mercoledì 24 novembre 2010

Eaton licenzia, 1.500 persone in piazza a Massa con i lavoratori

La città di Massa Carrara e la Regione Toscana stanno con i 300 lavoratori della Eaton e chiedono al governo di «rimettere al tavolo l'azienda di fronte al ministro Romani in persona». Ieri c'erano oltre 1.500 persone al corteo di solidarietà partito dalla fabbrica occupata dal 6 ottobre scorso e che si è concluso con un sit in sotto la prefettura. La situazione è grave. Se non accadrà qualcosa prima del 15 dicembre, i lavoratori Eaton saranno licenziati: la multinazionale americana infatti non vuole concedere il terzo anno di ammortizzatore sociale e si rifiuta di esaminare le proposte di reindustrializzazione fin qui pervenute. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, è tornato a stigmatizzare le cariche effettuate dalle forze dell'ordine mercoledì scorso al casello autostradale di Massa; «Non si possono - ha detto Rossi - aggredire operai non violenti. Chiediamo al prefetto che in futuro il diritto a manifestare pacificamente sia rispettato e che non si usi la violenza contro i lavoratori mai più».

Liberazione 21/11/2010, pag 6

Ilva di Taranto, i precari espulsi restano sul ponte presidiato

»Non andremo via di qui finchè non otterremo risposte»: Nico Leggieri parla a nome dei precari dell'Ilva di Taranto, prima assunti con contratto di somministrazione e poi licenziati, che da giovedì scorso presidiano il ponte sulla Statale Appia che porta ai cancelli della direzione centrale. Una quindicina di manifestanti sta facendo anche lo sciopero della fame e l'altro giorno uno di loro ha avvertito un malore. «La protesta - si legge in una nota - prosegue a nome dei circa 750 lavoratori messi fuori dall'azienda del Gruppo Riva». I precari vogliono sapere perché l'Ilva si oppone al loro rientro in fabbrica malgrado la situazione di evidente «sottodimensionamento del personale» in cui si trova la fabbrica. Per domani i manifestanti con le loro famiglie hanno convocato una conferenza stampa per spiegare le ragioni della loro protesta e per incassare la solidarietà «di quanti credono ancora nel diritto-valore del lavoro».

Liberazione 21/11/2010, pag 6

Quella fabbrica produce malati non frigoriferi

«Sono qui, alla Fed, per raccontarvi la Zanussi - Electrolux di Susegana»

