martedì 29 marzo 2011

«Una sentenza punitiva. Noi difendiamo il posto di lavoro»

Fabio Sebastiani
Perché ce l'hanno così tanto con voi?
Sarebbe bello saperlo. Evidentemente perché rappresentiamo ancora un ostacolo per certi inconfessabili progetti.

La condanna che cosa riguarda?
Si tratta di una condanna contro dodici lavoratori a seguito del reato di occupazione di proprietà privata. In pratica, o tre mesi di carcere o il pagamento di una sanzione piuttosto salata, di più di settemila euro, più di un anno di cassa integrazione.

Occupazione di proprietà privata?
Questa accusa ci lascia un po perplessi per la verità. Si tratta dei lavoratori che la notte dell'irruzione di Samuele Landi, al comando di una squadra di gente piuttosto decisa allo scontro, si trovavano in assemblea permanente nei locali di Eutelia. Sono quelli che poi hanno chiamato la polizia, che a sua volta non ha identificato i lavoratori in assemblea permanente ma chi aveva eseguito l'irruzione. Insomma, la polizia portò via chi tentò di metterci fuori dalla sede. Da quell'episodio è partita una indagine di ufficio di cui i colleghi non erano nemmeno a conoscenza, che poi ha portato alla condanna in primo grado. Non era una occupazione ma la difesa del posto di lavoro. Tutte le mattine c'era lì la polizia a controllare. Se noi non avessimo presidiato alcuni documenti importanti per i processi che poi ci sono stati a carico della proprietà sarebbero andati persi. Questo ce l'ha riconosciuto la Guardia di Finanza.

Continuano i lati oscuri di questa vicenda.
Questa vicenda è piena di lati oscuri. Non è il primo e non sarà l'ultimo. L'ultima notizia, di qualche mese fa, lo voglio ricordare, parla di una talpa nell'ufficio dell'autorità investigativa che passava le informazioni agli imputati. Un poliziotto prendeva soldi per passare le informazioni sullo sviluppo delle indagini.

Samuele Landi, intanto, è ancora latitante a Dubai.
Forse non è possibile un mandato di cattura internazionale per quel tipo di reati. Però qualcosa va fatto. Vorremmo scrivere al consolato degli Emirati arabi e spiegare che cosa è successo. Non ho capito perché nessuno si muove.

Intanto prosegue la situazione di incertezza.
Scopriamo proprio in questi giorni, nonostante le rassicurazioni del ministero, che i due bandi per Agile e Eutelia non sono insieme. La continuità, invece, sarebbe stato un elemento importante. E' chiaro che l'obiettivo, di chi sta facendo pressioni, rimane quello di ripulire Eutelia e di rimetterla sul mercato per lucrare dalla vendita. La continuità avrebbe messo in condizione qualche imprenditore di fare una offerta seria. Adesso arriverà chi è pronto ad accaparrarsi la rete di tredicimila chilometri di Eutelia. Sappiamo dell'interessamento di Finmeccanica. E spunta pure una cordata di imprenditori che ci riporta ad Arezzo, sede della vecchia proprietà.

Eppure le sentenze lasciavamo presagire che la situazione si sarebbe ristabilita a vostro favore
Si è vero. Il 10 febbraio è anche arrivata la condanna per bancarotta fraudolenta per quattro dirigenti. L'unica sentenza contraria è stata quella dell'appello dell'articolo 28 che ha ribaltato la senza di primo grado, che aveva imposto la rimozione degli effetti, e quindi il licenziamento. Invece, è passata la tesi della cessione del ramo d'azienda. Dal punto di vista legale il reintegro non è possibile, ma è possibile dentro un piano industriale. Due governi opposti hanno sempre sostenuto che il progettto di integrazione era importante per il Paese. Da parte nostra abbiamo chiesto una audizione alla Camera dei deputati per presentare il nostro progetto. Su questo abbiamo fatto già una assemblea nazionale. Non sono venuti gli imprenditori. E' stato un peccato. Almaviva poteva prendere in considerazione la vicenda.

Qual è la situazione dopo tutti questi mesi di cassa integrazione?
La situazione dopo un anno di cassa integrazione non è delle migliori. Ma è vero che questa vicenda delle multe un po' ci ha ricompattato. Non è facile, ma andiamo avanti.


Liberazione 26/03/2011, pag 9

Fiat andrà via dall'Italia «Negli Stati Uniti si pagano meno tasse»

Un collaboratore di Marchionne spiega cosa avverrà dopo la fusione con Chrysler

Roberto Farneti
La società che nascerà dalla fusione tra la Fiat e la Chrysler avrà la propria sede legale a Detroit, negli Stati Uniti. Solo il governo Berlusconi, infatti, può ancora far finta di credere all'ennesima smentita di circostanza diffusa ieri dalla casa torinese, secondo cui nulla sarebbe «cambiato rispetto all'audizione parlamentare del 15 febbraio scorso» perché «la scelta non è ancora stata presa».
Certo che da un punto di vista formale non è ancora stata presa. Ma non è nemmeno stata esclusa. Nel frattempo uno Special Report della Reuters, preparato nei giorni del salone dell'auto di Ginevra, e i cui contenuti sono stati resi noti ieri, ha fatto risuonare l'allarme. In questo report, lungo una decina di pagine, con numerose fotografie dei vertici Fiat e dove Sergio Marchionne viene definito come l'Elvis Presley del settore auto, c'è una frase, attribuita ad un anonimo collaboratore del manager italo-canadese, che squarcia il velo dell'ipocrisia: «Se in Italia pago il 70 per cento di tasse e negli Usa il 30 per cento, non è difficile immaginare dove andrò», spiega il collaboratore. Come a dire: decisione scontata.
La Reuters ricorda che Marchionne ha definito "Christmas wishes" i sui obiettivi di aumentare la quota Fiat in Chrysler al 51 per cento entro quest'anno e di portare la società Usa in Borsa. Prima però la casa di Detroit dovrà ripagare i 7 miliardi di prestiti contratti con i governi degli Stati Uniti e del Canada al momento del fallimento pilotato.
Va da sé che a quel punto «una doppia quotazione in borsa creerebbe dei problemi», come ha dichiarato lo stesso Marchionne in una intervista a Report che andrà in onda nella puntata di domenica prossima. E' perciò evidente che una scelta la Fiat prima o poi dovrà pur farla. E' la stessa azienda a dirlo: «Stiamo lavorando al risanamento di Chrysler - si legge nella nota diffusa ieri - in modo che la Fiat sarà nella posizione per aumentare la propria quota. Al momento la società americana non è quotata, ma speriamo che questo succeda in un prossimo futuro. Quando avremo due entità legali che coesistono, quotate in due mercati diversi, si porrà evidentemente un problema di Governance». In ogni caso, finchè non avra la maggioranza di Chrysler Marchionne non investirà nella società Usa soldi Fiat.
Secondo la Reuters, il trasferimento della sede legale verrebbe "compensato" con la decisione di lasciare in Italia, a Torino, il quartier generale per l'Europa trasformando così la Fiat in una sorta di branca europea di un'azienda americana, un po' come accade per la Opel con la Ford. Inoltre, sempre secondo le indiscrezioni della Reuters, il nuovo gruppo starebbe cercando la sede per un quartier generale asiatico. Nel report si parla anche della possibilità di quotazione della Ferrari: Marchionne valuterebbe la casa di Maranello circa 5 miliardi di euro. Reuters ricorda che l'obiettivo delle due società è di vendere 6,6 milioni di veicoli nel 2014 dopo l'integrazione.
L'ipotesi più che concreta che tra qualche anno la principale impresa italiana trasferisca la propria sede legale oltreoceano, con il dichiarato scopo di pagare meno tasse, dovrebbe far tremare i polsi all'erario, visti i milioni di euro che la Fiat versa al fisco ogni anno. E il governo che fa? Si accontenta di sapere che la decisione ufficiale al momento non è ancora stata presa. Perché questo gli dice Marchionne.
Opposizione e Cgil partono all'attacco. «Cosa aspetta il governo a muoversi?», domanda il segretario del Prc Paolo Ferrero, che accusa l'esecutivo di non avere fatto nulla «per vincolare la Fiat alle produzioni in Italia». Scuote la testa anche la Cgil, che torna a chiedere al governo di farsi spiegare «da Fiat nel dettaglio il piano industriale e come intende fare, e portare avanti, gli investimenti annunciati». Giorgio Cremaschi della Fiom è ancora più drastico: per come si stanno mettendo le cose «se si vuole tenere la Fiat in Italia c'è - afferma - una sola strada, quella di procedere alla pubblicizzazione, alla nazionalizzazione del Gruppo». D'altra parte non è un caso che le «due principali aziende automobilistiche europee, Renault e Volkswagen, che vanno bene, siano entrambe - sottolinea Cremaschi - a controllo pubblico».


Liberazione 26/03/2011, pag 9

Crisi, l'Europa: avanti col rigore. I sindacati: «Patto imbevibile»

Bruxelles, vertice Ue e 25mila in piazza. Pronti 70 miliardi per salvare il Portogallo

