo 2010 ammonta a 338 mila unità. Impiegati, operai, professionisti, insegnanti tra i 25 e i 54 anni: 160 mila donne e 178 mila uomini, in gran parte (230 mila) residenti al Sud. Ora arruolati nell'esercito dei fantasmi.
(05 settembre 2010)

http://www.repubblica.it/economia/2010/09/05/news/lavoro-nero_confartigianato-6770113/

giovedì 23 settembre 2010

Lo stile Pomigliano arriva a Mirafiori. Ecco la cassa integrazione e i ricatti

Tre settimane di stop, Marchionne subordina nuovi modelli alla resa dei sindacati

Mirafiori è spacciata? Venerdì scorso, dopo il trionfale annuncio dello scorporo del settore auto fatto al Lingotto è giunta la notizia che lo stabilimento torinese subirà altre tre settimane di cassa integrazione tra ottobre e dicembre. La Fiat, che da tempo sul mercato non lancia nuovi modelli, langue e perde quote vendita colossali. Solo nell'ultimo mese si è verificato l'ennesimo crollo, pari al trenta per cento. E così torna la vecchia cassa integrazione per le carrozzerie, dove sono impiegate più di cinquemila persone.
A rendere ancora più drammatica la situazione è la sfacciataggine con cui Sergio Marchionne subordina l'arrivo di nuovi modelli all'accettazione del modello Pomigliano, il tutto in virtù della trita retorica secondo la quale «siamo tutti sulla stessa barca».
Ma la barca di Mirafiori, dove in tutto lavorano circa quattordicimila persone, sembra in via di affondamento.
«Esiste il problema di trovare un percorso condiviso con i sindacati: non parlerò di nuovi modelli o piattaforma finché ovunque non ci si allineerà con quanto deciso a Pomigliano». Così, pochi giorni fa, ha detto l'amministratore delegato, che non a caso ha caricato la posta utilizzando il termine «ovunque».
Federico Bellone, recentemente eletto alla segreteria provinciale della Fiom al posto di Giorgio Airaudo, vede la situazione di Mirafiori compromessa: «Purtroppo l'annuncio di nuova cassa era previsto. L'unico modello che dovrebbe sopravvivere a Mirafiori è l'Alfa Mito; la Multipla finerà entro qualche mese e nel 2011 termineranno le produzione di Punto, Idea e Musa. Non a caso la frequenza della cassa, in alcuni periodi, è passata da una-due settimane al mese a tre quattro. Siamo di fronte ad un raddoppio. Questo dato non potrà che aumentare nel 2011. Il rischio è che si esauriscono alcuni modelli molti lavoratori rimangano definitivamente in cassa integrazione».
In Fiat tutto tace sui nuovi modelli e come è ben noto la monovolume che doveva sostituire la Multipla è stata destinata alla Serbia.
Come minimo fino al 2012 non entrerà in produzione nessun nuovo modello. Continua Bellono: «Al margine dello spin off Marchionne ha fatto affermazioni peggiori che in passato. Non ha detto: qui c'è il modello, queste sono le condizioni, come nel caso di Pomigliano. Nel caso di Mirafiori pretende una accettazione preventiva da parte di tutti i sindacati. Poi si parlerà del modello. E' oggettivamente ancor più ricattatorio».
Tutto questo mentre la politica fa da spettatore o addirittura tifa spudoratamente per gli interessi padronali di Fiat.
«Io penso che di fronte a questi chiari di luna - insiste il segretario provinciale della Fiom - occorre un atteggiamento diverso da parte della politica. Intorno a Pomigliano c'era un'ipotesi industriale. Oggi no. La fiducia incondizionata rivolta alla Fiat è incomprensibile. L'annuncio di nuova cassa integrazione è giunto ventiquattro ore dopo la trionfale conferenza stampa sullo scorporo del settore auto. Quando il sindaco di Torino parla di sfida Fiat da raccogliere da parte del sindacato mi lascia perplesso. Se stiamo parlando di organizzazioni produttive ottimali la Fiom è pronta se invece si intende la lesione dei diritti dei lavoratori no. Sono affermazioni (quelle del sindaco Chiamparino, ndr) di puro carattere politico e che non entrano nel merito della situazione».
E' bene ricordare inoltre che il modello proposto da Sergio Marchionne prevede sì investimenti in Italia ma subordinati alla ripresa del mercato che, come tutti ben sanno, ha avuto un boom grazie agli ennesimi incentivi statali recentemente conclusi.
Ma la crisi non colpisce solo il settore auto alla Fiat. La Cnh di San Mauro, da tempo in agonia finirà nel settore "industrial". Durante la patinatissima conferenza stampa pro boccaloni di due giorni fa, mentre si annunciavano con toni trionfali il futuro della Fiat e dei suoi lavoratori, alla Cnh i terra i rappresentanti dell'azienda annunciavano altri 12 mesi di cassa integrazione straordinaria in deroga, dopo due anni di ammortizzatori. Dulcis in fundo i lavoratori attenderanno i tempi dell'Inps per vedere l'arrivo degli assegni. Senza salario.
M.P.

Liberazione 21/09/2010, pag 5

Cortei e operai sulla gru In Fincantieri è già autunno

Il gruppo annuncia - sui giornali - un drammatico piano che prevede solo chiusure