Paola Morandin *
Ho avuto l'onore di rappresentare in questa sede il circolo operaio dello stabilimento Zanussi Electrolux di Susegana in provincia di Treviso. [...]
Mi chiamo Paola Morandin e ora vi parlo con la speranza di poter ricostruire, a partire dal luogo di lavoro da cui provengo, una nuova e più forte forza politica che rappresenti le lavoratrici, i lavoratori ed il lavoro. La nostra adesione all'associazione 23 marzo Lavoro Solidarietà e ora alla Federazione della Sinistra è la base per raggiungere questo obbiettivo. [...]
Lavoro da più di 22 anni, in una fabbrica metalmeccanica che produce frigoriferi e fa parte di una multinazionale Svedese di elettrodomestici. Qualche giorno fa un compagno di lavoro rifletteva insieme a me sull'evoluzione negativa che sta avendo il Gruppo Electrolux. [...]
Quando noi siamo stati assunti, vent'anni fa il gruppo in Italia conteneva circa 12mila dipendenti, ora non siamo neanche la metà. E una lenta agonia la nostra, che ancora non fa notizia perché viene gestita con ammortizzatori sociali che accompagnano "dolcemente" le lavoratrici e i lavoratori verso l'uscita. Da anni subiamo la cassa integrazione che riduce salari già modesti, quando si lavora il mese intero si fatica ad arrivare a 1200 euro. Con questa lunga crisi la perdita o la riduzione del reddito si somma alla perdita dei posti di lavoro, temi ai quali l'attuale politica si rifiuta di trovare soluzioni. Infatti vari stabilimenti di componenti che producevano motori, componenti in plastica, le stesse fonderie, sono stati venduti ad altre società che con il passare del tempo sono fallite o hanno fatto pesanti tagli di personale.
Il materiale oggi viene acquistato quasi esclusivamente in Cina e nei paesi dell'est con conseguenti problemi di qualità dovuti alla produzione e al trasporto. [...]
Lavoriamo in fabbrica con cinque linee di montaggio, catene a tapparella con ancora le tavole di legno, a ritmo vincolato, producendo 79 pezzi ora e una quantità spaventosa di malattie professionali. L'impianto di schiumatura più importante dello stabilimento è stato costruito negli anni '70 e non sempre riesce ad adattarsi alle rare e nuove produzioni. Non c'è ricambio generazionale perché gli ultimi assunti siamo noi, le lavoratrici e i lavoratori nelle catene di montaggio fisicamente e mentalmente invecchiano velocemente, perché i ritmi per essere competitivi sono insopportabili e la ripetitività eccessiva. Le condizioni di lavoro sono inversamente proporzionali alla produttività dell'azienda, ossia il recupero della produttività si ottiene quasi esclusivamente con il peggioramento delle condizioni di lavoro. La nostra fabbrica produce malati non frigoriferi. Le lavoratrici e i lavoratori con ridotte capacità fisiche si trasformano automaticamente in esuberi perché sono di difficile collocazione, perché in una fabbrica metalmeccanica dove il lavoro è ripetitivo e veloce, non ci sono posti di lavoro per chi sta male, anche se la malattia è esattamente il risultato degli anni precedenti lavorati nelle stesse catene di montaggio. Allora ecco che si punta il dito sui soggetti più deboli, in perdita li definiscono i padroni e saranno i primi che subiranno la cassa integrazione o addirittura l'espulsione dal ciclo produttivo. [...]