Roberto Farneti
C'era anche il premier dimissionario del Portogallo Josè Socrates - o il suo «cadavere politico», come ha titolato il giornale conservatore ABC - al Consiglio europeo che si è tenuto ieri a Bruxelles. Sul tavolo dei leader dei 27 paesi Ue, la grave situazione del paese lusitano e le misure per il rafforzamento della governance economica, a partire dal potenziamento del fondo "salva-Stati" attualmente operativo, l'Efsf, che ha a sua disposizione solo circa 250 miliardi sui 440 complessivi. L'accordo c'è già ma la firma è slittata a fine giugno.
Il Vecchio Continente cerca una via di uscita dalla crisi ma le misure di austerità imposte ai paesi membri da patti di stabilità vecchi e nuovi, invece di favorire la ripresa economica, si stanno rivelando controproducenti. A pagarne il prezzo, dopo Grecia e Irlanda, è ora il Portogallo. Che adesso, per rimettere a posto i propri conti, rassicurare i mercati e sottrarre il paese alle manovre speculative (ieri Fitch ha abbassato da "A+" ad "A-" il rating sul debito portoghese) sarà probabilmente costretto a chiedere 70 miliardi al fondo europeo salva-Stati. «Siamo ovviamente pronti a concedere gli aiuti, ma il Portogallo prima deve chiederceli», ha fatto sapere ieri il ministro delle Finanze del Belgio Didier Reynders.
Chiedere aiuti significa tuttavia cedere la propria sovranità a chi i soldi te li presta. Lo sa bene il socialista Socrates, che infatti aveva cercato fino all'ultimo di evitare questa soluzione, concordando con Bruxelles un ulteriore giro di vite antideficit tradotto in un piano che prevedeva una riduzione delle spese del 2,4%, una imposta addizionale del 10% sulle pensioni superiori ai 1.500 euro al mese e tagli in media del 5% agli stipendi dei dipendenti pubblici. Il suo governo di minoranza non ha però retto alla prova.
La domanda è sempre la stessa: «Chi paga la crisi?». A porla di nuovo ieri con forza sono stati i sindacati, che a Bruxelles hanno dato vita a una grande manifestazione di protesta. Al grido di «difendiamo i posti di lavoro», «no al caro-vita», circa 25mila lavoratori provenienti da tutta Europa hanno invaso le strade della città belga. Rue de la Loi si è subito trasformata in un mare di cappellini e camice rosse. I lavoratori hanno bloccato anche le strade circostanti al Consiglio dei ministri dell'Ue e alla Commissione europea, utilizzando vecchi bus scolastici con su scritto "Insieme siamo forti". Non sono mancati momenti di tensione, con lanci di uova contro le sedi delle banche e lo scoppio di numerosi petardi, e il conseguente utilizzo di autopompe da parte delle forze dell'ordine.
«L'esame annuale della crescita da parte della Commissione Ue così come il Patto per la competitività della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Nicolas Sarkozy spingono pericolosamente verso il basso i salari e i diritti sociali», denuncia la Confederazione europea dei sindacati in un comunicato. Ancora più esplicito il segretario generale del sindacato vallone Fgbt, Thierry Bodson, tra gli organizzatori della manifestazione: «Il patto per l'euro per noi è imbevibile, è un attacco frontale contro l'insieme dei nostri diritti acquisiti, non ce li toglieranno durante un vertice Ue». No, quindi, sottolinea il sindacalista, all'aumento dell'età pensionabile, alla rimessa indiscussione dell'indicizzazione dei salari e ai bonus per i dirigenti.
L'obiezione è sociale ma anche di politica economica: quando si tagliano stipendi e stato sociale, c'è il pericolo di frenare ulteriormente i consumi, che sono il volano dell'economia. Come l'orchestra del Titanic, però, l'Europa tira dritto. Molti osservatori economici già prevedono che dopo il Portogallo toccherà alla Spagna, visto che gli spagnoli - che già non se la passano bene - detengono il 33% del debito sovrano e privato portoghese.


Liberazione 25/03/2011, pag 6

L'ultimo treno per il Sud

Servirail

Quanto sta accadendo alla Servirail Italia ex Wagons-Lits conferma ancora una volta la discriminazione nei confronti del Meridione. Siamo un gruppo di lavoratori delle unità operative di Bari e di Messina. La nostra azienda gestisce in appalto da Trenitalia il servizio di accompagnamento notte delle vetture Letto, delle vetture grand confort e delle cuccette T6 su tutto il territorio nazionale. A noi, c'è da dire in premessa, viene applicato lo stesso e identico Contratto dei dipendenti Trenitalia grazie al passaggio nel Contratto di confluenza delle attività ferroviarie, in più non facciamo parte del cosiddetto "indotto" ovvero delle attività che ruotano attorno la Ferrovia, ma rappresentiamo un vero e proprio settore ferroviario ovvero il Settore dei treni notte.
Da diversi anni questo tipo di servizio ferroviario sta subendo un processo lento e inesorabile di ridimensionamento che non ha altro sbocco se non nella sua prossima chiusura, nonostante grazie a nuove carrozze letto si sia riusciti ad avvicinare nuova clientela come quella business. Da anni dobbiamo sottostare a procedure di mobilità, a minacce di licenziamenti, a contratti di solidarietà. Uno stress non indifferente da sostenere. Da anni non siamo in grado di programmare la nostra vita e ci sentiamo più precari dei cosiddetti "atipici", quelli che un contratto non l'hanno mai visto. Abbiamo fatto tanti sacrifici per conservarci uno straccio di posto di lavoro. Tutto va bene, diciamo, purché si lavori tutti! Trenitalia, da parte sua, continua a tagliare servizi, riducendo treni e vetture con un particolare accanimento sulla linea tirrenica.
La Puglia, fino ad ora, era stata toccata in maniera marginale da questa nuova politica di riduzione dell'offerta del prodotto notte tanto è vero che, a conferma della enorme produttività della sezione pugliese, siamo stati in grado di prestare un servizio, il Lecce/Torino/Lecce ex Tr 906/907, ad altre unità operative al fine di ridurre al minimo la quantità di "regime di solidarietà" a loro applicata che per Roma è del 30% mentre per Bari è solo del 16%, la più bassa d'Italia! Nonostante l'abnegazione al sacrificio che abbiamo dimostrato, la Servirail Italia ha deciso di risolvere i suoi problemi finanziari chiudendo le sezioni di Messina, 85 unità, e di Bari con 45 dipendenti. Alla luce di quanto illustrato precedentemente riesce difficile capire come possano essere Bari e Messina l'agnello sacrificale eletto a salvatore di tutta l'economia aziendale. Proprio i pugliesi, per esempio, hanno sempre dato un esempio di modernità organizzativa e produttiva! Ancora una volta il meridione deve pagare?
Da anni accompagnamo i nostri conterranei e non solo, nei viaggi verso il nord e dal nord per lavoro, vacanze, sport, malattie. Da decenni siamo il biglietto da visita della regione Puglia e della regione Sicilia per le migliaia di turisti che raggiungono la nostra terra con il treno e forse tutto questo fra pochi giorni sarà solo un ricordo.
Un altro grande paradosso che caratterizza la vicenda è che Trenitalia si appresta ad assumere ben 1.000 persone entro quest'anno ma di noi non ne vuole sapere. Non vuole accollarsi l'assunzione di 130 persone che vivono nel settore ferroviario da decenni, svolgendo lo stesso lavoro svolto dai suoi dipendenti! Assorbendo noi riuscirebbe a risparmiare centinaia di migliaia di euro in formazione ed ore di lavoro visto che, nella sostanza, la nostra estrema specializzazione ci permetterebbe di essere già quasi pronti ed operativi!
Vogliamo ricordare che nel 2005 in un periodo di simile crisi, fu siglato un accordo al ministero con tutti i sindacati e con l'azienda allora "Wagon-Lits", che prevedeva l'assorbimento da parte di Trenitalia del personale in esubero dell'allora Wagon-Lits.
E' inaccettabile la concentrazione dei tagli sui lavoratori pugliesi e siciliani, Trenitalia, con la rimodulazione e la conseguente riduzione dell'offerta dei "servizi notte", non ha soppresso le tratte quotidianamente gestite dal personale di Bari (sulla Sicilia sta riconsiderando la questione) e non si comprende, a maggior ragione, il motivo per il quale, persistendo le tratte, la copertura del servizio debba essere svolto attivando lo spostamento di personale da altre sedi con costi aggiuntivi per l'azienda.
Già il 23 febbraio gli assessori della Regione Puglia al Lavoro e alla Mobilità avevano incontrato la delegazione sindacale dei lavoratori e scritto una lettera alle direzioni della società e di Trenitalia e ai ministri del Lavoro e delle Infrastrutture sollevando alcune anomalie nelle procedure di mobilità e richiedendo di rimodulare il piano, con una più distribuita ripartizione del territorio.
Oggi occorre fare fronte unico. Abbiamo tentato di tutto, negli ultimi tempi abbiamo scioperato, abbiamo protestato, abbiamo costituito un "Comitato spontaneo", abbiamo manifestato, abbiamo divulgato la nostra situazione su giornali e tv, abbiamo chiesto anche un collegamento con la trasmissione Rai "Anno Zero", abbiamo chiesto ed abbiamo anche ricevuto l'aiuto della politica locale, dal presidente della provincia al sindaco, al presidente del consiglio comunale, abbiamo presidiato in ufficio Servirail in concomitanza con tutte le altre sezioni d'Italia facendo assemblea permanente per parecchi giorni, non garantendo la nostra presenza a bordo treno, causando così disagi enormi a Trenitalia la quale ha anche avvisato con comunicati ufficiali i clienti di possibili disagi per le nostre proteste; sempre insieme a tutte le altre sezioni d'Italia abbiamo manifestato ed urlato in coro i nostri diritti sotto la sede di Trenitalia a Roma, il giorno della riunione con il ministro Matteoli e l'amministratore delegato di Trenitalia Moretti, riunione ottenuta grazie alle proteste emerse dalle assemblee permanenti di tutte le sezioni d'Italia eseguite da tutti i lavoratori Servirail ed anche grazie a tutti i sindacati. E ora?
Un gruppo di lavoratori Servirail


Liberazione 24/03/2011, pag 16

Neanche mezz'ora di taglio, nessuna decurtazione dei servizi

Asc InSieme - Azienda pubblica che gestisce i servizi sicuiali /disabili, minori a rischio e anziani) per conto dei comuni.