Maurizio Pagliassotti
Esplode l'autunno caldo alla Fincantieri vittima di un piano industriale centrato sullo smantellamento delle unità produttive ovunque esse siano. Il cuore della distruzione è centrato in Liguria dove il cantiere militare di Riva Trigoso verrà chiuso e messo all'asta mentre Sestri Ponente sarà semi smantellato. Due stabilimenti sommersi ed un terzo salvato, quello di Muggiano, dove la produzione è centrata sul mercato dei mega yacht che, alla faccia della crisi, non conosce, recessione. Il piano industriale Fincanteri ha scatenato non solo le proteste di lavoratori e sindacati ma anche quelle politiche e religiose. Il governatore ligure Burlando e il segretario della Cei, Bagnasco, hanno usato parole molto dure. Soprattutto il secondo, notoriamente vicino al governo, ha detto che «gli stabilimenti non devono essere chiusi».
Ma indiscrezioni vogliono che la Liguria sia solamente la punta dell'iceberg. La scure si abbatterebbe della ristrutturazione, si abbatterebbe su tutto il gruppo Fincantieri che, come è noto, dà lavoro a migliaia di persone da nord a sud del paese. E infatti il totale di lavoratori a rischio raggiunge la mostruosa quota di duemila e cinquecento. Se il piano dovesse rimanere tale due lavoratori su dieci perderebbero il posto.
Ed è per questi numeri che ieri in tutta Italia è esplosa la protesta. Scioperi e occupazioni hanno visto come protagonisti migliaia di lavoratori che non credono alle rassicurazioni del ministro Sacconi e tanto meno a quelle di Giuseppe Bono, amministratore delegato del gruppo, che ha ridotto tutto il piano di ristrutturazione al una "bozza di discussione."
Gli operai campani ieri hanno deciso di salire sulla torre di una gru all'interno dell'area Fincantieri a Castellammare, stabilimento dato per spacciato. Pare che l'organizzazione della protesta, che vede coinvolte sei persone, sia stata unitaria. Fiom Cgil, Fim, Uilm, Ugl e Failms e Cisal al momento sembrano saldamente unite nel contrastare il piano Fincantieri-Governo Berlusconi. Con loro, come in Liguria, anche la politica e la Chiesa.
Gli operai campani saliti sulla gru, ad oltre cinquanta metri di altezza, hanno esposto uno striscione recante la scritta: "Il cantiere non si tocca, lo difenderemo con la lotta".
Ma forse è la Liguria che ha visto le manifestazioni più dure e partecipate: a Riva Trigoso i lavoratori hanno scioperato ed hanno chiesto un incontro urgente con i vertici di Fincantieri, i quali hanno "rassicurato" le maestranze su un "prossimo incontro". Purtroppo però non ci sono date precise. Occupazione di due ore anche di una palazzina presso lo stabilimento di Sestri Ponente, con annesso sciopero.
Gravissima anche la situazione di Palermo dove fra poche settimane dovrebbe scattare una cassa integrazione di massa che colpirebbe il 90% dei lavoratori.
Mai come ieri però le manifestazioni sono state unitarie a partecipate.
Bruno Manganaro della Fiom Liguria commenta: «Fincantieri da tempo sta producendo cassa integrazione, quindi qualche paura c'era. Certo non ci aspettavamo un ristrutturazione così devastante. E a peggiorare la situazione è anche il modo con cui siamo venuti a sapere di quali sono i piani: attraverso articoli di giornale! Come è possibile che il futuro di migliaia di persone possa essere comunicato con scoop giornalistici? Il piano che Fincantieri voleva mantenere segreto prevede la chiusura di Castellamare, e Sestri Levante, più vari stabilimenti fortemente ridimensionati. La produzione verrebbe concentrata su Monfalcone, Marghera e Ancona. E' inaccettabile».
Il futuro appare oscuro e gli spazi di manovra sembrano molto ridotti. Continua Mamganaro: «In questo momento proviamo solo molta rabbia e incazzatura. I direttori di cantiere cadono dalle nuvole e dicono che non ne sanno nulla. Ma così fanno tutti. Noi diciamo che quel documento va ritirato, strappato, bruciato, vedano loro.... Per noi della Fiom non è nemmeno un punto di partenza. Se verrà mantenuto Fincantieri e Governo Berusconi devono sapere che in cambio riceveranno solo occupazioni. Nel 2009 a Sestri Ponente occupammo per cinque giorni lo stabilimento: non ci avevano riconosciuto il premio di produzione. Sappiamo quindi che hanno a che fare con persone molto determinate, che in passato hanno già dimostrato di non essere disposte a piegarsi».
Ma se la Fiom è disposta a scendere sul terreno del conflitto così sarà anche per gli altri sindacati? Questa è la domanda che fa un po' da convitato di pietra in tutti i soggetti coinvolti in questa storiaccia.
Risponde sempre Manganaro: «Al momento siamo uniti. Il primo ottobre ci sarà un convegno unitario a Roma con relativo sciopero e manifestazione davanti a Palazzo Chigi. Certo c'è chi tira il gruppo e questa è la Fiom».
Oggi ci saranno nuove manifestazioni in tutta Italia. La speranza è che il Governo, dopo aver saggiato la durezza della risposta sindacale, torni sui propri passi e intervenga per cancellare il piano Fincantieri.

Liberazione 21/09/2010, pag 5

Fincantieri, la "rabbia"esplode a Palermo. Piattaforma occupata

Sciopero di otto ore, blocchi e cortei in tutta Italia

Maurizio Pagliassotti
La protesta Fincantieri esplode mentre la politica segna il passo e si chiude dentro un assordante silenzio. Forse per nascondere un ruolo di giocatore attivo dietro quello ben più comodo dell'arbitro.
A Palermo i lavoratori ieri hanno deciso di occupare ad oltranza una piattaforma realizzata per conto della Saipem. La protesta, iniziata due giorni fa, è successiva alla comunicazione sullo spostamento dell'unica nave presente in riparazione nel cantiere navale. «Da fonti Saipem si è saputo che lo Scarabeo ha bisogno di variazioni tecniche che richiedono un anno di lavoro. E quindi intendono trasferire la commessa - dicono le segreterie provinciali di Fiom, Fim e Uilm. Una comunicazione secca, piovuta come un fulmine a ciel sereno.
Fincantieri ha contemporaneamente affermato che i lavori di preparazione della piattaforma petrolifera semisommergibile "Scarabeo 8" sono completati. Insomma, la commessa che dà lavoro allo stabilimento siciliano di Finanzieri è a forte rischio. Per questa ragione dopo aver occupato la piattaforma i lavoratori hanno deciso di inasprire la lotta. Al termine di un'assemblea che ha avuto momenti di confronto molto duri è stato proclamato per oggi uno sciopero di otto ore. Inoltre un corteo partirà dalla Fincantieri e arriverà alla presidenza della Regione. La tensione, secondo alcune fonti interne, sarebbe avvenuta perché molte voci insistevano per forme di lotta più radicali. Si è parlato anche di blocchi autostradali. Per il momento la responsabilità dei lavoratori sembra prevalere anche perché, sempre secondo le fonti sindacali coinvolte, la possibilità che effettivamente la nave in ristrutturazione venga spostata sono basse.
Francesco Foti della Fiom Cgil chiama in causa i responsabili del piano di ristrutturazione: «Chiediamo che le istituzioni intervengano per un chiarimento. Ci rivolgiamo al prefetto, al governo regionale, al governo nazionale perché interloquiscano con la Saipem sulla vicenda. Occorre un soggetto terzo tra la Saipem e Fincantieri».
Se il piano Fincantieri Saipem dovesse passare la cassa integrazione riguarderebbe 470 lavoratori su cinquecento. Un vero disastro per la già disastrata occupazione siciliana. Nella sola Sicilia è stato calcolato che i lavoratori a rischio disoccupazione sono circa quarantamila.
Situazione tesissima anche a Castellamare di Stabia dove i lavoratori hanno bloccato per alcune ore la statale Sorrentina all'altezza delle Nuove Terme «È chiaro - ha dichiarato Giovanni Sgambati, segretario generale della Uilm Campania - che senza una smentita di Fincantieri nelle prossime giornate il livello di esasperazione rischia di essere molto elevato. È urgente un intervento del governo e di Fincantieri che smentiscano il piano».
Giorgio Cremaschi, coordinatore nazionale Fiom-Cgil, ha annunciato ieri la «mobilitazione in tutto il gruppo». Il leader sindacale ha aggiunto che «è necessario un incontro urgente con l'azienda per conoscere le sue reali intenzioni. Ci saranno anche Fim e Uilm».
Che la lotta sia unitaria e coinvolga anche le istituzioni locali è testimoniato dall'incontro svoltosi ieri tra i delegati di Fincantieri e i rappresentanti di Comuni, Province e Regioni dove si trovano gli stabilimenti interessati. Dall'azienda continuano a giungere rassicurazioni che poco rassicurano: «Il piano di cui si parla è solo un'opzione che stiamo valutando».
Racconta Bruno Manganaro, delegato Fiom Cgil ligure presente all'incontro: «Il convegno è andato molto bene. Erano presenti i sindaci, i rappresentanti delle regioni e delle varie province interessate al piano Fincantieri. Tutti abbiamo condiviso che la cosiddetta "opzione" deve essere respinta e non rappresenta un punto di partenza su cui intavolare una trattativa. E' necessario un tavolo di confronto ai massimi livelli. La nostra proposta prevede un attivo impegno da parte dello Stato affinché vi sia un aumento delle commesse pubbliche. Non è possibile pensare di smantellare in maniera così brutale una realtà storica come quella di Fincantieri».
Il governo intanto, per voce del ministro Sacconi si dice pronto ad ascoltare le parti coinvolte nella trattativa sui problemi occupazionali di Fincantieri. Come è noto la società cantieristica più importante d'Italia è controllata da Tesoro attraverso la Fintecna.
Non manca però la stoccata al sindacato, probabilmente alla Fiom. Ha detto infatti Sacconi: «Il governo convocherà le parti di Fincantieri per rimettere nei corretti binari il confronto sul futuro della società che allo stato dichiara di non avere definito alcuna ipotesi. Faccio appello a tutte le istituzioni e le organizzazioni sindacali perché siano isolati gli agitatori professionali nel nome del primario interesse dei lavoratori». I prossimi giorni saranno fondamentali per capire se la cosiddetta "opzione" verrà mantenuta. Forse chi l'ha ipotizzata non aveva previsto un protesta così radicale e pensava che i lavoratori italiani fossero abituati ormai a tutto e che quindi tutto si potesse proporre. Una dura sveglia sta suonando per coloro che credevano di poter fare tutto ciò che volevano in nome della competizione sui mercati, della flessibilità e tutto il resto.