Sono passati nove anni, era il 12 novembre 2001, dal grave incendio che si sviluppò nella linea di montaggio numero 3 nel nostro stabilimento. I feriti furono sette. Due lavoratrici ferite gravemente, portano ancora i segni nel corpo e nell'anima delle gravi ustioni. Luis Ciampi morì dopo sei mesi di agonia. Aveva solo quarant'anni! Ogni anno nel giorno dell'incendio e nel giorno in cui Luisa ci ha lasciato, noi compagni di fabbrica teniamo vivo il suo ricordo e cerchiamo di sensibilizzare i nostri compagni di fabbrica sull'importanza della sicurezza nei luoghi di lavoro. Mai più morti sul lavoro è lo slogan con cui iniziamo i nostri volantini, parliamo di Electrolux ma potremmo citare anche la Thyssen, o l'ultimo grave episodio di Milano.
Quest'anno per la prima volta l'azienda si è "dimenticata" di ricordare l'incidente e non ha dedicato il 12 novembre alla prevenzione degli infortuni come accadeva negli anni scorsi. E' un grave segno dei tempi, un'adattarsi alla superficialità e all'indifferenza finora manifestata da alcuni sindacati presenti in stabilimento. Noi non possiamo delegare al nostro presidente della Repubblica il compito di indignarsi dopo ogni grave infortunio, tutti noi di sinistra dovremmo manifestare la nostra rabbia di fronte a morti e feriti che possono essere evitati con la prevenzione, con un po' di attenzione e con il rispetto delle regole. Esiste una legge fatta da noi e definita "Testo unico" che ha il compito di tutelare lavoratrici e lavoratori, difendiamola gelosamente contro gli attacchi di un governo che considera merce di poco valore la vita dei lavoratori! Con la fotografia che vi ho fatto è evidente che siamo fuori gioco rispetto a stabilimenti più moderni, e lavoratori meno pagati e più giovani. Presto proveranno ad imporre anche a noi la legge Marchionne, secondo la quale in cambio di false promesse si deve rinunciare ai diritti conquistati con tanti anni di lotte. La cosa certa è che solo nel nostro stabilimento in vent'anni si sono persi circa un migliaio di posti di lavoro. Vivo e lavoro in Veneto, regione notoriamente leghista, dove ancora non ci si rende conto di quanto è profonda la crisi, dove l'apparenza è importante quindi si fa finta di essere ricchi anche a costo di essere calpestati, dove si parla molto dei programmi delle tv e mai di politica. Dove si pensa che i nostri concittadini Sacconi e Zaia risolveranno i nostri problemi. Bisogna scuotere le menti, dare un'informazione diversa da quella attualmente presente. Spiegare che quel Sacconi lì è lo stesso che vuole cambiare lo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici modificando radicalmente l'obbiettivo della legge 300. [...]
*operaia all'Electrolux di Susegana, stralci dell'intervento al congresso della Federazione della Sinistra