Simone Raffaelli
Gli attori di questa lotta sono nove sindaci di centro sinistra che vogliono far quadrare i loro bilanci dopo la riduzione delle risorse trasferite dallo Stato ai comuni, alcune centinaia di educatori che decidono di difendere non solo il proprio lavoro ma anche il welfare di un territorio con 90mila abitanti e migliaia di utenti fra disabili, minori a rischio e anziani.
Il governo blocca il Fondo nazionale non autosufficienza, dimezza quello per le politiche sociali, dal 2008 questo esecutivo ha ridotto del 78% le risorse per il welfare comunale.
A Casalecchio sono 1,4 milioni di euro, 30mila ore lavorative: questa è la cifra che Asc InSieme, l'azienda pubblica che gestisce questi servizi per conto dei comuni, vuole tagliare già a gennaio, facendola cadere tutta quanta sulla testa delle centinaia di operatori delle cooperative sociali che lavorano sugli appalti nei servizi sociali del distretto di Casalecchio di Reno da almeno 20 anni.
Alcuni servizi, come gli interventi educativi sui minori diversamente abili all'interno delle scuole, verrebbero tagliati del 15-20%, privando di ore di assistenza studenti per i quali a volte la presenza dell'educatrice è lo strumento di comunicazione principale con la classe e con gli insegnanti.
Migliaia di ore da tagliare anche sui servizi di prevenzione e sugli interventi di monitoraggio sulla devianza e sull'aggregazione giovanile che avviene in strada. Viene quasi spontaneo pensare che niente possa preparare meglio il terreno a politiche securitarie.
Attenzione: stiamo parlando dello stesso centro sinistra che fra meno di due mesi, con la stessa formula politica e le stesse risorse da governare, si presenterà al voto a Bologna, a pochi chilometri da qui.
L'impresa che come educatori siamo riusciti a creare è stata quella di riuscire a mettere insieme l'azione sindacale con forme di auto organizzazione e coordinamento con le famiglie dell'utenza. Attraverso i nostri delegati e le assemblee abbiamo ottenuto la proclamazione dello stato d'agitazione da parte di Cgil e Usb, abbiamo volantinato in tutti i territori, presidiato i Comuni durante le trattative.
Il 5 marzo, di sabato, oltre 500 operatori, genitori, utenti e insegnanti hanno attraversato Casalecchio di Reno con un corteo inedito che è terminato davanti al Municipio.
Negli stessi giorni i sindaci si sono trasformati in una fabbrica di idee: hanno trovato il 5 per mille per coprire un po' di tagli, qualcuno si offre di creare un fondo con le banche, il taglio di 18mila ore sui servizi scolastici sarà spostato da marzo a settembre, sono spuntati 60mila euro per coprire una parte delle ore sulla prevenzione e forse anche 700mila euro inutilizzati del Fondo non autosufficienza. Ancora una volta la lotta paga. Nonostante questo Asc InSieme propone di far partire comunque una piccola decurtazione di servizi da aprile, soprattutto sugli interventi di prevenzione.
Politicamente è la cosa più semplice: si tratta di colpire quelle famiglie e quei minori che non scenderanno mai in piazza a mostrare delle disabilità che "bucano lo schermo", sono ragazzi a volte segnalati per episodi di microcriminalità, spesso migranti. Tagliare sulla prevenzione non vuol dire risparmiare, quando inserire un minore in un Gruppo Appartamento costa dai 120 ai 130 euro giornalieri, fino ai 300 euro giornalieri nei carceri minorili.
Abbiamo chiesto ai sindacati una cosa ben precisa dalla quale non abbiamo intenzione di muoverci: neanche mezz'ora di taglio, convocate al più presto uno sciopero se rimane in piedi un ipotesi anche minima di decurtazione di servizi.
Siamo riusciti a capovolgere una dinamica che in questi anni aveva impedito agli operatori sociali di diventare attori sindacali e politici a pieno titolo: nessuno di noi ha più paura dello sciopero perché teme di "danneggiare" l'utente. Lo sciopero e la mobilitazione sono invece l'unico modo per difendere i diritti, i nostri e quelli delle persone con cui lavoriamo.


Liberazione 24/03/2011, pag 14

Cancellato il contratto nazionale

Commercio

Siamo lavoratrici e lavoratori del settore del commercio. Il 26 febbraio si è conclusa la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale di categoria con la firma separata di Fisascat-Cisl e UilTucs-Uil. La Filcams-Cgil non ha sottoscritto l'intesa che di fatto peggiora in maniera drastica le nostre condizioni materiali di lavoro.
L'accordo separato prevede il pagamento diretto della malattia da parte delle aziende (in applicazione del D.l.g. 112/08 ). Questo consentirà alle imprese un risparmio sulla contribuzione sociale, con conseguente fuoriuscita dall'Inps. La cessazione del pagamento dei primi tre giorni a partire dal quinto evento di malattia. Questo con la scusa di combattere l'assenteismo che nel nostro settore è minimo in considerazione del fatto che la stragrande maggioranza delle imprese del settore è al di sotto dei 15 dipendenti (in queste imprese non ti puoi ammalare altrimenti ti cacciano). Si introduce un doppio trattamento in merito ai permessi retribuiti che penalizza i nuovi assunti, che solo dopo 4 anni potranno godere dello stesso trattamento dei lavoratori in forza. Si limita fortemente lo sviluppo del secondo livello di contrattazione: vengono definiti limiti e divieti, individuando nell'istituto delle deroghe al contratto nazionale la principale leva incentivante; diversi istituti contrattuali disapplicati e peggiorati nel secondo livello di contrattazione, di fatto cancellando il contratto nazionale. L'applicazione dell'Ipca comporta una perdita di 406 euro su base annua a regime per un full-time IV livello. Si recepisce integralmente il principio della deroga al contratto nazionale: se un'azienda è in crisi o decide di investire ha il diritto di non applicare molti istituti del contratto nazionale quali il part-time, la retribuzione delle festività, delle domeniche e del lavoro straordinario, la durata dell'orario di lavoro, gli scatti di anzianità, il riposo settimanale e i permessi retribuiti, la determinazione del periodo di ferie, i diritti sindacali. Riteniamo questo accordo inaccettabile nel merito dei contenuti ma anche per il fatto che si inserisce in un più generale attacco ai diritti del mondo del lavoro, attraverso la politica degli accordi separati e di una legislazione volta a tutelare gli interessi delle imprese a scapito di quelli della classe lavoratrice. Questa offensiva di classe, intrapresa dal padronato italiano con la complicità di Cisl e Uil, non più dei sindacati ma agenzie di servizi, si concretizza nello smantellamento del contratto nazionale, l'ultimo ostacolo verso la completa balcanizzazione del mondo del lavoro.
Siamo stanchi di subire accordi senza avere il diritto di decidere in merito a ciò che ricadrà poi sulla nostra pelle. Ribadendo che qualsiasi consultazione o referendum non possa avere ad oggetto materie indisponibili come la derogabilità al contratto nazionale. Per queste ragioni nelle prossime settimane scenderemo in sciopero e parteciperemo allo sciopero generale indetto dalla Cgil il 6 maggio. Facciamo parte di una categoria che conta milioni di lavoratori per cui riteniamo di avere il sacrosanto diritto di parola e soprattutto il diritto di pretendere dai media la dovuta attenzione. Per tali ragioni vi chiediamo di darci una mano.
Rsu Filcams-Cgil Panorama Ostia, Roma


Liberazione 24/03/2011, pag 15

La tendopoli per la difesa di diritti e dignità

Este (Pd) Ente Parco Colli Euganei

E' cominciato il 16 marzo, davanti alle mura dei giardini cittadini di Este, in provincia di Padova, il presidio di protesta dei 44 operai forestali dell'Ente Parco Colli Euganei che, in seguito ai tagli della Regione Veneto relativi a interi capitoli di spesa e all'utilizzo di risorse per la salvaguardia del territorio, rischia di chiudere i battenti.
I 44 operai - di cui 28 hanno perso il lavoro, 11 sono assunti a tempo indeterminato ma ora rischiano il posto e solo 5 sono stati reintegrati qualche giorno fa grazie ai piani di sviluppo rurale - hanno allestito una piccola tendopoli, con cartelli e striscioni, per chiedere a gran voce che la loro posizione lavorativa sia rivalutata. «Staremo giorno e notte nelle tende nel centro di Este a difendere il nostro diritto fondamentale al lavoro, finché non arriveranno risposte concrete», afferma Lorenzo Pegoraro, rappresentante sindacale aziendale dell'Ente Parco Colli Euganei. «Non ci muoveremo di qui finché tutti e 44 non saremo reintegrati con contratti adeguati: staremo 24 ore su 24 a informare la cittadinanza sull'importanza del nostro lavoro nei Colli, chiedendo la solidarietà e il sostegno alla nostra battaglia di civiltà a tutti coloro che amano il patrimonio naturale della nostra terra», spiega. «In molti di noi aleggia un'inevitabile rabbia verso quei politici che non hanno mantenuto le promesse - aggiunge Pegoraro - e che davanti alle telecamere affermavano di voler dare priorità all'occupazione per poi sbatterci le porte in faccia di punto in bianco e lasciarci incapaci di provvedere alle nostre famiglie. Siamo stufi e delusi da una politica insensibile, che solo sulla carta afferma di voler tutelare la famiglia per poi toglierci ogni opportunità di andare avanti». E conclude: «Studieremo in queste ore forme di lotta pacifica che costringano le istituzioni a concentrare l'attenzione su questa situazione, divenuta ormai insostenibile per noi lavoratori ma anche per i cittadini, visto che - come testimoniano le recenti calamità naturali che hanno investito il nostro territorio - la tutela dell'ambiente è fondamentale a evitare catastrofi che, inevitabilmente, si ripercuotono sull'intera società».
I 44 operai, oltre che appellarsi ai sindaci degli undici Comuni del Parco Colli Euganei, nonché al Prefetto di Padova e alla Presidente della Provincia patavina, lanciano un messaggio al Governo e al Parlamento: «Non lasciateci soli: venite a manifestare vicinanza a noi e alle nostre famiglie, affiancandoci concretamente nella difesa dei nostri diritti e inducendo la Regione Veneto a ripensarci, a ridare dignità al nostro territorio e alle nostre famiglie».


Liberazione 24/03/2011, pag 15

Il 9 aprile in piazza per riprenderci il nostro tempo e il nostro spazio

Andrea Oleandri
Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta. Questo è l'appello lanciato da 14 diverse reti di precari, ricercatori, collettivi che invitano a scendere in piazza il prossimo 9 aprile. Un grido rivolto «a chi ha lavori precari o sottopagati, a chi non riesce a pagare l'affitto, a chi è stanco di chiedere soldi ai genitori, a chi chiede un mutuo e non glielo danno, a chi il lavoro non lo trova e a chi passa da uno stage all'altro, alle studentesse e agli studenti che hanno scosso l'Italia, a chi studia e a chi non lo può fare, a tutti coloro che la precarietà non la vivono in prima persona e a quelli che la "pagano" ai loro figli».
«Una mobilitazione nata da una serie di incontri più o meno casuali fra le varie reti» racconta una delle promotrici, Teresa Di Martino del collettivo femminista "diversamente occupate". «Incontri in cui tutti, con le proprie differenze, esprimevano un'urgenza comune, quella di riprendere parola sul lavoro e farlo non più in modo frammentato, ma unendo forze, energie, saperi. Di andare in piazza per riprenderci il nostro tempo e il nostro spazio pubblico e politico».
E l'impressione è che oggi, più che in passato, si sia giunti ad un punto dove l'urgenza delle cose è tale da non permettere più di rimandare un'azione, una reazione. La grave disoccupazione giovanile, ormai attorno al 30%, la fuga dei cervelli, condizioni che vanno avanti da oltre un decennio e che hanno portato la consapevolezza di generazioni senza diritti. Una generazione di precari, come si legge nell'appello: senza lavoro, sottopagati o costretti al lavoro invisibile e gratuito, condannati a una lunghissima dipendenza dai genitori. La precarietà che si fa vita, assenza dei diritti più essenziali: allo studio, alla casa, al reddito, alla salute, alla possibilità di realizzare la propria felicità affettiva. Una condizione che si aggrava per le giovani donne, su cui pesa anche il ricatto di una contrapposizione tra lavoro e vita. «Nel lavoro - dice Teresa - le giovani donne continuano ancora oggi ad essere discriminate, economicamente ma non solo. Basta pensare alla legge che contrastava le dimissioni in bianco e che questo governo ha cancellato. Partecipiamo a questa manifestazione perché vogliamo che le donne al lavoro non si sentano più sole e oggi, insieme agli uomini, possiamo parlare per tutte e tutti».
«Non è più tempo solo di resistere ma di passare all'azione, un'azione comune, perché ormai si è infranta l'illusione della salvezza individuale. Per raccontare chi siamo e non essere raccontati, per vivere e non sopravvivere, per stare insieme e non da soli». Senza conflitti generazionali, ma stringendo un patto con chi li ha preceduti, perché è anche su questi che pesa la loro condizione di generazione precaria.