Liberazione 22/09/2010, pag 4

Fincantieri, specchio del disastro italiano

Giorgio Cremaschi
Quella di Fincantieri è una tipica storia italiana. Il gruppo con i suoi 9mila dipendenti diretti e i 25mila addetti negli appalti e nell'indotto, rappresenta uno dei punti di forza del sistema industriale del Paese. Vent'anni fa le partecipazioni statali volevano dismetterlo perché considerato un settore maturo. Il sindacato riuscì a impedire questa scelta e la Fincantieri si riprese costruendo grandi navi per tutto il mondo. Quattro anni fa l'azienda tentò di entrare in borsa, attualmente è di proprietà al cento per cento della Fintecna, cioè del ministero del Tesoro. Una grande mobilitazione della Fiom e di tutte le intelligenze del gruppo riuscì a conquistare un vasto consenso di opinione pubblica e a fermare la privatizzazione. L'azienda rimase pubblica e fu una fortuna, perché altrimenti, dopo la crisi borsistica, il gruppo sarebbe già stato venduto all'asta.
E poi è arrivata la grande crisi economico-finanziaria. Il settore delle costruzioni navali ne ha risentito moltissimo in tutto il mondo e così anche la Fincantieri.
Ancora una volta si è tentata però una strada completamente sbagliata.
Mentre partiva la crisi l'azienda ha aperto uno scontro sul salario legato alla produttività con tutti i lavoratori del gruppo. Questo scontro ha portato prima a degli accordi separati, poi a degli accordi unitari che solo parzialmente hanno risolto la questione. Fatto sta che l'azienda ha speso un anno e mezzo a spiegare che i suoi problemi principali erano di produttività del lavoro. E così arriviamo ai giorni nostri nei quali un'indiscrezione giornalistica ben accreditata lancia la chiusura di Castellammare di Stabia e Riva Trigoso, il dimezzamento di Sestri Ponente, ampi tagli occupazionali in tutto il gruppo. Questo disastro cancella la questione della produttività: uno degli stabilimenti che l'azienda vorrebbe chiudere è, secondo le tabelle aziendali, tra i più produttivi e pone invece la questione di fondo: l'assenza di politiche industriali e di strategie aziendali atte ad affrontare davvero la crisi.
Accanto agli errori periodici dell'azienda, infatti, abbiamo dovuto registrare il solito ridicolo balletto delle promesse e degli impegni mancati da parte del governo. Prima ancora di dimettersi, il ministro Scajola non aveva mantenuto gli impegni per gli indispensabili interventi pubblici nel settore. E' chiaro infatti che senza una forte politica dello Stato i cantieri navali sono destinati a chiudere. In tutti i paesi ove si vuole mantenere questa produzione, lo Stato interviene sia con le commesse sia con il finanziamento degli investimenti necessari a potenziare davvero la produttività, ove questo non accade i cantieri chiudono.
Come al solito nel balletto della politica italiana si è parlato di produttività, di commesse di carceri galleggianti, di navi ecologiche. Tutte le più varie fantasie sono state spese nella pubblicità mediatica, ma il risultato è stato neanche un bullone di lavoro. Si arriva così alla crisi attuale dove si misura tutta l'incapacità di una classe dirigente politica ed economica di difendere davvero l'industria e il lavoro. La chiusura di alcuni cantieri navali non è solo una drammatica operazione sociale, che devasta interi territori dalla Liguria alla Sicilia e che, in Campania, distrugge un'intera comunità. E' anche l'ennesimo sciocco errore di politica industriale. Quello di chi non punta al futuro, ma semplicemente pensa di razionalizzare i conti tagliando tutto quello che si può tagliare. Così se domani dovessero esserci nuove commesse navali, Fincantieri non avrebbe più i siti dove produrre.
Lo scontro che si è aperto con le lotte durissime dei lavoratori in tutto il gruppo, e prima di tutto a Castellammare, Palermo e Liguria manda quindi un messaggio a tutti. Alla politica, come sempre attardata e depistata su altro. Alla Confindustria e alle imprese perché la vicenda Fincantieri dimostra ancora una volta che le offensive contro i diritti, sulla produttività e sulla flessibilità del lavoro sono un puro e semplice depistaggio dai problemi reali. Il 1° ottobre tutti i lavoratori Fincantieri verranno in sciopero a Roma per chiedere che la presidenza del Consiglio affronti la crisi e per dire con tutta l'indignazione del caso no alla chiusura di un settore strategico e sì, finalmente, a una politica industriale degna di questo nome.

Liberazione 22/09/2010, pag 1 e 4

«Sfida a Napolitano». I giuristi contro il Collegato

Il Collegato lavoro sarà in aula al Senato la prossima settimana. A deciderlo è stata ieri la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama.
Sul testo riproposto dal Governo dopo la bocciatura del Colle, secondo l'associazione nazionale "Giuristi democratici" «viene riproposto sostanzialmente immutato alle Camere». I magistrati e gli avvocati di "GD" esprimono «forte preoccupazione» per lo sviluppo della vicenda. Dalla lettura dei lavori delle Commissioni «pare di poter concludere che i moniti del Presidente della Repubblica siano rimasti del tutto inascoltati». «Nulla è stato innovato, infatti,- lamentano i giuristi democratici - in relazione alla "effettiva volontarietà" delle negoziazioni e delle eventuali rinunce, ancora una volta con speciale riguardo ai rapporti di lavoro e alla tutela dei diritti dei lavoratori in sede giurisdizionale, punto espressamente segnalato nella nota del Presidente della Repubblica». E non è tutto: anche il delicatissimo aspetto riguardante la possibilità di inserimento nella clausola compromissoria della decisione secondo equita «è rimasto sostanzialmente inalterato». Ed ancora, «nulla viene modificato in relazione alla possibilità dell'intervento suppletivo del ministro del Lavoro in assenza di accordi interconfederali o contratti collettivi che stabiliscano clausole compromissorie». In definitiva, «il testo uscito dal Senato appare una vera e propria sfida al Capo dello Stato ed alla sua funzione di garante del rispetto della Costituzione». Di qui l'invito a tutte le forze politiche, associazioni e cittadini a mobilitarsi affinché‚ la norma "Collegato Lavoro" «venga sottoposta ad una vera revisione, in accoglimento dei rilievi mossi dal Capo dello Stato, consentendo alla parte debole del rapporto di lavoro di mantenere le garanzie preesistenti».
Forti critiche anche dall'Idv che in una nota si dice pronta a portare avanti una battaglia dura «per impedire a governo e maggioranza di cancellare in un sol colpo 40 anni di conquiste ottenute attraverso le lotte sindacali». L'appunto è per il 21 settembre a fianco alla Cgil.
Fa. Seba.