Liberazione 21/11/2010, pag 5

"Le multinazionali del mare", ovvero l'assalto ai porti

Matteo Gaddi
Con "Le multinazionali del mare" Sergio Bologna raccoglie una serie di scritti sul sistema portuale e le sue trasformazioni: dall'introduzione del container alla privatizzazione dei porti, dall'ingresso di operatori mondiali alla trasformazione dell'organizzazione del lavoro. Si tratta di un testo pubblicato da Egea, la casa editrice dell'Università Bocconi e che, presumibilmente, per l'elevato valore scientifico, verrà assunto in ambito accademico.
Parlare di porti e di logistica per Sergio Bologna non si tratta certo di un interesse improvviso: nel 1998 partecipò come esperto alla Commissione impegnata nella stesura del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica su impulso del Governo Prodi.
E prima ancora, anzi, molto tempo prima, sulla rivista "Primo Maggio", oltre trent'anni fa, vennero pubblicati i primi studi sui lavoratori e sui sistemi dei trasporti e della logistica.
Ed è proprio il container, o meglio la containerizzazione dei trasporti, uno dei temi ripresi da Bologna, nel descrivere la vera e propria rivoluzione intermodale seguita all'introduzione di questa unità di carico standard, giustamente definita come una sorta di "magazzino viaggiante", in grado di ridurre le rotture di carico e con un fortissimo segno di classe: il container, infatti, era in grado di ridurre l'impiego di forza lavoro e di far saltare quei passaggi della catena logistica più vulnerabili rispetto ad una possibile azione sindacale.
Il porto, infatti, è un nodo fondamentale di una lunga catena logistica rispetto alla quale diventa sempre più difficile tracciare un confine territoriale all'interno del quale misurarne gli effetti e i cambiamenti sul piano occupazionale: il perimetro portuale si allunga all'infinito.
Dalla containerizzazione deriva la moderna portualità intermodale caratterizzata anche dal gigantismo navale che a sua volta modifica le dimensioni dei porti e delle loro principali strutture e macchine (come le gru).
Ma soprattutto il container cerca di trasformare il ciclo portuale in un ciclo industriale: l'introduzione di una unità di carico standard consente di migliorare la produttività di un terminal container attraverso la programmazione delle operazioni di sbarco imbarco dalla nave e delle operazioni interne al terminal, dalla banchine alle aree di stoccaggio fino al retro porto.
Per ogni programmazione efficace, risulta necessaria una ottimale trattazione delle informazioni (in questo caso sugli arrivi e le partenze delle navi, sulle quantità ecc.), da qui l'introduzione dell'informatica il cui corretto funzionamento è ormai diventato un elemento decisivo per la funzionalità di un porto: a Genova Voltri, nel 2007 il fatto che sia entrato in tilt il sistema informatico ha portato alla paralisi del traffico di tutti terminal dell'Alto Tirreno.
Ma nonostante la standardizzazione delle unità di carico, la meccanizzazione e l'automazione di molte operazioni portuali prima svolte manualmente, la programmazione e l'introduzione dell'informatica, un terminal container può essere considerato una catena di montaggio?
La risposta di Bologna è no; nonostante per certi versi gli elementi di rigidità siano maggiore rispetto a quelli di una fabbrica. Un terminal container, infatti, non potrà mai funzionare come una catena di montaggio in termini di prevedibilità e ripetitività: troppe sono le incognite e troppi gli elementi, presenti o possibili, negli spazi di banchina, nei piazzali di deposito, nelle porte di ingresso e uscita dal terminal e persino nel terminal ferroviario, in grado di far saltare flussi e operazioni programmati e pianificati.