Liberazione 24/03/2011, pag 15

Il Tribunale dà ragione ai lavoratori, l'azienda tace

Roma Ipermercato Carrefour

Da quasi 4 mesi la metà dei lavoratori dell'ipermercato Carrefour del Centro commerciale La Romanina (115 su 230), licenziati senza motivo a gennaio 2009, aspettano di vedere rispettata la decisione emessa il 18 novembre 2010 dal Tribunale del Lavoro di Roma, che ha condannato l'azienda al reintegro immediato di tutti i dipendenti cacciati ed al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal 12 gennaio 2009 ad oggi.
Perché sono stati licenziati? Ufficialmente «perché c'è la crisi». Ma la realtà è ben diversa, oltre molto più triste, e maschera un tentativo - in un perfetto "Marchionne's Style" ante litteram, tanto di moda oggi - di punirne 115 per educarne 230: i lavoratori di Carrefour sono stati licenziati, infatti, dopo varie battaglie portate avanti per difendere i propri diritti; diritti che, tutt'a un tratto, l'azienda voleva cancellare (niente di straordinario: solo, per esempio, non essere obbligati a lavorare la domenica, e a ricevere lo straordinario quando questo avviene).
E mentre Carrefour fa - è proprio il caso di dirlo - orecchie da mercante, rifiutando di adempiere ad una decisione del Tribunale del Lavoro, i mesi passano ed i suoi ex dipendenti - padri e madri di famiglia, persone che da anni lavoravano per l'azienda - attendono che venga dato loro quello che gli spetta, e di essere reintegrati nel loro posto di lavoro. E intanto sono senza stipendio.
Niente di più, niente di meno. Queste persone chiedono solo di essere trattate non da fastidiosi questuanti ma da lavoratori, quali sono anche secondo il Tribunale del Lavoro: la condanna dimostra che hanno ragione, peccato che la grande catena francese della distribuzione non si preoccupi minimamente di rispettarla. Nel silenzio generale, perché nessuno se ne occupa.
Chiediamo alla Presidente della Regione Lazio Renata Polverini, al Presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti e al Sindaco di Roma Gianni Alemanno di garantire che i diritti dei loro concittadini vengano rispettati, e che chi opera nei territori da loro amministrati - grande industria o piccola e media impresa - sia chiamato al rispetto delle leggi e delle sentenze, nel rispetto della dignità di tutti.
Il Gruppo Carrefour è il primo distributore in Europa e secondo nel mondo con 436.000 collaboratori e oltre 12.000 punti vendita fra ipermercati, supermercati, maxidiscount, negozi di prossimità, cash & carry, diffusi in 29 paesi.
La rete di vendita in Italia conta di 53 ipermercati Carrefour, 462 supermercati, iperstore, superstore GS, 993 negozi di prossimità ad insegna DìperDì, 19 punti vendita all'ingrosso con insegna Docks Market e GrossIper che complessivamente occupano oltre 26.000 collaboratori per un giro di affari nel 2005 di 6,8 miliardi di euro
I 115 licenziati Carrefour


Liberazione 24/03/2011, pag 15

Alstom annuncia 1380 esuberi, 280 in Italia. «Inaccettabile»

Un piano di ristrutturazione «inaccettabile». E' questo il secco giudizio della Fiom sui 1.380 esuberi totali, di cui 280 in Italia, annunciati dalla Alstom Transport. In particolare, il gruppo multinazionale ha reso noto «che licenzierà 55 persone a Savigliano (Cuneo), 40 a Bologna, 40 a Guidonia (Roma) e che trasferirà i 62 dipendenti dello stabilimento di Verona a Bologna». Confermata invece la cassa integrazione straordinaria per tutti i 145 lavoratori di Colleferro (Roma). Il piano vìola «un recente accordo siglato a livello europeo con la Fem» che prevede che «prima di arrivare ai licenziamenti, si debbano considerare altre soluzioni, come la ridefinizione degli orari».


Liberazione 24/03/2011, pag 7

Stm di Catania, pessimo accordo. Fiom e Uilm: «Referendum»

La Uilm che si "stacca" da Cisl e Ugl per chiedere il voto dei lavoratori insieme alla Fiom. Sembra un film di fantascienza e invece accade alla Stm, l'azienda catanese che produce microchips per cellulari e computer e dove lavorano complessivamnete 4mila persone. E' successo che Fim e Ugl hanno siglato un accordo che, a giudizio della Fiom, ricontratta «in peggio» quello unitario del 2007» «Le assunzioni promesse diminuiscono - spiega Sergio Bellavita - e per di più verranno effettuate attraverso le agenzie interinali. Per conseguenza, i carichi di lavoro aumenteranno mentre, attraverso lo spostamento delle timbratrici e la determinazione del tempo massimo di vestizione, si introduce un rigido controllo della prestazione». Fino «alla mezzanotte di mercoledì scorso - riferisce Matteo Spampinato della Uilm di Catania - tutti i sindacati erano d'accordo a sottoporre le modifiche all'accordo siglato nel 2007 al voto dei lavoratori. Ma qualcuno, cioè Cisl e Ugl, la mattina di giovedì ha visto bene di firmare quell'ipotesi, sottraendo l'accordo al voto. Ora in azienda c'è una grande agitazione e noi chiediamo che i lavoratori possano esprimere la loro opinione».


Liberazione 24/03/2011, pag 7

lunedì 21 marzo 2011

Ricatto alla Piaggio. E la Fiom si divide

L'azienda macina utili ma chiede la mobilita volontaria per trecento operai

Roberto Farneti
A Roberto Colaninno i 42,8 milioni di euro registrati dal gruppo Piaggio nel 2010 non bastano. Ne vuole di più. Per questo ha aperto in Italia una trattativa con i sindacati per la messa in mobilità volontaria di 400 lavoratori (di cui 300 operai) che saranno così accompagnati verso la pensione. In cambio, l'azienda di Pontedera (Pisa) manterrà l'impegno già assunto per la trasformazione di 131 rapporti di lavoro part-time verticali in rapporti di lavoro a tempo pieno e indeterminato, assieme alla stabilizzazione di 131 precari.
Alla maggioranza dei lavoratori questa proposta non piace, come si è visto chiaramente nelle assemblee che si sono tenute finora. In particolare, gli operai temono un aumento dei ritmi di lavoro legato alla diminuzione certa dell'organico (cento tute blu in meno nelle Meccaniche su 580 addetti complessivi), mentre la promessa assunzione a tempo indeterminato dei precari non solo slitterà a marzo, ma potrebbe anche tornare in discussione, se dal mercato del motociclo continuassero ad arrivare segnali negativi. Già nel novembre scorso la Piaggio aveva tagliato unilateralmente del 7% i tempi che ciascun addetto ha a disposizione per compiere una determinata operazione, provocando la reazione immediata dei lavoratori. Dopo due mesi di scioperi articolati (un quarto d'ora tutti i giorni) c'è stata la marcia indietro.
Per i sindacati invece l'accordo si può firmare. Fim e Uilm l'hanno già fatto, la Fiom - pur avendo espresso un giudizio positivo - ancora no. La segreteria nazionale ha dovuto infatti prendere atto della spaccatura tra la Fiom di fabbrica e quella del territorio. La maggioranza della Rsu Fiom (nove contro cinque) è infatti contraria all'accordo e due delegati dell'officina montaggi si sono già dimessi, convinti che la riduzione dell'occupazione a Pontedera sia il segnale di un disimpegno della Piaggio. Secondo la Cgil invece nell'accordo c'è la bozza di «un piano di investimenti per il 2011 pari a 40 milioni di euro che definisce gli impegni per le meccaniche, per i progetti di innovazione e sviluppo e fino alla costruzione del nuovo centro globale ricambi a Pontedera».
Ora la parola passa ai lavoratori. Da lunedì cominceranno le assemblee reparto per reparto e la Fiom ha già fatto sapere che organizzerà un referendum. Ma gli Rsu "dissidenti" non ci stanno: «E' inaccettabile che gli impiegati decidano le condizioni di lavoro degli operai», afferma Simone Selmi. Dalla loro parte si schiera Giorgio Cremaschi, leader di Rete 28 Aprile: «La Fiom sbaglia a dire sì a un accordo quando la maggioranza delle Rsu Fiom - e sicuramente degli iscritti e dei lavoratori più direttamente coinvolti nella ristrutturazione - sono critici». Ma la Fiom non ha sempre sostenuto che i sindacati dovrebbero rispettare le decisioni assunte dalla maggioranza dei lavoratori e non solo limitarsi alla consultazione dei propri iscritti, come fa la Cisl? Per Cremaschi il valore democratico del referendum non è in discussione, anche se «dobbiamo constatare - osserva - che nelle fabbriche metalmeccaniche si vota solo quando sono d'accordo Fim e Uilm. In pratica, il referendum si utilizza solo per far passare cattivi accordi». Quello che è in discussione invece alla Piaggio «è il rapporto tra la Fiom e i suoi iscritti e militanti che rappresentano un patrimonio di organizzazione e di esperienza e che sarebbe un grave errore politico non ascoltare».
Francesca Re David, responsabile Piaggio per la Fiom nazionale, la vede in un altro modo: «L'azienda ha annunciato l'apertura di procedura di mobilità a fronte di un calo del 35% del mercato del motociclo a livello europeo. Siamo quindi di fronte a un accordo di tipo difensivo, del quale diamo un giudizio moderatamente positivo, perché le mobilità sono volontarie e c'è anche il rispetto sostanziale dell'impegno sulla stabilizzazione dell'occupazione, malgrado gli esuberi. L'altro punto è che ci sono primi elementi del piano industriale importanti per il consolidamento della progettazione e produzione in Italia di motori Piaggio per il mercato europeo. Ora, come dice il nostro Statuto, noi faremo le assemblee informative e il referendum tra tutti i lavoratori e solo dopo il voto - precisa Re David - firmeremo. Aggiungo che i lavoratori e i nostri delegati hanno pienamente ragione sulla necessità di aprire una vertenza sui ritmi di lavoro».
La vicenda è seguita con attenzione dal Prc, che nei giorni scorsi ha polemizzato contro gli appelli alla responsabilità rivolti dal Pd ai lavoratori di Pontedera. «Il protocollo d'intesa firmato alla Piaggio - spiega Alessandro Favilli, della segreteria regionale - contiene luci ed ombre. Le luci sono quelle della stabilizzazione di un numero consistente di precari; le preoccupazioni invece riguardano il fatto che queste assunzioni a tempo indeterminato, già previste, slitteranno per la messa in mobilità di 400 lavoratori e non tutti i posti di lavoro persi saranno recuperati». Anche il piano industriale presenta delle ombre: «Le assicurazioni date dall'azienda per un ritorno alla ricerca e alla produzione di motori per il mercato europeo non sono - obietta Favilli - sostanziate da un chiaro cronoprogramma, che definisca tempi e modi dell'annunciato investimento da 40 milioni di euro». C'è infine una terza questione «che riguarda le condizioni di lavoro pesantissime definite dal precedente accordo, condizioni che per noi vanno ridiscusse».