Liberazione 16/09/2010, pag 5

Contratti, le deroghe ambigue di Federmeccanica

Si è aperto ieri, per essere subito rimandato, il confronto con Fim, Uilm e Ugl

Fabio Sebastiani
Tutto rinviato alla fine di settembre. Quasi un nulla di fatto, ieri, al tavolo sulle deroghe al contratto dei metalmeccanici. Da una parte Federmeccanica e, dall'altra i sindacati del settore, Fiom esclusa. L'impressione è che il confronto stia segnando il passo sui tempi, e le modalità, da dare allo stralcio dell'accordo del settore automotive. Tra i vertici di Federmeccanica c'è molto imbarazzo. Eloquenti le parole del direttore generale di Federmeccanica, Roberto Santarelli:
«C'è la necessità di definire norme specifiche per il settore auto», ma «nessuno sta discutendo di un contratto per l'auto», ha sottolineato al termine dell'incontro. «Sicuramente dalla maggiore azienda italiana - ammette Santarelli - ci è stata avanzata la richiesta di una disciplina specifica, che non è una richiesta fuori sacco, sta dentro il contratto di lavoro. Noi vogliamo attivare la commissione già prevista e vedere quali norme specifiche per il contratto auto definire». Nel corso della «riunione ricognitiva e programmatoria» sono stati evidenziati tre obbiettivi dichiarati: definire la ripartizione delle materie tra primo e secondo livello di contrattazione; definire il capitolo della derogabilità del contratto; affrontare il tema della conciliazione e dell'arbitrato.
Duro il commento del presidente del Comitato centrale della Fiom, Giorgio Cremaschi.
«L'incontro tra Federmeccanica, Fim, Uilm e Ugl, è una penosa sceneggiata. Il calendario concordato serve solo a fingere una trattativa inesistente, perché il testo dell'accordo è già stato scritto dalla Fiat e Federmeccanica, e i sindacati complici devono solo sottoscriverlo». «La Fiat non si offenderà - prosegue Cremaschi - se le clausole capestro e le lesioni ai diritti fondamentali dei lavoratori del diktat di Pomigliano saranno estese a tutti i lavoratori metalmeccanici».
Sulla tormentata vicenda della revisione del modello contrattuale è tornato anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che ha pensato bene di cavalcare la teoria degli "opposti estremismi". «Non bisogna isolare la Fiom - ha detto - ma bisogna anche che la Fiom non si isoli e non si ritenga sola in questa battaglia, altrimenti su quella strada la Fiom sarà sconfitta e trascinerebbe in questa sconfitta anche la Cgil». Parlando delle posizioni di Fiat e Federmeccanica, Epifani ha sostenuto che «c'è il tentativo di mettere fuori la Fiom per molto tempo». «Ho l'impressione che questa volta i nostri avversari non scherzano. Non è una passeggiata», ha aggiunto.
Infine, si conclude oggi a Roma il giro per i siti della Fiat dei tre lavoratori "non reintegrati" dalla Sata-Fiat di Melfi. Ieri le tre tute blu hanno stazionato davanti a Pomigliano D'Arco. Molta solidarietà, ma anche diversi che hanno preferito tirare dritto. «Li capiamo - ha detto Gianni Barozzino, uno dei due delegati Fiom licenziati a luglio e poi reintegrati dal giudice del lavoro - hanno paura di fare la nostra stessa fine. È avvenuto anche davanti ad altri stabilimenti, anche se qui in maniera accentuata. Ma i lavoratori di Pomigliano li capisco di più: lavorano per pochi giorni al mese, ed hanno alle spalle un referendum che era un vero e proprio ricatto. Allo stesso tempo, però, mi chiedo se uno Stato democratico può consentire che le cose vadano a questo modo». Marco Pignatelli, l'operaio iscritto alla Fiom che è stato licenziato insieme con i due delegati Barozzino e Lamorte, ha affermato di aver portato solidarietà ai colleghi di Pomigliano: «Sono ricattabili - ha sottolineato - a loro va la nostra solidarietà per quello che sta accadendo a Pomigliano, ed a noi è giunta la loro, anche se ai cancelli hanno avuto paura delle telecamere. Ma noi siamo stati qui, come negli altri stabilimenti Fiat, perchè sappiamo di essere il simbolo, i precursori di quanto accadrà nelle fabbriche con l'accordo che da Pomigliano porteranno anche altrove. Se scioperi ti licenziano».

Liberazione 16/09/2010, pag 5

giovedì 16 settembre 2010

I disoccupati più poveri stanno in Italia

Peggio di noi (0,5% del Pil) ha fatto solo la Gran Bretagna. Prima la Germania con il 2,2%

I disoccupati italiani sono tra i meno aiutati d'Europa. Lo denuncia l'Ufficio studi della Cgia di Mestre: nel 2008 (ultimo dato disponibile) le risorse messe a disposizione del milione e 690 mila disoccupati italiani sono state lo 0,5% del Pil e solo la Gran Bretagna ha fatto peggio, con lo 0,3% del Pil per 1.753.000 senza lavoro. Intanto, la Cgil denuncia che sono circa 650 mila i lavoratori coinvolti nei processi di cassa integrazione da inizio anno, con riflessi pesanti in busta paga pari a un taglio netto del reddito per oltre 3,1 miliardi di euro, più di 4.900 euro per ogni singolo lavoratore. Le ore di Cigd (cassa integrazione in deroga) ad agosto sono pari a 35.499.955 ore, e aumentano su luglio del +5,77%, attestandosi al valore più alto degli ultimi 12 mesi, e del +195% sullo stesso mese dello scorso anno. Inoltre va sottolineato che da gennaio 2009 ad agosto 2010 sono state autorizzate 344.740.008 ore di Cigd, di queste 244.561.888 soltanto da inizio anno. Un monte ore che coinvolge 175.439 lavoratori dei 645.682 coinvolti dai processi di Cig.
Guardando alle risorse assicurate ai disoccupati dai vari paesi Ue, la Germania nel 2008 ha messo in campo il 2,2% del Pil per sostenere 3 milioni 141 mila disoccupati, la Spagna il 2,1% per 2 milioni e 591 senza lavoro e la Francia l'1,6% per proteggere 2 milioni e 235 mila disoccupati. In termini assoluti l'Italia ha messo a disposizione quasi 8 miliardi di euro (precisamente 7,92 miliardi), contro i 48,91 della Germania, i 25,66 della Francia e i 21,93 della Spagna. In pratica per ogni disoccupato italiano sono stati spesi 4.691 euro, contro i 17.921 euro per ciascun disoccupato irlandese, i 16.652 per quello austriaco, i 15.570 per il senza lavoro tedesco e gli 11.483 per ciascun francese che ha perso il posto. «Per misure a sostegno dei disoccupati - precisa il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi - ci riferiamo all'erogazione di sussidi per fronteggiare l'inattività lavorativa, alle prestazioni offerte dai servizi pubblici per l'impiego o per la partecipazione ad attività formative. Oppure, per l'inserimento lavorativo vero e proprio grazie all'introduzione di incentivi e sgravi fiscali». «Se è vero che spendiamo poco per sostenere economicamente i nostri disoccupati - osserva Bortolussi - è però altrettanto vero che siamo un Paese che ha un buon pacchetto di ammortizzatori sociali (Cigo, Cigs, mobilità, etc,) che interviene prima della perdita definitiva del posto di lavoro. Cosa, quest'ultima, che molti altri Paesi europei non dispongono». La Cgia di Mestre inoltre ha dimensionato gli importi spettanti ai lavoratori dipendenti italiani che sono rimasti senza lavoro, da cui emerge che l'indennità di disoccupazione è inversamente proporzionale al tempo di durata dell'inattività lavorativa. Gli importi (ad esclusione dei lavoratori edili) hanno un limite massimo che per il 2010 è pari a 893 euro se la retribuzione del lavoratore era pari o inferiore a 1.932 euro mensili, oppure a 1.073 euro se la retribuzione era superiore. Per gli apprendisti l'indennità è pari all'80% della retribuzione per un massimo di 90 giorni.