Nei traffici containerizzati è ormai in fase di superamento la distinzione tra le due principali categorie di attori: il carrier, quello che trasporta la merce da porto a porto, e lo stevedore, quello che scarica e carica la merce nei porti.
Frutto anche della privatizzazione che ha portato imprenditori a realizzare investimenti sul ciclo produttivo del carico, scarico, stoccaggio e trasferimento della merce e che hanno messo le mani sui terminal portuali.
Sono in particolare le multinazionali che da semplici carrier sono diventati anche operatori terminalisti sia per ottenere maggiore redditività sia per avere una maggiore flessibilità rispetto ai possibili ritardi di una nave che, se attesa in un terminal gestito da un diverso operatore, potrebbe incorrere in penali e altri obblighi contrattuali. Ma anche per il fatto che il carrier che dispone anche di una rete di terminal dispone del potere di condizionare, in questo modo, la capacità di penetrazione sui mercati dei suoi concorrenti. E infatti, le tre compagnie che oggi si contendono l'egemonia sono Maersk, Cma-Cgm e Msc, cioè quelle hanno investito maggiormente ed in più aree geografiche nel controllo di terminal.
I Global Terminal Operator operano in più aree del pianeta; ma la loro nascita ed espansione mondiale ha avuto origine da un "porto capitale": Hong Kong per Hutchinson, Singapore per Psa, Amburgo per Eurogate. Sono questi gruppi (i cosiddetti Cgto) che controllano le maggiori percentuali di traffici e che, nei Paesi con meno conoscenze specialistiche (vedi Africa), ma non solo, sono ormai in grado di dettare le decisioni principali che riguardano porti e logistica in generale.
La privatizzazione dei porti ha generato, da una parte, un afflusso di capitali senza precedenti in un settore da sempre pubblico suscitando l'interesse di grandi investitori istituzionali come Goldman Sachs, Morgan Stanley ecc.; dall'altra ha modificato alla radice le regole del lavoro portuale.
In Inghilterra la principale giustificazione alla privatizzazione dei porti fu proprio l'esigenza di cambiare radicalmente l'organizzazione del lavoro: i Dockers di Liverpool opponendosi al Governo conservatore cercavano di difendere il loro potere contrattuale e le tradizionali regole di organizzazione del lavoro. Ma la privatizzazione non è mai filata liscia; anzi si è sempre scontrata sia con dure lotte, condotte non solo da lavoratori portuali ma anche dalle Autorità Portuali e dalle città sede di porto; sia con limiti oggettivi rappresentati dal fatto che creare un porto moderno (comprensivo, quindi, di servizi logistici) è impossibile senza i poteri e le risorse di uno Stato: non a caso i due principali Global Operator sono due società statali come Psa e Dpw.
In Italia è la legge 84 del 1994 a portare in Italia i primi terminalisti privati (con l'eccezione del già presente Ravano) e ad in infliggere un duro colpo alle Compagnie Portuali: oltre alla riduzione di 20mila lavoratori, le Compagnie o sparirono, o si trasformarono in terminalisti o in pool di manodopera per la fornitura di lavoro temporaneo. Solo la Compagnia genovese, con dure lotte, riuscì a contrattare un destino diverso, seppur in un quadro di una sua trasformazione in impresa e di drastica modifica dei livelli occupazionali e delle tutele sociali per i dipendenti. Come scrive Sergio Bologna, la «cosiddetta flessibilizzazione della forza lavoro cancellò in poco tempo le prerogative che i dockers si erano conquistati nel Novecento».
La loro storia, quindi, è la storia di una sconfitta? Forse una rinnovata capacità di lotta e di organizzazione di questo centrale segmento di classe potrà invertire una tendenza non certo favorevole.