Liberazione 19/03/2011, pag 6

Bancari, pronta a partire la piattaforma

Il 7 aprile i direttivi unitari dei sindacati dei lavoratori del credito approveranno la bozza di piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del settore, scaduto il 31 dicembre 2010. Sono circa 330 mila i lavoratori e le lavoratrici coinvolti nel rinnovo contrattuale. Per questo, dall'8 di aprile si svolgeranno gli attivi regionali unitari a cui seguiranno le assemblee di consultazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Per il segretario generale della Fisac Cgil, Agostino Megale, «si sta procedendo unitariamente con l'obiettivo di un rinnovo contrattuale in grado di difendere e recuperare il reale potere d'acquisto dei salari rispetto all'inflazione reale e, contestualmente, che sia capace di rafforzare l'area contrattuale di applicazione e rispetto del contratto nazionale, oltre che favorire l'occupazione dei giovani, fondata sul lavoro stabile e tutelato, con la piena applicazione del contratto stesso».


Liberazione 16/03/2011, pag 7

Terni, occupata la Meraklon

L'azienda chimica vuole chiudere

Assemblea permanente presso le portinerie con il blocco totale delle merci e un sit-in lungo via Narni a Terni: sono queste le iniziative di protesta programmate da Filctem, Femca, Uilmec, Ugl e Orsa dopo la comunicazione dell'intenzione di procedere alla messa in mobilità di tutto il personale degli stabilimenti ternani della Meraklon Yarn e Spa, da parte dei vertici dell'azienda. La decisione di mettere fuori 240 lavoratori sarebbe motivata, si legge in una nota delle organizzazioni sindacali, «dalla dichiarata cessazione delle attività produttiva». Ieri c'è stasto un incontro tra i rappresentanti dei lavoratori e il prefetto di Terni, Augusto Salustri, per discutere della questione, mentre per oggi alle 10,30 è confermato l'incontro al ministero dello Sviluppo economico al quale dovrebbe partecipare, oltre a istituzioni e rappresentanze sindacali, anche la proprietà della Meraklon.
Ma ormai si parla apertamente di di «dramma alla Meraklon», «un atto da condannare senza se e senza ma» (Ugl). Per il sindacato la situazione è paradossale perché prima l'impresa dichiara la buona salute salvo smentirsi due giorni dopo con una richiesta di cassa integrazione fino ad arrivare alla mobilità. Gli operai della Meraklon sono tutti padri e madri di famiglia con un'età media compresa tra i 35 e i 45 anni. La Meraklon è una delle ultime postazioni dell'industria chimica in Umbria. Ed è per questo che i sindacati hanno chiamato in causa Regione e Provincia.
Nelle scorse settimane sia il presidente della Provincia di Terni Feliciano Polli e l'assessore provinciale allo Sviluppo Domenico Rosati hanno partecipato ad alcune iniziative dei lavoratori della Meraklon e degli altri siti del polo chimico ternano-narnese. Tra le altre, una lungo il raccordo Terni-Orte, con conseguente blocco del traffico.


Liberazione 16/03/2011, pag 7

Conciliazione obbligatoria, trappola per i poveri

Cesare Antetomaso*
Con le tante, oscene proposte in tema prevalentemente di giustizia penale, avanzate in questi giorni dalla maggioranza con i ddl di iniziativa del Governo (la cui approvazione è comunque di là da venire), rischia di passare in secondo piano un provvedimento che è destinato invece a incidere profondamente e nell'immediato nella giustizia civile: la mediazione finalizzata alla conciliazione (cd. media-conciliazione).
Salvo imprevisti dell'ultimo momento, il prossimo 21 marzo questo istituto, fortemente voluto da settori economici forti, introdurrà di fatto la privatizzazione di ampi settori del sistema giudiziario italiano. Chi vorrà promuovere una causa civile, infatti, non potrà più rivolgersi direttamente al Giudice, ma dovrà prima esperire un tentativo obbligatorio di conciliazione, di fronte a un mediatore privato. Una figura, questa, per la quale il Decreto 28 non prevede una particolare preparazione giuridica, non essendo nemmeno necessaria la laurea in Giurisprudenza, bensì la frequenza di costosi corsi, organizzati (guarda caso) proprio dai soggetti che più hanno spinto per l'emanazione della norma. Così, in ragione dell'obbligatorietà della mediazione come condizione di procedibilità dell'azione, si impedisce al cittadino il libero accesso alla giustizia civile, contrariamente a quanto previsto dall'articolo 24 della Costituzione.
Quanto ingenti siano gli interessi economici in gioco (e correlativamente forti i poteri che premono per l'adozione dello strumento) è dimostrato dalla martellante - e mistificatoria - campagna pubblicitaria in atto da mesi su tutti i mass-media.
Il messaggio che si tenta di far passare è: "La mediazione conviene, costa meno del processo".
Niente di più falso, in realtà. Basta immaginare una causa di divisione ereditaria tra più fratelli per un appartamento del valore di 520.000 euro (non infrequente nel mercato immobiliare drogato delle grandi città): in questo caso, ciascuna parte dovrà sborsare all'Organismo di mediazione - privato - la bellezza di 3.800 euro. E anche laddove la mediazione fallisse, il compenso sarà comunque dovuto, e andrà ad aggiungersi alle spese di causa!
Ecco perché l'istituto della media-conciliazione, di per sé anche positivo se considerato aggiuntivo rispetto alla soluzione giudiziaria delle vertenze, diviene pericoloso e di ulteriore intralcio alla soddisfazione dei diritti dei cittadini, se considerato obbligatorio.
Va da sé, infatti, che la misura, così come prevista, si ripercuoterà maggiormente in danno dei cittadini meno abbienti. Ciò, sia perché questi saranno meno propensi a intraprendere un giudizio, pur sussistendo un giusto diritto (es. alla restituzione di una somma, sulla quale ben poco c'è da mediare), sia perché se obbligatoria è la mediazione, tale non è l'assistenza di un legale dinanzi al mediatore, che sarà appannaggio solo di chi potrà permettersene le relative, ulteriori spese.
Anche la classe forense - e in specie i più giovani - è facile prevedere ne uscirà con le ossa rotte: un problema sociale in più, nel momento sicuramente meno opportuno.
Per questi motivi, l'Associazione Organismo unitario dell'avvocatura ha deliberato l'astensione dalle udienze per il periodo dal 16 al 22 marzo, con l'adesione della quasi totalità del mondo associativo forense tra cui i Giuristi Democratici, che oggi si ritroveranno in Piazza Capranica a Roma in difesa del diritto alla difesa e del libero accesso alla giurisdizione.
Perché anche la Giustizia è un bene comune.
*Giuristi Democratici


Liberazione 16/03/2011, pag 1 e 8

Roma, proteste per il fermo dei lavori della metro C

Le organizzazioni sindacali Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil si dicono «fortemente preoccupate per il rischio occupazione nei cantieri per la realizzazione della Metro C di Roma». «Il ritardo dei finanziamenti per i lavori relativi alla tratta T3, contestualmente alle modifiche apportate al progetto - spiegano in una nota - hanno posto le due macchine escavatrici Tbm al prossimo fermo per un tempo di durata indefinita. L'imminente fermo rischia di provocare una naturale ricaduta occupazionale». Per oggi stesso è stata convocata un'assemblea straordinaria di due ore per indire lo stato di agitazione con un pacchetto di 8 ore di sciopero che sarà utilizzato nei prossimi giorni.
I sindacati denunciano come le numerose richieste di incontro siano cadute nel vuoto.


Liberazione 15/03/2011, pag 8

lunedì 14 marzo 2011

Siamo lavoratori, non "ammortizzati sociali"