Liberazione 12/09/2010, pag 5

Patto sociale, il solito imbroglio

Giorgio Cremaschi
Il segretario della Filctem Cgil Morselli sul Corriere della Sera rivendica il suo accordo, nel contratto nazionale dei chimici, che ha aperto la via alle deroghe contrattuali. Egli spiega che esso è diverso da quello di Pomigliano, perché per i chimici le deroghe sarebbero temporanee.
Bisogna proprio dire che c'è chi non impara nulla dalla realtà. Ci si attendeva che il segretario dei chimici della Cgil, di fronte a come viene usata e minacciata la deroga al contratto nazionale dalla Fiat, dai padroni metalmeccanici, dalla Confindustria, facesse una dichiarazione di buon senso. Dicesse, cioè: «Signori abbiamo concordato una cosa che è diventata un attacco generale ai diritti dei lavoratori, non volevo, non ci sto più».
Invece persevera nell'errore, e purtroppo non è il solo.
In Italia i dati economici stanno mostrando che la ripresa non c'è. L'unica ripresa in atto davvero è quella dell'attacco frontale al salario e ai diritti dei lavoratori. E come sempre negli ultimi trent'anni questo attacco si nasconde sotto due parole magiche: patto sociale.
Vuole il patto sociale la Confindustria, naturalmente visti i guadagni che spera di ottenere con esso. Vuole il patto sociale il governo, che così un'altra volta si chiama fuori dal compito di definire una politica economica, e può divertirsi a insultare la Fiom e la Cgil. Vuole il patto sociale la Cisl, che ne ha appena firmato uno, ma evidentemente non è mai contenta e pensa che continuare a riscrivere e peggiorare lo stesso accordo è un modo di esistere. Vuole il patto sociale, pare di capire, una parte rilevante del partito democratico, da Damiano a D'Antoni. E qui francamente rinunciamo a capire, perché dovremmo entrare in analisi psicologiche che riguardano il masochismo e la voglia di farsi male.
In Italia le parole patto sociale hanno coperto nel passato, e coprono ancor più oggi una politica brutalmente classista che taglia i salari e i diritti dei lavoratori e che lascia libere di fare quel che vogliono le imprese con il loro sistema. Il patto sociale è un puro e semplice imbroglio.
Per affrontare la crisi italiana ci vorrebbero giustizia, uguaglianza, intervento pubblico. Invece si pensa di affrontare tutto con la distruzione del contratto nazionale, partita con l'attacco alla Fiat. La presidente della Confindustria vuole legare i salari alla produttività e dimentica che la Fiat ha cancellato quest'anno proprio il premio di produttività.
O meglio non lo dimentica affatto perché oggi legare i salari alla produttività vuol solo dire ridurre le retribuzioni.
E' l'Italia di sempre, quella dei poteri e delle caste che comandano e non vogliono cambiare niente, quella che vuole il patto sociale.
Come ha scritto il professor Luciano Gallino ci sarebbe invece bisogno di un ritorno del conflitto sociale e della tanta vituperata lotta di classe. Per conquistare diritti e salari uguali per tutti e costringere così le imprese a competere sulla qualità e sulla tecnologia invece che sui salari e sullo sfruttamento dei lavoratori.
Con il patto sociale è tornato di moda il modello tedesco. Naturalmente questo non vuol dire che i salari italiani dovranno essere pari a quelli tedeschi, superiori del 40%. Né che gli orari di lavoro dovranno ridursi fino alle 35 ore settimanali dei metalmeccanici di Germania. Né che nelle imprese il sindacato dei lavoratori abbia potere di veto sulle scelte strategiche. Né tanto meno che lo Stato intervenga per fermare le delocalizzazioni o addirittura garantire la proprietà pubblica delle imprese. Tutto questo che c'è in Germania da noi non è importabile, l'unica cosa che invece si vuol portare qui è la "collaborazione". L'idea del patto sociale, è la solita vecchia minestra riscaldata della politica reazionaria. Si chiede la collaborazione ai lavoratori cosicché gli industriali e i ricchi possano continuare a fare tutto quello che vogliono.
La verità è che in Italia non solo c'è bisogno di lottare contro Berlusconi e la sua politica, ma bisogna cominciare davvero a contrastare la politica altrettanto conservatrice e antisociale della Confindustria. La disdetta da parte della Federmeccanica del contratto nazionale deve essere considerata una dichiarazione di guerra a tutto il mondo del lavoro e alle sue stesse garanzie costituzionali.
Ma proprio qui invece è mancata finora l'iniziativa della maggioranza della sinistra e della stessa Cgil. Sotto sotto si pensa che si possa mandar via Berlusconi alleandosi con Marchionne. E' un'idea priva di contatto con la realtà e che porta solo al suicidio di chi a sinistra la pratica. Se si vuole davvero affrontare la crisi economica bisogna costruire un'alternativa di fondo e la prima cosa da fare è abbandonare i discorsi vecchi e inutili di chi pensa di continuare ad offrire disponibilità ad un sistema delle imprese che non è disposto a concedere nulla.

Liberazione 11/09/2010, pag 1 e 5

Collegato lavoro, il fantasma potrebbe tornare a colpire

Prc e Fds lanciano l'allarme: ritornerà il 16 settembre. Oggi presidio a Roma

Fabrizio Salvatori
Torna in sella il Collegato lavoro. Notizie di "palazzo" dicono che con molta probabilità il voto sul testo, di cui si erano perse le tracce nei meandri della Camera dei deputati, ci sarà domani 16 settembre. L'unica iniziativa annunciata, per il momento, è un presidio della Federazione della sinistra a piazza Navona a partire da oggi pomeriggio.
Il 31 marzo 2010 il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere il testo della legge, approvata in via definitiva dal Parlamento il 3 marzo.
Il Presidente ha esercitato i poteri conferiti dall'art. 74 della Costituzione, che dà al Capo dello Stato il potere di rifiutare la promulgazione di una legge votata dal Parlamento quando ritenga che la stessa sia affetta di vizi di costituzionalità.
Il Prc-Federazione della sinistra, in un lungo comunicato fa il punto della situazione. «Il collegato lavoro rappresenta un tassello decisivo dell'offensiva in atto contro i diritti del lavoro, ad opera di Berlusconi e Confindustria».
Tra l'altro, con il Collegato lavoro si vuole fare in modo che le lavoratrici e i lavoratori «siano gli unici cittadini a cui è impedito, di fatto, di ricorrere alla magistratura per far valere i propri diritti, in esplicito contrasto con l'articolo 24 della nostra Costituzione». «Si vuole infatti che sotto il ricatto del posto di lavoro (Pomigliano docet), lavoratrici e lavoratori - continua la nota - rinuncino al tutela del giudice ed accettino che su ogni controversia del rapporto di lavoro, decidano arbitri privati, non tenuti al rispetto dei contratti e delle leggi. Mentre, per quanti rifiuteranno di sottostare al ricatto, vengono comunque drasticamente limitate le prerogative del giudice del lavoro, anche in questo caso in contrasto con l'articolo 101 della Costituzione». «Con l'aberrazione - si legge ancora - per cui il giudice dovrebbe tener conto di quanto stabilito in sede di certificazione, anche se peggiorativo della legge e dei contratti collettivi, persino per le nozioni di giusta causa e giustificato motivo nei casi di licenziamento».
Secondo il Prc-Fds si vuole anche, sempre attraverso il rafforzamento dell' istituto della certificazione introdotto dalla legge 30 e finora sostanzialmente non applicato, «far proliferare i contratti individuali, per privare i lavoratori delle garanzie della contrattazione collettiva, frammentare e precarizzare ulteriormente il mondo del lavoro».
La drastica limitazione dei termini per l'impugnazione dei licenziamenti, dei contratti di collaborazione e dei contratti a termine, infine, «mira a rendere sostanzialmente impossibile far valere i propri diritti soprattutto ai lavoratori precari, che alla cessazione del rapporto di lavoro sperano prima di tutto in una riconferma e fanno causa solo se questa non c'è».
«Il collegato lavoro insieme all'attacco al contratto collettivo, e alla volontà esplicita del governo di far fuori lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori - conclude la nota -vogliono ridurre il lavoro a pura merce usa e getta, senza diritti. Quella che è in atto è un'organica controriforma, eversiva della Costituzione. Se venisse sciaguratamente approvato, è chiaro che ogni strumento andrà messo in campo per farlo saltare». Prc-Fds chiede alle forze dell'opposizione parlamentare di usare ogni strumento possibile in Aula e invita «tutte e tutti a partecipare al presidio che come Federazione della Sinistra promuoviamo a partire da mercoledì 15».