Liberazione 18/11/2010, pag 16

Pagano sempre i lavoratori

Paolo Hlacia
Prima di cominciare è necessario procurarsi una carta geografica, anzi più di una. Una mondiale, avendo l'accortezza di trovarne una che non sia eurocentrica e quindi abbia al centro o il continente americano o la Cina. Questo ci farà bene alla mente (uno dei preziosi insegnamenti lasciatici da Oscar Marchisio). La seconda carta dovrebbe essere europea, ma visto che parliamo di porti e di mari deve rappresentare dal Mediterraneo al Mare del Nord, dai porti del Nord Africa a quelli del Nord Europa. Terza e ultima, una carta dell'Italia. A questo punto andrebbero appoggiati sulla cartina dei mattoncini Lego a rappresentare le tonnellate di merci che vengono movimentate in ogni scalo per visualizzare la distribuzione dei traffici. I porti vanno classificati anche secondo la profondità dei fondali, che determina il tipo di navi che possono attraccare e scaricare le merci. Ci sono quindi dei porti come quello di Gioia Tauro, definiti "hub", dove le merci vengono spostate su navi più piccole che poi servono gli altri scali, definiti "gate" - porti cancello. Questa operazione in inglese è denominata "transhipment" ed è una delle operazioni di un porto che va aggiunta a quelle più tradizionali di scarico container e merci varie con successiva spedizione via gomma o via ferro.
Dopo il grande sviluppo del container i porti hanno cambiato aspetto: grandi piazzali al posto dei magazzini. Se vi capita di vedere la foto di un porto con i piazzali vuoti può essere che riesce a smaltire rapidamente le merci scaricate.
Per classificare un porto non bastano quindi fondali profondi, gru e banchine per scaricare rapidamente le navi, ma servono i collegamenti verso la terraferma.
Le previsioni di aumento esponenziale dei traffici hanno subito una clamorosa battuta d'arresto con la crisi. Gli esperti prevedono che per ritornare ai volumi di traffico merci del 2008 bisognerà aspettare il 2014, ma chi lo assicura? E' vero che nella crisi i primi a pagare sono stati i lavoratori portuali, anche se il costo del lavoro ha una incidenza minima sui costi complessivi e sulle tariffe.
I portuali stanno pagando la crisi in termini di salario, di posti di lavoro, di aumento dei ritmi per chi lavora, di conseguente minor sicurezza e gli incidenti sono nella maggior parte dei casi gravi e mortali. Chiamare portuali questi lavoratori risulta ormai una definizione generica. Se prendiamo come riferimento la legge 84 del 1994 possiamo già distinguere: i dipendenti dei terminalisti (art.18), i soci delle Compagnie Portuali (art. 17), i dipendenti di altre cooperative e consorzi (art.16). Dopo che alle compagnie è stata tolta la riserva (esclusiva) sulle operazioni portuali di sbarco imbarco, le compagnie si sono trasformate in imprese di lavoro; in alcuni scali c'è stata una ulteriore e definitiva privatizzazione (modificazione genetica) con l'ingresso diretto dei terminalisti che hanno acquistato quote delle cooperative che operano con l'autorizzazione art.17.
L'applicazione di questa legge dell'94 ha avuto storie diverse porto per porto, vi basti solo l'esempio di Genova dove l'anno scorso a seguito di un dibattito cittadino acceso, con manifestazioni dei portuali della Compagnia ricche di tensione, è stata trovata una ulteriore mediazione su questo tema. In altri porti le formule sono state diverse e, scendendo la penisola, il dibattito si sposta dall'applicazione della legge 84 ad altre problematiche che rendono ancora più evidente la precarietà della situazione e lo sfruttamento esistente. Lo schema con cui possiamo riassumere la tendenza generale delle iniziative dei terminalisti così come la direzione dell'ultimo intervento del Governo sulla riforma dei porti, è quello di una parcellizzazione del lavoro, della divisione della forza lavoro in una miriade di figure diverse, magari cercando di utilizzare gli uni contro gli altri. In direzione diametralmente opposta troviamo l'obiettivo sindacale di un contratto unico per tutti i lavoratori nei porti. Un obiettivo generale indicato forse ormai da troppi anni e molte volte contraddetto nelle pratiche locali. A questo proposito si possono citare sovrapposizioni tra Compagnie Portuali e sindacato in altri anni, oppure le critiche al sindacato per lo scarso impegno nella mobilitazione europea contro la riforma De Palacio che introduceva l'"autoproduzione" (la possibilità di impiegare gli equipaggi delle navi nelle operazioni di carico e scarico). In questi anni ci sono state diverse lotte negli scali della penisola che hanno riguardato i problemi legati alla sicurezza sul lavoro, le questioni salariali e l'organizzazione del lavoro con la messa in discussione di ritmi e produttività richiesta (vedi Gioia Tauro).
Ecco alcuni spunti che andranno approfonditi e soprattutto verificati nelle mobilitazioni e nei territori. 1) Sulle carte geografiche che ci siamo procurati vanno segnati i retroporti esistenti e quelli in progetto, le interazioni con i progetti di Alta Velocità e Alta Capacità, i cosiddetti corridoi transeuropei, perché tutte queste opere hanno un impatto notevole sui territori che va attentamente valutato. A Vado Ligure c'è stato un referendum che ha visto prevalere i "No" al progetto di una piattaforma logistica. 2) Lo stesso ricatto delle delocalizzazioni messo in atto nell'industria è una prassi quotidiana nei traffici marittimi. La delocalizzazione di uno stabilimento Fiat prevede investimenti e spostamenti di macchinari e costruzioni di strutture fisse. Nel caso del trasporto marittimo la delocalizzazione si realizza ogni volta che la nave "cambia rotta". 3) Il lavoro all'interno dei porti non può essere definito solamente come lavoro dei portuali, va seguita tutta la logistica o meglio tutti i lavoratori che hanno a che fare con le merci trasportate.