Ex Lsu Ata

Nadia Ciardiello
La storia degli ex Lsu Ata percorre 16 anni di diritti negati. E' una storia che sa di resistenza attiva. Da 16 anni è anche la mia storia.
Noi ex lavoratori socialmente utili proveniamo da liste di mobilità e da lunga disoccupazione. Oggi siamo più di 13mila, distribuiti in 4mila scuole del centro-sud dove prestiamo il servizio di pulizia.
Per 7 anni, dal 1995 al 2001, gli Enti Locali prima, e dal 1999 i Provveditorati agli Studi, disattendendo un decreto legge che ci voleva utilizzati per supportare le attività del personale di ruolo, ci hanno "utilizzato" in mansioni prevalenti e non sussidiarie, facendoci ricoprire le carenze organiche degli Ata. Tradotto: per anni siamo stati sfruttati lavorando in nero come veri e propri collaboratori scolastici a fronte di un misero assegno di 800mila delle vecchie lire e senza contributi.
Rispetto a un fenomeno così grave quanto generalizzato, Cigli, Cisl e Uil hanno mostrato da subito solo indifferenza. E' stata quindi necessaria l'autorganizzazione dei lavoratori che, con il sostegno dei sindacati di base (Sincobas e Rdb-Cub), a partire già da inizio 1998 hanno dato vita ad una rivendicazione forte e partecipata. In 3 anni abbiamo costruito più di 30 iniziative di lotta, portando avanti un'unica richiesta: l' assunzione nei ruoli del personale scolastico!
Forti anche della riserva del 30% sulle assunzioni, per noi contenuta dalla L. 144/99 art. 45, abbiamo rivendicato la dignità di un contratto che ci desse pieni diritti e salario, visto che ci veniva richiesto quotidianamente un lavoro a tutti gli effetti e con gli stessi doveri del personale Ata, coprendo i posti carenti e garantendo quel servizio di vigilanza e pulizia nelle scuole che altrimenti nessuno avrebbe svolto. In questi anni abbiamo occupato strade e ministeri, presidiato regioni, incontrato assessori e sottosegretari. Malvolentieri abbiamo respirato l'indifferenza sorda ed umiliante che ha accomunato l'alternanza politica tra centro destra e centro sinistra. Nel 2001 il ministero del Lavoro, di concerto con Cgil, Cisl e Uil con il Dl n. 65 del 20/04/01 decide di farci assumere da ditte di pulimento facenti parte di 4 Consorzi nazionali (Legacoop, Confcoop, Confindustria e Pmi), affidando a questi un appalto miliardario senza gara e regalando fior d'incentivi per la cosiddetta "stabilizzazione". Questa per noi è stata una scelta scellerata e inaccettabile: significava, in realtà, essere ancora più precari per garantire solo gli interessi dei privati!
In questi ultimi 10 anni abbiamo continuato ad autorganizzarci. Nel frattempo il sindacato di base è diventato più forte e adesso, con il sostegno dell'Usb, ci muoviamo in un contesto nazionale ben coordinato. Chiediamo ancora il diritto di essere assunti nel personale Ata tagliando così gli enormi sprechi degli appalti, ottenendo quella stabilizzazione vera che ci è stata negata. Scontiamo da sempre la totale censura dei mass-media nazionali anche se la nostra è una categoria che conta più addetti della Fiat ma rischia di essere debole perché frantumata in quattromila posti di lavoro. E' per questo, forse, che vari governi e padroni hanno pensato che su di noi, al limite, si può ogni tanto anche infierire. Lo stesso ministro Gelmini spesso, strumentalmente, stenta a definirci "lavoratori" e preferisce definirci degli "ammortizzati sociali". Personalmente anch'io ho difficoltà a considerarla un ministro…
Quest'anno il Miur, nella sua politica di tagli, realizza l'ennesimo colpo da assestare agli ex Lsu Ata. Dal 30 giugno 2011 su 13.500 lavoratori perderanno il proprio posto di lavoro oltre 5mila. Chi rimane avrà meno ore lavorative e carichi di lavoro aumentati. Nell'ultimo sciopero nazionale, indetto dall'Usb il 15 febbraio scorso, abbiamo posto la gravità di quanto sta accadendo ai politici territoriali e ai prefetti di tutte le regioni in cui siamo presenti, invitandoli a prendere posizione attiva. Abbiamo denunciato agli amministratori locali e agli enti di governo territoriali quello che sta succedendo, ottenendo anche significative prese di posizione, visto che si sta attentando al futuro di centinaia di migliaia di famiglie ma anche di migliaia di scuole nel centro sud.
Ma non basta e non ci arrendiamo: l'11 marzo, partecipando allo sciopero generale indetto dall'Usb, vogliamo rendere ben visibile la nostra denuncia rispetto alle scelte che per anni ci hanno sfruttato e che, tra pochi mesi, ci renderanno meno di niente. Siamo un emblema delle scellerate logiche di privatizzazione, sfruttamento e privazione dei diritti e del lavoro che, in questi anni, hanno caratterizzato la vita politica ed economica del nostro Paese.
Vogliamo testimoniare inoltre la perenne, scandalosa gestione sindacale dei sindacati complici che, continuando a sostenere gli appalti e i loro interessi, aggiungono al danno la beffa poiché di fatto hanno determinato la macellazione sociale della nostra categoria.
E' matematico: con i pochi fondi che intende stanziare il Miur, oggi l'internalizzazione non è più solo una richiesta basata su un diritto dei lavoratori ma, affiancata dal prepensionamento di molti ex Lsu Ata vicini all'età pensionabile, costituisce l'unica strada per salvare migliaia di posti di lavoro. Noi, di andare a casa dopo tanti anni di lotta e di sacrifici, non ci pensiamo proprio e ci faremo sentire.


Liberazione 10/03/2011, pag 15

Il padrone vuole dividerci? E noi rispondiamo facendo fronte comune

Pomezia (Rm) Di.Ma Costruzioni
Plusvalenze da milioni di euro ed esposizione debitoria con banche, fisco e fornitori. Paradossi di un'economia sempre più volatile e rarefatta, il cui peso, quasi sempre, si scarica sul lavoro. Quello concreto e tangibile, mai come in edilizia, fatto di persone, storie di vita, giornate interminabili, contratti a termine e finti part-time. Accade a Pomezia, in provincia di Roma, alla Di.Ma Costruzioni, la società intestata all'immobiliarista Raffaele Di Mario, proprietario, tra l'altro, del Palazzo Sturzo all'Eur, sede storica della Democrazia Cristiana. L'acquisto del Palazzo dai liquidatori del popolare partito, nel 2004, valse a Di Mario una plusvalenza di 18 milioni di euro, guadagnati, mediante la cosiddetta "triangolazione immobiliare", in appena 24 ore. Da dicembre 2010, 180 lavoratori edili della Di.Ma Costruzioni, assieme ai sindacati territoriali di categoria, Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil, sono in protesta. Mesi di ritardo nel pagamento degli stipendi e nei relativi accantonamenti in Cassa edile. Sit-in davanti alla sede della Regione Lazio, scioperi, tavoli e trattativa sindacale. Con l'ultimo presidio, lo scorso 22 febbraio, i lavoratori hanno bloccato il cantiere del Parco della Minerva di Pomezia, mentre i sindacati hanno richiesto l'apertura di un tavolo in prefettura e presso il ministero del Lavoro.
«La nostra protesta non si fermerà, andremo avanti fino a quando non avremo ottenuto ciò che ci spetta di diritto - racconta Ionel Cinghinau, romeno, 40 anni, Rsa della Feneal Uil Roma -, il problema alla Di.Ma non è rappresentato dalla recessione economica in atto, dalla mancanza di lavori o commesse, ma da una gestione inadeguata».
Ionel, che da 11 anni vive in Italia, conosce bene l'azienda, perché vi lavora ormai dal 2004: «La gran parte dei lavoratori edili in azienda è costituito da stranieri, per oltre il 75 per cento, di età compresa tra i 20 e i 40 anni. La proprietà pensa di poter fare tutto ciò che crede, soprattutto con gli operai stranieri, perché in condizioni di maggiore fragilità. Non è così, il vento sta cambiando. Attraverso tipologie contrattuali differenziate si tende a dividere i lavoratori, tanto italiani quanto stranieri. Gli operai vincolati da contratti a termine hanno più paura, perché temono di perdere il lavoro. Proprio per questo è necessario fare fronte comune».
In calendario nei prossimi giorni nuovi incontri tra la direzione aziendale e i sindacati per giungere ad una risoluzione.
I lavoratori della Di.Ma in lotta


Liberazione 10/03/2011, pag 15

"Temporaneamente" occupati all'Inps Senza prospettive con il Milleproroghe

Vi scrivo per chiedervi di occuparvi tempestivamente della questione dei lavoratori temporanei occupati presso le diverse sedi Inps in tutta Italia.
Siamo in 1240, la maggior parte dei quali assunta a marzo 2009, parecchi siamo laureati, e in questi mesi ci siamo impegnati quotidianamente in funzioni attinenti l'erogazione di prestazioni sociali ed assistenziali quali la disoccupazione, la cassa integrazione, l'invalidità civile, ma non solo.
Fino a fine dicembre 2010 eravamo circa 1.800, più di 500 lavoratori sono stati lasciati a casa a scadenza del contratto, senza possibilità di ulteriore proroga.
A causa dei tagli previsti dalla legge n. 122/201, il nostro posto di lavoro è seriamente a rischio e ad oggi per noi, dopo il mancato inserimento nel Decreto "Milleproroghe" degli emendamenti presentati in nostro favore, non esistono prospettive lavorative dopo la data del 31 marzo 2011, data di scadenza dell'appalto stipulato tra l'Inps e la società Tempor Spa (agenzia fornitrice di lavoro temporaneo).
In questi mesi noi abbiamo maturato competenze e autonomia professionali, inserendoci a pieno titolo nell'organico, e siamo riusciti a farci apprezzare per impegno, buona volontà e rendimento. La maggior parte di noi ha, perfino, recuperato le ore corrispondenti ai pochi giorni d'assenza.
Tutto questo si inserisce in un contesto in cui la mole di lavoro a carico dell'Istituto di previdenza nazionale è sensibilmente moltiplicata nel corso di questi anni, basti pensare solamente all'aumento delle pratiche inerenti la cassa integrazione e la disoccupazione; inoltre, diversi dipendenti sono andati in pensione o sono in procinto di farlo nei prossimi mesi, senza che si siano operati o siano in previsione dei nuovi inserimenti lavorativi.
Perdere questa forza lavoro, già formata e motivata, produrrà sicuramente un rallentamento nell'iter delle pratiche di competenza dell'Istituto e comporterà, inoltre, un costo derivante dagli ammortizzatori sociali a sostegno del reddito previsti dalla legge che ci verranno erogati in caso di disoccupazione.
Il mantenimento di tutte le forze lavoro garantirebbe all'Istituto gli elevati standards raggiunti, ai cittadini i servizi di cui hanno bisogno e a tutti noi il diritto al lavoro.
Visto, che al momento ci sentiamo "invisibili" e assolutamente non presi in considerazione, vi chiedo di portare l'attenzione su di noi, di darci voce, tramite uno o più articoli.
In attesa di un vostro riscontro, e ringraziandovi anticipatamente per quanto vorrete e riuscirete a fare, vi porgo i migliori saluti.
Lavoratori Inps in lotta


Liberazione 10/03/2011, pag 15

Ancora pochi mesi per decidere il futuro dei 1.300 dipendenti

Anagni (Fr) Videocon
Dopo sei anni di cassa integrazione, ancora oggi non si vede uno sbocco concreto alla risoluzione della vertenza della Videocon di Anagni.
Sei anni che hanno portato allo stremo i 1.300 lavoratori dipendenti dello stabilimento e le loro famiglie.
Il 15 agosto prossimo termina definitivamente la cassa integrazione e si preannuncia lo spettro della mobilità (licenziamento) per tutti i lavoratori, a meno che non si proceda, in questi pochi mesi rimasti, alla vendita e quindi alla riconversione della fabbrica.
Tutto nasce dalla crisi dei cinescopi a colori che venivano prodotti nello stabilimento anagnino di proprietà della multinazionale francese Thomson, che nonostante l'altissimo livello professionale dei lavoratori ed un centro di ricerca e sviluppo tra i migliori al mondo, decide di non investire in prodotti innovativi e quindi mette in vendita lo stabilimento, che viene acquistato dalla multinazionale indiana della Videocon, che presenta in pompa magna al ministero della Sviluppo economico un piano industriale per la riconversione della fabbrica. E' l'inizio del calvario dei lavoratori.
Naturalmente non viene avviata nessuna riconversione e nessuna attività produttiva, fino alla decisione da parte della proprietà indiana di non essere più interessata al sito di Anagni, che viene messo in vendita.
I lavoratori iniziano una serie impressionante di iniziative di protesta, di lotte, per difendere il proprio posto di lavoro, nell'indifferenza totale da parte di tutti, politici ed istituzioni, ma soprattutto da parte degli organi di informazione nazionali, che a differenza di altre situazioni, seppur drammatiche, ma di proporzioni di gran lunga inferiori per importanza e per numero di lavoratori interessati, viceversa hanno trovato spazio nei Tg.
Salvare il posto di lavoro è la priorità assoluta e per questo siamo decisi a tutto; l'economia dell'intera provincia di Frosinone sta a rischio se dovesse chiudere la seconda fabbrica del Lazio per numero di addetti; se a questo si aggiunge la crisi occupazionale che attanaglia l'intera provincia, sarebbe praticamente impossibile trovare una nuova occupazione.
Si fanno manifestazioni in Prefettura, presso l'Ambasciata indiana a Roma, davanti Palazzo Chigi, si fanno centinaia di assemblee in fabbrica, ma senza ottenere risultati positivi. Si sale sul tetto della fabbrica occupata giorno e notte, fino all'esasperato blocco autostradale (per ben quattro volte), l'ultimo del quale è durato per più di sei ore, spaccando di fatto l'Italia in due, risolto solo dopo l'arrivo dei celerini e l'intervento preoccupato del Prefetto. Tutto questo per difendere il proprio posto di lavoro e la propria dignità.
Per tutta risposta i lavoratori stanno ricevendo lettere di condanna da parte del Tribunale di Frosinone per il reato di interruzione di pubblico servizio, con 15 giorni di reclusione convertiti in una pena pecuniaria di euro 3.750 di multa. Al danno si aggiunge la beffa.
Nel frattempo due nostri colleghi hanno deciso di togliersi la vita. Non possiamo sapere quali sono le motivazioni, ma c'è una strana coincidenza sul fatto che tutti e due non erano sposati e che probabilmente si sentivano terribilmente soli e senza lavoro, forse gli è mancato l'unico modo di passare il tempo.
Massimo Cellitti, Rsu Vdc, Usb Lavoro Privato Anagni