Liberazione 15/09/2010, pag 3

La "cura" Marchionne anche agli aeroporti veneti

Alberto Giacchi*
Non è solo a Pomigliano che i "padroni italiani" mostrano arroganza e instaurano un clima di ricatto. L'esperienza che stiamo facendo noi, guardie giurate degli aeroporti di Venezia e di Treviso ha molti punti in comune con quanto sta avvenendo alla Fiat. Siamo quelli che controlliamo ai varchi migliaia e migliaia di passeggeri al giorno, garantendo la sicurezza dei voli.
Anche da noi, come a Pomigliano, vogliono ridurre in cenere i diritti. I diritti sono garantiti dal contratto. E noi, da anni, rivendichiamo l'applicazione di quello del trasporto aereo. L'azienda invece, la Save Security (controllata al 100% da Save spa), vuole continuare a trattarci come "addetti al commercio". Questo, ovviamente, porta a un risparmio sul costo del lavoro di circa 200 euro. Di fronte alle nostre resistenze, e alle nostre azioni di lotta, la Save Security ha pensato bene, attraverso il suo amministratore delegato, di chiedere un referendum. Democrazia? Nemmeno per sogno. La condizione posta è che o l'opzione di mantenere il contratto del commercio passa con almeno l'80% dei sì - come se noi lavoratori potessimo pilotare le scelte individuali - oppure la Save Security avrebbe passato il business della vigilanza ai varchi aeroportuali ad un altro gestore.
Il nostro lavoro è regolato da una disposizione di legge. E questo conta nella valutazione generale della questione. La differenza è che, in sostanza, rispetto agli altri impieghi del settore della vigilanza privata noi possiamo agire solo per i beni dell'aeroporto e non possiamo lavorare in altre postazioni esterne al sito aeroportuale. Il passaggio normativo non è stato messo a caso. Il senso è che a garantire la sicurezza dei voli ci deve essere personale specializzato. Del resto, più o meno la stessa cosa avviene in altri luoghi di lavoro in cui il grado di sicurezza interna è molto meno "allarmato". La sicurezza interna in un polo come il Petrolchimico, per esempio, gode del contratto dei chimici, come alla Fiat c'è il contratto dei metalmeccanici.
La nostra pretesa non nasce certo da un capriccio. Prima di costituire la società era stato fatto addirittura un accordo per applicare il contratto dei trasporti. Poi, invece, l'avvio ha puntato in tutt'altra direzione. Abbiamo chiesto di sanare questa situazione, e ci hanno risposto picche. Abbiamo chiesto allora una adeguamento salariale compatibile con il contratto dei trasporti, e ci è stato proposto un aumento di 60 euro. Non soldi immediatamente fruibili ma corrisposti nel tempo e solo in relazione al limite di un certo numero di giorni di malattia goduti. Quell'accordo è scaduto due anni fa. E da allora è stato un continuo braccio di ferro. Siamo andati in assemblea con i lavoratori e loro hanno bocciato l'ipotesi di continuare sulla strada dell'adeguamento. I lavoratori hanno cambiato il mandato al sindacato e hanno preteso di avere il contratto di trasporto aereo "senza se e senza ma". «Non ci facciamo più prendere in giro», hanno gridato in massa durante l'assemblea.
La richiesta di referendum, e qui siamo alla beffa, è stata motivata con il fatto che la partecipazione alle assemblee è stata scarsa. A parte il fatto che questa circostanza è palesemente falsa. Il punto è che noi, lavorando nel contesto del servizio pubblico, di fatto, non possiamo partecipare ad assemblee sindacali se non quando siamo di riposo. Dovendo garantire una certa percentuale di servizio, alla fine le assemblee sono "magre" durante l'orario di lavoro.
Il nostro lavoro è molto impegnativo: i turni sono di otto/nove ore mentre ne dovremmo fare sette e mezza. Nonostante si cominci alle quattro e mezzo di notte non ci viene riconosciuta alcuna indennità notturna. Non abbiamo le stesse indennità di chi lavora nel trasporto aereo.
Da quando inizi a lavorare a quando te ne vai l'unica pausa che ti spetta è, dopo sei ore, di lavoro di dieci minuti. Il nostro è un lavoro dove non è permesso l'errore. In più abbiamo ispezioni europee e della stessa Enac. La responsabilità della sicurezza del volo ce l'abbiamo noi. E' un lavoro dove non ti puoi distrarre. L'azienda non prende mai in considerazione questo aspetto. Una delle rivendicazioni era di fare almeno dieci minuti di pausa ogni due ore di lavoro. Ci hanno risposto di no perché questo comportava dei costi. Abbiamo chiesto di fornirci dei rilevatori dei raggi X. Scrupolo eccessivo? Anche l'amianto non era nocivo all'inizio. E poi arrivarono delle sorprese piuttosto pesanti. Quando passa un bagaglio nel tunnel del metal detector le tendine piombate si spostano, e da lì escono raggi nocivi. Lì nei paraggi ci siamo noi. Se le tendine sono state fatte di piombo un motivo ci sarà. L'azienda dice che non creano danno. Lo stesso l'azienda che li produce. Ma noi non ci fidiamo. Intanto il lavoro sta aumentando. Save security fa i profitti e non lo nasconde. Il presidente della Save spa Enrico Marchi, autore della richiesta di referendum, ha preso due milioni di euro di premio di produzione.
I lavoratori si sono espressi per dar vita a una nuova fase di lotta. Così pure la Cgil, almeno per quanto riguarda la Cgil Trasporti. La Cisl commercio dice che va bene continuare sulla strada dell'integrativo, cosi come Uil del commercio.
*Rsa Filcams/Cgil Save Security

Liberazione 09/09/2010, pag 13

L'assalto di Federmeccanica, disdetta del contratto metalmeccanico

Fiom: «Decisione gravissima, irresponsabile, illegittima». Oggi il sindacato di categoria della Cgil deciderà le iniziative