Liberazione 10/03/2011, pag 14

Quel treno materano sempre più fermo: un'azienda che era un fiore all'occhiello

Matera Ferrosud
Nunzio Festa
Quel treno materano sempre più fermo. Scade ad aprile la cassa integrazione per 110 dei 144 operai della Ferrosud di Matera. L'azienda è attualmente in stato di concordato preventivo, anzi i suoi dipendenti sono semplicemente costretti a scongiurare la fine di questo concordato; è proprio grazie al concordato, in pratica e per disgrazia, che la Cigs potrebbe essere prorogata di altri sei mesi. Di che si sta parlando? Di una fabbrica, in sostanza, che in merito della sua produzione era una di quei rinomati e diversi fiori all'occhiello del polo metalmeccanico meridionale. La Ferrosud è un'impresa di costruzioni meccaniche del settore ferrotranviario e di ristrutturazione di rotabili, piazzata al confine materano con i comuni pugliesi di Santeramo e Altamura. E acquisì intorno agli anni Settanta il bene, in virtù della politica di Finmeccanica pensata a favore dello sviluppo industriale del Mezzogiorno e dell'occupazione in Basilicata in particolare. Inquadrata prima nel gruppo Ansaldo-Breda, prese varie commesse per la costruzione di rotabili per conto delle Ferrovie dello Stato. Raggiungendo un impiego di manodopera che raggiunse il picco delle 630 unità lavorative. Poi subentrò direttamente il Consorzio Ferroviario Meridionale, del gruppo Mancini. Il punto è che, dopo il crollo derivante dalla caduta di richiesta di commesse da parte di Trenitalia, gli attuali proprietari dell'attività imprenditoriale hanno cominciato a tralasciare la politica di gestione di questo importante e strategico sito materano.
Istituzioni e sindacato, però, a tutela degli interessi dei lavoratori in realtà cosa immaginano? Da più parti, è ormai sempre più certo, sindacalisti e rappresentanti istituzionali si augurano solo che la cessione dell'impianto passi a un altro società, la Step One per l'esattezza. Perché pare questa sia molto interessata a un eventuale acquisto. Ma quel che è sicuro, nel frattempo, è che l'imprenditore ancora titolare di Ferrosud, cioè il gruppo Mancini - in passato al centro di questioni spinose per la cronaca giudiziaria - non è ugualmente tanto interessato a farsi vedere per trattative varie. Preferendo scendere maggiormente in Sicilia a far ruotare altri meccanismi produttivi delle altre aziende del gruppo.
Nel contempo chi lavora, anzi soprattutto chi è costretto a non lavorare più, per lo meno temporaneamente, sa benissimo che esiste un altro grosso rischio. Un vecchio appalto potrebbe vedere addirittura un passaggio di mano, in quanto la Ferrosud dovrebbe comunque consegnare in tempo sulle scadenze previste ben 28 carrozze, delle quali le 9 già inserite in lavorazione potrebbero appunto già vedere un spostamento secco verso la palermitana Imesi. Ma Mancini persino all'ultimo tavolo istituzionale ha deciso di fare la parte del fantasma.
Nonostante tutta la città, a seconda dell'indifferenza o della condivisione, si pone da tempo un problema di gestione del futuro. In special modo durante la crisi del distretto del mobile imbottito e quella di altri settori che caratterizzano l'economia della città dei Sassi.
La delusione degli operai della Ferrosud è tangibile. Quotidianamente più sfiduciati i lavoratori, la maggior parte dei quali ha superato i quarant'anni di età, si scontra col pensiero di un difficile se non persino improbabile e futuro reinserimento lavorativo. Tutto questo, a maggior ragione, quando i dipendenti per anni sono stati osannati quali forza motrice dell'azienda sita in zona Jesce.
Non resta che attendere le prossime mosse dei sindacati. Ma soprattutto chiedere al padrone non solo di fare un passo indietro su tutta la gestione, bensì di farne uno in avanti finalizzato a mettere la faccia nella prosecuzione della trattativa. Come il treno in gabbia della Ferrosud, delle carrozze che non possono muoversi per colpe dei padroni, la trattativa vera e propria sta su un mezzo piombato al suolo.


Liberazione 10/03/2011, pag 14

«Uno sciopero di otto ore per unire le lotte»

Franco Martini segretario generale della Filcams
Fabio Sebastiani

Con l'accordo separato nel commercio si chiude la fase dei "contratti migliorativi" dello schema uscito nel gennaio del 2009.
L'accordo di fatto apre una fase nuova delle vicende contrattuali. Dopo l'accordo del 2009 eravamo andati avanti con uno sforzo unitario riuscendo a produrre una cinquantina di accordi che in un modo o nell'altro erano il frutto di compromessi e di mediazioni. L'accordo del commercio demarca una fase nuova, una negativa discontinuità poiché sacrifica alle ragioni dell'unità quelle di un progetto che è chiaramente mirato all'isolamento della Cgil. Il rifiuto nostro alla firma è l'effetto combinato di un elemento voluto da Confcommercio e di uno voluto da Cisl e Uil. Brutto accordo perché introduce integralmente il Collegato lavoro, Ipca e deroghe al contratto nazionale.

Come peggiorerà le condizioni di lavoro?
C'è un secondo terreno di forte dissenso. Non accontentandosi, l'accordo modifica in peggio alcuni istituti, tipo la malattia, nel senso che viene peggiorato il trattamento normativo dei primi tre giorni (dopo il quinto evento non verrà pagata). Confcommercio ha preteso una campagna contro l'assenteismo. Senza contare l'attacco ai permessi individuali, tant'è che i nuovi assunti potranno godere degli stessi diritti dopo quattro anni. L'altro elemento grave è che di fatto viene definito un codice per la contrattazione di secondo livello. La materia di cui potrà occuparsi, invece, la contrattazione di secondo livello sarà quella delle deroghe al contratto nazionale. In pratica verrà ridotta la copertura del contratto nazionale. In un settore già flessibile di suo, dove prevalgono i contratti di lavoro a part time, a termine, riduzione e spezzettamento di orari, a fronte della necessità di portare avanti una battaglia per strutturare il lavoro si portano strumenti per dilatare ulteriormente l'accesso alla flessibilità. Tutto questo è giustificato dalla crisi dei consumi? Non credo. Abbiamo contestato questo teorema. Nei cinquanta settori in cui abbiamo fatto gli accordi non c'è un solo contratto in cui la soglia delle tutele è stata arretrata perché c'è la crisi. Poi voglio dire che le deroghe interverranno anche sulle pari opportunità. Questo brutto contratto è anche contro le donne.

Ci sarà un confronto con i lavoratori?
Se ci sarà è perché la Filcams andrà a spiegare il testo nelle assemblee. Da questo punto di vista siamo nel più totale arbitrio delle parti. Chi fa questo accordo si sottrae anche dalla verifica dei lavoratori. Abbiamo fatto la proposta di fare la consultazione, ma niente. Bonanni e Angeletti ci devono speigare perché a Pomigliano questa regola va bene mentre qui la democrazia non può essere applicata.

Come risponderete?
Marzo ed aprile faremo le assemblee, come dicevo, in tutti luoghi di lavoro per spiegare l'accordo. Combatteremo una battaglia per riconquistare un contratto. Bisogna attrezzare una battaglia di medio e lungo periodo il fronte più critico sarà quello della contrattazione di secondo livello. Infine dovremo collegare questa battaglia con l'iniziativa della Filcams sui temi del settore, come il lavoro domenicale.

La vostra protesta cade in un momento particolare.
La vicenda del commercio, dopo la Fiom e la Funzione pubblica, rende urgente la definizione di regole che facciano funzionare le relazioni sindacali.

Il sei maggio farete uno sciopero di otto ore?
Intanto abbiamo già proclamato lo sciopero di categoria. Avendo la Cgil deciso lo sciopero noi lo porteremo a otto ore. Poi vedremo.

La vostra vicenda, come altre, parlano dell'importanza di una azione confederale.
E' l'impegno che sta caratterizzando la Filcams dentro la Cgil, che trova in Susanna Camusso un segretrario molto attento. Lei iniziò la sua lista da Fazio a "Vieni via con me" citando le lavoratrici della nostra categoria. Occorre che la Cgil metta in campo quella confederalità in cui non esistono precari di "serie A" e di "serie B". La nostra battaglia è per affermare il concetto di "precari di tutto il mondo unitevi". Non è rappresentando mondi contrapposti che possiamo affrontare questa battaglia durissima che nei prossimi giorni dovrà difendere anche l'articolo 18. Mettere da parte tutte le nostre questioni intestine e mettere al centro la confederalità, che faccia in modo che la vicenda Fiat riguardi gli addetti al commercio e le donne della grande distribuzione i metalmeccanici.


Liberazione 09/03/2011, pag 6

mercoledì 9 marzo 2011

Quel giorno che a Pomigliano cominciò un'altra storia

Il 22 giugno si votava al referendum sull'accordo Fiat: il clima pesante, le pressioni e quel dvd patetico. E il risultato-svolta
Pubblichiamo un'anticipazione dal libro "Pomigliano non si piega. Storia di una lotta operaia raccontata dai lavoratori" che sarà presentato domani presso il circolo Prc Fiat Auto-Avio di Pomigliano a partire dalle 10,30.

Ciro D'Alessio*
I primi giorni di giugno (2010, ndr), poco prima dell'incontro alla sede di Confindustria a Roma, tenemmo un'assemblea in fabbrica nella quale ancora, nonostante tutto, reggeva un'esile parvenza di unità. Da quell'assemblea si uscì con una posizione unitaria: in nessun caso si sarebbero fatti accordi al di fuori del Ccnl (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro).
Ma come troppi di noi sospettavano, bastò veramente poco per venir meno all'impegno preso con i lavoratori. Si narra di telefonate sospette ai segretari di Fim e Uilm e delle lacrime di uno di essi quando il responsabile Fiat disse che in quel momento non avrebbe accettato nessun accordo separato senza il coinvolgimento della Fiom e che bisognava fare un referendum per dare una parvenza democratica al ricatto che stava proponendo.
Quando le delegazioni scesero si capì subito che qualcosa era cambiato; notammo infatti che le delegazioni degli altri sindacati si dileguavano in tutta fretta ed evitavano l'assemblea improvvisata da Landini per spiegare come erano andate le cose. In quell'assemblea il nostro segretario ci spiegò bene che niente sarebbe più stato come prima, che la Fiom era intenzionata a dare battaglia fino alla fine pur di difendere i lavoratori di Pomigliano e di tutt'Italia. In quel momento incrociai lo sguardo dei miei compagni e capii che eravamo pronti a dare tutto in quella battaglia.
Nei giorni successivi, in fabbrica, l'aria divenne pesante. Sentivamo che i vari capi e capetti ci guardavano male, si formavano spontaneamente gruppi di operai che discutevano animatamente della situazione. Cercavamo sempre e comunque di far valere le nostre ragioni e quando i nostri avversari non riuscivano a contrastarci nel merito della questione, ci accusavano di essere un'espressione del passato, residui di un sindacalismo morto e dicevano che il nostro atteggiamento ci avrebbe portato ad essere licenziati.
Sostenevano che noi difendevamo i fannulloni e gli assenteisti, quando si trattava invece di difendere il diritto alla malattia, il diritto a poter dire no, ad avere la possibilità di contrastare qualsiasi abuso dell'azienda tramite lo sciopero, anche se questo comporta perdere, in un periodo di crisi, una parte del già misero salario.
Ci continuavano a chiedere chi o cosa ce lo faceva fare e insistevano che presto o tardi la Fiat ce l'avrebbe fatta pagare. Forse il momento più difficile di quei giorni non fu il difendersi dai nostri avversari, ma da quelli che credevamo essere nostri alleati. Come quando i delegati delle altre organizzazioni sindacali iniziarono a girare per le linee distribuendo il comunicato della Cgil regionale che invitava a votare sì.
Questo fu il clima che abbiamo respirato in fabbrica fino al 22 giugno, giorno del referendum. Quella mattina mi svegliai prima, erano circa le quattro e, mentre mi facevo il caffè, pensavo a mille cose, come sarebbe andata, cosa sarebbe stato poi, ecc. Sapevamo bene tutti che la sfida che ci aspettava era durissima, non potevamo aspettarci niente, l'azienda aveva messo in campo tutte le sue risorse, e nei giorni precedenti al referendum si erano susseguiti annunci in televisione. La Fiat aveva anche organizzato una marcia col patrocinio del comune di Pomigliano sulla falsariga di quella del 1980 a Torino, i cui partecipanti erano principalmente delegati di Fim, Uilm, Fismic e Ugl con le rispettive famiglie, impiegati, capi ed esponenti della politica di destra campana. Ma il risultato fu irrisorio, circa duecento partecipanti, e scatenò fra l'altro una reazione contrariata da parte degli operai, che si sentirono presi in giro e offesi dalla falsità della manifestazione…
Politici, sindacalisti, Chiesa, gente comune, tutti a favore del sì, tutti consapevoli che si sarebbero peggiorate notevolmente le condizioni di lavoro della gente, ma l'importante era l'investimento; avevano imparato tutti la storiella a memoria: «Bisogna salvare l'occupazione». E' paradossale, se si pensa che eravamo stati noi, come operai più combattivi e coscienti, ad essere stati per tre anni in prima fila per difendere il nostro posto di lavoro, anche perché noi, a differenza di Marchionne, non possiamo andarcene in un altro paese. Per di più eravamo noi che, esponendoci di più in prima persona, rischiavamo il posto per difendere i diritti di tutti i lavoratori.
Il 22 giugno, arrivati fuori dai cancelli c'era tanta gente venuta fin lì per portare solidarietà in quel momento così particolare. L'aria all'interno era diversa quella mattina, non si sentiva il solito rumore, quel rumore che mette i brividi, il rumore della fatica delle giornate passate ad inseguire una macchina mentre ti spacchi la schiena.
Arrivati sulle linee c'erano decine di sedie ed un televisore, sembrava di essere tornati ai tempi della rieducazione (il famoso piano Marchionne). Appena incontrai i colleghi iniziammo inevitabilmente a parlare del referendum, e mi accorsi subito che l'esito di quella giornata forse non era già scritto.
[…] Cominciò la proiezione del dvd, si vedevano scene patetiche, lavoratori che facevano domande al direttore e il direttore con sorriso gioioso che rispondeva. Si andava dal «si potrà scioperare?» al «guadagneremo di più?» Ma evidentemente quella fu una mossa sbagliata, sentivo i miei colleghi parlare e commentare ironicamente quelle scene pietose.
[…] Arrivò l'ora delle votazioni e ci avviammo verso il seggio e passo dopo passo mi convincevo sempre più che qualcosa di grande poteva accadere. La fila era lunghissima, la gente cercava di non far trasparire cosa sarebbe andata a votare e c'era tanta paura. I delegati delle altre organizzazioni erano stati messi a guardia dei seggi e dispensavano le ultime raccomandazioni o le ultime minacce.
Ma lo stesso facevamo noi, continuando a gridare forte il nostro dissenso e a spiegare perché era fondamentale ribellarsi al ricatto. Ci sentivamo gli occhi addosso, c'erano proprio tutti, dal direttore, ai gestori, ai capi, tutti lì a far sentire la loro presenza, ma noi non temevamo niente e nessuno, sapevamo che quella era una battaglia che andava combattuta, sapevamo che ci guardavano, che ci conoscevano, e che forse un giorno avrebbero presentato il conto, ma non ce ne importava, eravamo intenzionati a fare il nostro dovere fino in fondo.
Una delle cose che non dimenticherò mai di quel giorno fu quello che mi disse un delegato della Fim Cisl un attimo prima di votare. Mi disse: «Oggi avrete un'enorme sconfitta e domani, con la coda fra le gambe, verrete a firmare». Lo guardai e gli risposi che quel giorno era solo l'inizio. Quando il voto finì tornammo al lavoro, stava finendo la giornata di lavoro, ma la nostra di giornata era appena iniziata.
[…] La sera accesi il computer e misi il telegiornale per seguire l'esito dello spoglio. Le prime notizie non erano confortanti, dal momento che alla prima urna erano usciti 98 sì su 100 schede. D'improvviso sentii un pizzico di delusione, ma dopo qualche telefonata con i compagni che erano dentro si seppe che quella era l'urna degli impiegati. Subito si riaccese la speranza che niente era perduto. Sul gruppo "Pomigliano non si piega", da noi creato su Facebook, si susseguivano i messaggi di solidarietà di persone che scrivevano da tutte le parti d'Italia; poi, all'improvviso, la svolta: mano a mano che si procedeva con lo spoglio, i numeri dei no aumentavano sempre di più: 100, 200, 300 e ogni aggiornamento aumentava l'entusiasmo, si susseguivano le telefonate e gli sms tra noi.
[…] Era chiaro che quel risultato poteva riaprire la partita, che si poteva invertire la rotta. La classe operaia tornava al centro della scena politica, Pomigliano dimostrava che si poteva vincere, che esisteva ancora la classe operaia. Come poi risulterà in seguito, dal referendum poteva cominciare una nuova stagione per il conflitto di classe e la riscossa operaia. Se Torino 1980 era ricordata come la più grande sconfitta, Pomigliano 2010 poteva essere ricordata in futuro come l'inizio di una nuova epoca di conquiste operaie. […]
*operaio Fiat Auto di Pomigliano D'Arco


Liberazione 06/03/2011, pag 6

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Non un libro sugli operai, ma un libro degli operai. Non la testimonianza di una lotta ormai conclusa, ma la cronaca viva, vera, talvolta cruda, di una battaglia ancora in corso. Domani, mentre il manager con il maglioncino sarà impegnato nel lancio della sua Newco - termine ultimo del ricatto iniziato con il referendum - a Pomigliano i lavoratori faranno sentire la propria voce.
Dal 22 giugno dello scorso anno, giorno in cui un 36% di no ha mandato in fumo i sogni plebiscitari di Marchionne, sul destino di quella fabbrica e della Fiat in generale hanno parlato e scritto tutti. Economisti, politici, giornalisti, dirigenti sindacali, filosofi, uomini di spettacolo hanno disquisito su Pomigliano, il suo presente e il suo destino. Nessuno di loro però, in una fabbrica si è mai sporcato le mani.
In Pomigliano non si piega. Storia di una lotta operaia raccontata dai lavoratori a parlare sono i protagonisti di quella battaglia che, come ha ribadito più volte il segretario nazionale della Fiom Maurizio Landini, ha segnato un punto di svolta nel conflitto operaio in Italia. Senza quel voto, non ci sarebbe stata la grande manifestazione del 16 ottobre 2010, che dopo anni ha posto il conflitto operaio come pietra angolare della costruzione dell'opposizione. Senza quel voto, non ci sarebbe stato il 46% di no al referendum sull'accordo di Mirafiori. Senza quel voto, forse, non sarebbe mai partita la campagna per lo sciopero generale. La vita in fabbrica, i reparti confino, la realtà quotidiana della catena, il significato del ricatto imposto dalla Fiat, la costruzione - paziente, quotidiana - della battaglia che ha aperto la diga del conflitto operaio in Italia: a prendere la parola sono i lavoratori della Fiat di Pomigliano d'Arco e dell'indotto, che in questi anni, attraverso il circolo del Prc Fiat Auto-Avio, hanno costruito un sistematico intervento politico in fabbrica e nella Fiom-Cgil. Lavoratori che oggi non temono di porsi all'altezza della sfida lanciata dal management Fiat. Anzi. Agli attacchi feroci di Marchionne, promettono di rispondere colpo su colpo, già da domani, lunedì 7 marzo.
Alessia Candito


Liberazione 06/03/2011, pag 6