Fabio Sebastiani
Federmeccanica a testa bassa contro il contratto dei metalmeccanici. Ieri il direttivo dell'associazione imprenditoriale ha deciso di recedere dagli impegni dell'accordo siglato nel 2008 e ancora vigente. Il recesso, ha spiegato il presidente, Pierluigi Ceccardi, avviene «per ragioni cautelative» e «per garantire la migliore tutela delle aziende». Cautele da chi e da cosa? Semplice, dall'azione legale e dall'iniziativa sindacale della Fiom che, non avendo firmato l'intesa del 15 ottobre 2009 che si rifà all'accordo quadro firmato solo da Cisl e Uil nel gennaio dello stesso anno, intende mantenere in vigore le regole della concertazione del 1993. Regole che rispetto al rinnovo del 2009 prevedono un regime normativo migliore almeno fino al 2012 quando, stando alla deliberazione di Federmeccanica, si passerà al nuovo modello.
Intanto, il presidente di Federmeccanica ha rimandato tutto alla riunione del 15 settembre a Roma, definita «ricognitiva e progettuale», solo con chi ha firmato l'accordo del 2009. Il merito di questa vicenda arriverà direttamente nelle aule di tribunale.
L'aspetto politico, invece, fa parte di una partita più complessa che si gioca su più tavoli e chiama in causa direttamente la Fiat. Proprio ieri il segretario Cisl Raffaele Bonanni ha sostenuto la necessità di generalizzare il modello di "Fabbrica Italia", che Sergio Marchionne vuole sperimentare a Pomigliano, praticamente in tutti i settori produttivi del Paese. Il presidente di Federmeccanica, invece, tiene a spiegare che «Fiat non ha spinto» per la disdetta, «ma si tratta di un'esigenza di tutto il settore metalmeccanico». Federmeccanica sa benissimo che con questo atto ha di fatto aperto un periodo di scontro duro nei luoghi di lavori. E ha accompagnato la disdetta unilaterale con la richiesta «urgente» di una regolamentazione «condivisa del sistema di rappresentanza, sulla cui necessità esiste generale consenso e disponibilità dichiarata dalle parti». Una strizzatine d'occhio alla Cgil e al Pd, che in questa fase, secondo l'impostazione di Federmeccanica, sono chiamati a fare da cuscinetto tra gli imprenditori e la Fiom. Quale sistema di rappresentanza potrà mai uscire da un alveo in cui l'attacco ai diritti dei lavoratori è stato portato avanti ad alzo zero? Gli imprenditori metalmeccanici temono che l'"atto dovuto" della disdetta (Fim e Uilm l'avevano già fatto lo scorso anno) porti non poche grane sotto il profilo della gestione della conflittualità quotidiana nei luoghi di lavoro. Duro il commento della Fiom: «Quella assunta da Federmeccanica è una decisione gravissima e irresponsabile, che lede i principi democratici del nostro Paese. Si decide, infatti, di cancellare il contratto nazionale di lavoro, in accordo con sindacati minoritari e impedendo alle lavoratrici e ai lavoratori di potersi esprimere sul loro contratto», afferma in una nota il segretario generale della Fiom Cgil, Maurizio Landini. «Si tratta di una violazione delle regole e della rottura dei principi democratici alla base degli equilibri sociali», aggiunge. Oggi stesso il Comitato centrale della Fiom «assumerà tutte le decisioni necessarie». La Fiom ha rivolto una semplice quanto imbarazzante domanda alle altre organizzazioni sindacali. «Chi ha dato il mandato di cancellare il contratto nazionale?».
La disdetta da parte di Federmeccanica del contratto dei metalmeccanici/versione 2008 non piace al Pd. «È stato un errore, non sono decisioni utili, ci stiamo mettendo su una strada che non porta alla soluzione dei problemi», ha commentato Pierluigi Bersani, a margine di un convegno del suo partito. «Siamo tutti d'accordo sul fatto che bisogna riconoscere relazioni sociali nuove, e prendere atto di dover ragionare in maniera aperta - ha aggiunto il segretario del Pd -, la chiave è chiedere una sponda nella normativa, una legislazione nuova, e dall'altro assicurare percorsi di partecipazione ai lavoratori. La partecipazione deve essere assicurata. Se poi non ci fosse accordo interfederale allora ci potrebbe essere la normativa».
Secondo il segretario del Prc Paolo Ferrero, la disdetta di Federmeccanica «è la dimostrazione che in questo paese sono le imprese a non voler rispettare gli accordi liberamente sottoscritti. La loro unica preoccupazione è quella di scaricare per intero i costi della crisi sui lavoratori dipendenti, con il miraggio di recuperare competitività tramite il congelamento dei salari e la cancellazione dei diritti conquistati in decenni di lotte». «Si tratta di un atto arrogante e irresponsabile, - prosegue Ferrero - in piena sintonia con le politiche del lavoro di un governo reazionario come quello Berlusconi». Il Prc rilancia il sostegno e invita alla partecipazione della manifestazione nazionale a Roma, indetta per il 16 ottobre dalla Fiom Cgil, «capace di bloccare questa distruzione continua del tessuto sociale. Il primo passo è quello di mandare immediatamente a casa questo governo e di affrontare quanto prima nuove elezioni, mettendo fine al berlusconismo sia sul piano politico che su quello sociale».

Liberazione 08/09/2010, pag 5

La Funzione pubblica con le tute blu Sciopero generale nell'agenda Cgil

Dettori: «Anche per noi il problema della democrazia nella vicenda del rinnovo delle rappresentanze sindacali»

Vittorio Bonanni e Fabio Sebastiani
«E' veramente farsesca la rappresentazione che da più parti arriva sulla disdetta unilaterale del contratto collettivo Nazionale dei lavoratori metalmeccanici. Affermare, da un lato, che da quella disdetta dipende la competitività del sistema industriale italiano ed il conseguente rischio di delocalizzazione degli impianti industriali e, dall'altro, che quella disdetta è la normale, "democratica" conseguenza del contratto di lavoro sottoscritto da Fim e Uilm, è fuorviante e strumentale». Rossana Dettori, segretaria generale Fp Cgil, non perde nemmeno questa volta l'occasione per scendere a fianco della Fiom. Un pronunciamento di solidarietà c'era già stato in occasione dei licenziamenti alla Fiat di Melfi. La Funzione pubblica sta vivendo una fase molto particolare perché in ballo c'è lo svolgimento delle elezioni delle rappresentanze sindacali che Brunetta vuol far slittare. La parola chiave, come nel settore metalmeccanico, è democrazia. «La Fp Cgil è al fianco della Fiom - aggiunge la Dettori che molto diplomaticamente ha fatto pervenire il suo messaggio di solidarietà al segretario della Cisl Raffaele Bonanni - e sosterrà i percorsi e le iniziative che assumerà in queste ore, a cominciare dalla visibile presenza delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici alla manifestazione del 16 di ottobre». Non è un mistero per nessuno che la Cgil dovrà discutere di sciopero generale. E lo farà, con molta probabilità al prossimo direttivo nazionale. A chiedere la mobilitazione generale è anche Marco Ferrando del Pcl. È necessario, sottolinea, «che tutte le sinistre sindacali e politiche uniscano le proprie forze nella preparazione di una grande vertenza generale unificante dell'intero mondo del lavoro, a carattere prolungato, combinata con l'occupazione di tutte le aziende che licenziano o derogano a contratti e diritti».
Intanto, ieri, la Sevel ha mantenuto la parola data e impedito l'ingresso all'assemblea di due ore degli operai di Melfi Giovanni Barozzino e Antonio Lamorte provocando l'immediata reazione sindacale con un'ora di sciopero proclamata dalla Fiom. «A questo punto - dice Marco Di Rocco, segretario provinciale di Chieti dei metalmeccanici della Cgil - siamo stati costretti a valutare sia azioni sindacali che legali. E' incredibile che su 15 richieste di ingresso di dirigenti sindacali in Sevel per l'assemblea solo i due delegati di Melfi sono dovuti rimanere fuori».
Anche Maurizio Landini, segretario nazionale Fiom-Cgil, ieri davanti ai cancelli della fabbrica abruzzese, non ha esitato ad esprimersi sul "no" ribadito all'ingresso dei lavoratori di Melfi: «E' la dimostrazione del tentativo di Fiat di non voler rispettare leggi e contratti: le leggi le fa Marchionne». Il leader sindacale è stato chiaro anche sulla questione del contratto di lavoro e si è detto disposto a chiamare in causa gli operai che rappresenta per dirimere la questione aperta dalla Federmeccanica. «Noi non abbiamo alcuna intenzione di accettare le deroghe al contratto nazionale e quindi ci batteremo sia nelle fabbriche che sul piano legale per difendere l'esistenza di un contratto degno di questo nome». E tuttavia, ha aggiunto il sindacalista, «andiamo dai lavoratori metalmeccanici e facciamoli decidere con un quesito molto preciso: volete che il sindacato faccia una trattativa per derogare al contratto nazionale, sì o no? Se dovesse prevalere il sì, come non ci auguriamo, anche noi dovremmo riflettere che c'è un problema di rapporto con loro. Ma se dovesse prevalere che i lavoratori non vogliono le deroghe al contratto e si vogliono tenere il contratto che c'è, nessun sindacato avrebbe il mandato per trattare con Federmeccanica e si potrebbe aprire una fase diversa».
L'ex segretario della Fiom Emilia Romagna ha chiamato in causa anche il governo, latitante, o peggio, sulle questioni che riguardano i diritti dei lavoratori: «Mi pare che oggi ci sia un governo che non sta affrontando i problemi delle persone che noi rappresentiamo». «Credo - ha aggiunto - che le cose che stanno discutendo in Parlamento e gli atteggiamenti che questo governo sta avendo, penso anche al ministro Sacconi, vanno esattamente nella direzione opposta, di sancire l'idea che per uscire dalla crisi bisogna cancellare i diritti». Landini si è espresso anche su Torino e sulle contestazioni a Bonanni: «Sono contro gli atti di violenza organizzata perchè sono per la democrazia. Detto questo siamo di fronte al fatto che la democrazia è negata nei posti di lavoro, perchè, come penso che ai lavoratori vada dato il diritto di votare e di decidere, credo che ognuno debba avere il diritto di esprimere il proprio punto di vista e di confrontarsi».

Liberazione 10/09/2010, pag 3

«Stavolta serve un segnale forte e non il solito sciopero»

Microfono aperto tra i rappresentanti sindacali in vista del 16 ottobre

Quale è il clima nelle aziende metalmeccaniche? L'attacco dichiarato al contratto nazionale quale ripercussione sta avendo tra le tute blu? La manifestazione del 16 ottobre organizzata dalla Fiom sarà un test importante per capirlo. Ma, intanto, l'effetto che ha avuto il pacchetto di quattro ore di sciopero è stato di mettere in moto una macchina che potrebbe arrivare a pieni giri in poco tempo.
«Ci stiamo organizzando per mettere su una manifestazione con una visibilità concreta su tutta la partita del contratto nazionale», dice Giuseppe, delegato Fiom della Maserati di Modena. «Ovviamente, si parte dal presupposto che il nodo da affrontare è la strategia della Fiat. Quella che vogliamo aprire è una breccia simbolica sul conflitto sociale».
Il clima alla Maserati è di attesa e comunque di delusione e di sfiducia verso tutto quello che sta venendo fuori in tempi così brevi. «Abbiamo di fronte una situazione in cui gli spazi della mediazione non ci sono più». Le solite iniziative e mobilitazioni che non portano a nulla «fanno parte dell'avanti cristo». «Ora noi guardiamo al dopo cristo», aggiunge Giuseppe. L'obiettivo dichiarato è quello di creare nell'azienda un clima invivibile «con scioperi articolati e a scacchiera». Dopo il 16 ottobre? «I lavoratori chiedono di fare delle azioni più incisive, le classiche iniziative rompighiaccio. Da questo punto di vista quell'appuntamento è solo l'inizio di un ciclo», risponde Giuseppe. «La svendita del contratto da parte dei sindacati minoritari - aggiunge - è stata la cosa che ha dato più fastidio ai lavoratori. Non vale averla motivata con l'urgenza degli investimenti. Gli investimenti una volta venivano da soli senza vendere su diritti e salari».
Adriano è un rappresentante sindacale della Fiom presso la Lear, in provincia di Torino: «I lavoratori hanno capito che Pomigliano è solo l'inizio di un processo che tende ad estendersi», dice. «La domanda è se è possibile farcela e se vale la pena spendersi». «Certo, le battaglie di resistenza le abbiamo sempre fatte - aggiunge -. E' la cosa che è accaduta con la riconquista del contratto nazionale del 2008. Oggi, però, siamo in una condizione che ci mette di fronte a un battaglia globale». Adriano racconta della sorpresa avuta pochi giorni fa quando alla richiesta di scendere in sciopero per dare una prima risposta alla disdetta di Federmeccanica «in pochi minuti le produzioni si sono fermate e sono tutti venuti subito in assemblea».«E' un segnale importante e per niente scontato. Sicuramente il 16 ottobre può essere l'inizio di un tentativo di mettere insieme tutti coloro che intendono resistere a questo attacco da parte degli imprenditori e del Governo. Deve diventare una manifestazione aperta a tutti perché è in gioco non un pezzo di carta, il contratto nazionale, ma l'interesse generale e la coesione di un blocco sociale che sta pagando la crisi», dice Adriano. «E' dal 16, per esempio, che potrebbero partire linee unificanti per costruire una grande vertenzialità contro la crisi», conclude.
«Il clima è sicuramente caldo - dice subito Antonio, rappresentante Fiom alla Iveco/Stura di Torino - Già a luglio abbiamo scioperato in modo chiaro proprio sul premio di risultato. Siamo tornati dalle ferie e Marchionne oltre a non dare i soldi vuol prendersi anche i diritti». «La gente scrive commenti sui manifesti della Fim», racconta Adriano che giudica questo un primo e forte segnale di rottura. «Altro che esperimento Pomigliano. I lavoratori hanno capito che devono mettersi l'elmetto e, soprattutto, sanno che questa volta non si torna indietro. Fim e Uilm da noi hanno regalato alcune ore di assemblee all'azienda e questo li ha già messi in cattiva luce», aggiunge. «Aspettiamo la riunione del 15 settembre per capire come si andrà avanti da un punto di vista operativo. Vogliamo capire cosa vuol fare la politica. Il silenzio su Pomigliano è stato colpevole», conclude.
Nel cuore degli stabilimenti Fiat, a Mirafiori, l'atteggiamento è più guardingo. Ne hanno viste tante. Qui le tute blu sono più navigate.
«C'è molta confusione tra i lavoratori - dice Rino, anche lui sindacalista della Fiom. Tra la rottura di Fim e Uilm, i pistolotti di Sacconi e la vicenda di Pomigliano, la gente si chiede quale nuovo contratto potrebbe arrivare. Noi stiamo cercando di dare qualche indicazione sul nuovo sistema di relazioni sindacali e sul fatto che l'esperimento Pomigliano sarà esteso a tutto il territorio nazionale. I lavoratori si fanno i conti in tasca sui permessi, sugli straordinari e, in genere, sulle condizioni di lavoro. Vedremo cosa succederà il 15 settembre. Detto questo le tute blu hanno capito che la posta si sta alzando vertiginosamente, ma la reazione è ancora ipnotizzata», conclude.
Domenico, rappresentante sindacale della Fiom, lavora nel "cuore del cuore" della Fiat, a Pomigliano. Qui è difficile incontrare i lavoratori a causa delle frequenti cassaintegrazioni. Lui, però, una idea del clima se l'è fatta lo stesso.
«C'è una rabbia molto forte che si concentra sul sindacato. Su Fim e Uilm, in particolare, e non solo più sull'azienda. I lavoratori si cancellano in modo massiccio. Anche noi stiamo perdendo qualche tessera ma per le pressioni aziendali e la crisi economica. Da un lato, il fatto che lo scontro si sta nazionalizzando sulla questione del settore auto rende un po' più fiduciosi le tute blu. Non si sentono più circondati, insomma». «Sul modello Pomigliano - aggiunge - per il momento si va avanti alla giornata. Dobbiamo capire quali azioni vuol fare Marchionne nel concreto. Abbiamo in programma delle assemblee fuori dai cancelli. E stiamo pensando di ampliare le quattro ore di sciopero dichiarate dal Comitato centrale».
Fa. Seba.

Liberazione 10/09/2010, pag 2