Liberazione 18/11/2010, pag 13

Tessile di Biella, la crisi è solo per gli operai

Pettinatura Verrone, 30 licenziamenti ma megastipendi per i manager. Sciopero della fame di un delegato Cgil

Maurizio Pagliassotti
Biella
Chi riceverà domani mattina la lettera di licenziamento? Qualcuno lo sa già, altri lo sospettano, tutti sperano di sfangarla. La vicenda della Pettinatura Verrone, storica azienda del settore tessile biellese, racconta il capitalismo che piange per la crisi e come unica soluzione propone il bastone per i suoi lavoratori. Ma racconta anche l'Italia che non si piega, o quantomeno ci prova.
La storia della Pettinatura è semplice e uguale a tante. A Verrone, come in tutta Italia, le frasi che giustificano i licenziamenti sono sempre le stesse: "C'è la crisi, è necessario ridurre il personale, la colpa è dei cinesi, dei rumeni, del mercato, del destino. Ci dispiace tanto signori operai ma non c'è spazio per nessuna trattativa, non c'è spazio per nuovi ammortizzatori sociali, lo spazio c'è solo per la mobilità per trenta persone su novanta. E non importa che ci siano gli ammortizzatori sociali in deroga oppure un accordo di solidarietà tra i lavoratori. Tutto dipende dal calo degli ordini di lavoro, non è colpa nostra".
Strana situazione a Biella: un minimo di ripresa c'è nel settore tessile biellese, gli ordinativi non stanno più naufragando come qualche mese fa, però le ore di cassa integrazione aumentano. «E' facile da spiegare: stanno spremendo i lavoratori che non sono in cassa integrazione o mobilità», commenta Romana Peghini dei tessili Cgil. E, infatti, chi esce dal capannone della Pettinatura Verrone non fa che confermare le corse da un reparto all'altro, testa bassa e gran lavoro: un po' per dovere, un po' per paura.
Nel parcheggio semivuoto antistante al capannone nuovo, sotto un diluvio tristissimo, va in scena la protesta di chi non ci sta. Un operaio si scaglia contro i megastipendi dei manager fatti sulle spalle di chi guadagna seicento euro al mese. Dice: «Non serve a nulla raccontare solo la crisi della fabbrica. E' necessario indagarne anche le cause. Io so che anche adesso c'è chi guadagna megastipendi e i poveri operai non arrivano alla fine del mese. Questa è anche una delle cause della crisi di questa fabbrica ed in generale dell'economia italiana».
Chi davvero ha deciso di mettere tutto in campo si chiama Sergio D'Antino. Lavora alla Pettinatura Verrone da venticinque anni, ha due figli, è un militante di Rifondazione Comunista presso il Circolo Che Guevara di Candelo ed è un delegato sindacale Cgil. Lui ha deciso di presidiare la fabbrica da solo e contemporaneamente ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza. Si è piazzato con la sua utilitaria tappezzata di cartelli e fiocchi rossi davanti al portone d'entrata domenica sera e lì soggiorna. Questa notte, sotto il diluvio universale e sei gradi centigradi sei, in pancia un po' d'acqua e basta, lui vivrà "l'Italia che non si piega". Il mattino del primo giorno di sciopero è stato avvertito che per ragioni di sicurezza - non mangia ed è debilitato - anche lui era in cassa integrazione.
Al quarto giorno di astensione dal cibo Sergio D'Antino è stanco ma ancora ben deciso ad andare avanti, racconta: «Ho deciso di dare tutto perché la posta in gioco è troppo grande. Qui non stiamo parlando di ridimensionamenti produttivi. Qui è in gioco il futuro di tutta la fabbrica perché se non blocchiamo questo processo di smantellamento alla fine tutto sarà chiuso».
Dargli torto è davvero difficile. La deindustrializzazione in corso nel Biellese è inesorabile e coinvolge tutto il settore tessile, travolto dalla concorrenza cinese e dalla sua stessa foga di delocalizzazione. Al posto delle fabbriche, centri commerciali e nuove strade verso Torino. Continua Sergio: «Ho incontrato grande solidarietà da parte dei colleghi. Mio figlio mi ha detto che sono un pazzo e che non vale la pena rovinarsi la salute per il lavoro. Ma non è solo una questione di lavoro: è una questione di valori e principi e io non posso restare a guardare. Chiedo che si prenda tempo, che si tentino tutte le strade degli ammortizzatori sociali straordinari e anche i contratti di solidarietà».
Sergio D'Antino ripercorre la strada che fu di Rosanna, operaia Stabilus di Villarperosa, accampatasi per un mese fuori dalla sua fabbrica in sciopero della fame. Lei perse perché lasciata sola da troppi colleghi, da troppi sindacalisti e da troppi politici. La notte i carabinieri passavano a vedere se era viva o morta e le portavano qualcosa di caldo. Oggi i colleghi che la incontrano le dicono: "Che errore non averti sostenuto".
Renato Nuzzo, anch'egli militante di Rifondazione e amico di Sergio D'Antino sta tentando di creare un po' di mobilitazione: «La situazione di questo territorio è drammatica, non ci sono prospettive e ogni fabbrica in bilico è diventata una trincea da difendere. Il gesto estremo di Sergio dimostra che il partito ha la forza di tornare in mezzo alla gente lottando, ma per fare questo è necessario uno sforzo comune da parte di tutti. Invito coloro che si riconoscono nei nostri valori a far pervenire a Sergio ed ai suoi colleghi supporto morale e non solo».

Liberazione 19/11/2010, pag 6

Brescia, espulsi i due "fermati" sotto la gru

I due egiziani erano presenti al presidio di solidarietà

Francesca Mantovani*
Brescia
E' stato espulso ieri pomeriggio dall'Italia Muhammad al-Haja, per tutti Mimmo, il migrante egiziano deportato lunedì scorso da Brescia nel Centro di Identificazione di via Corelli a Milano. Assieme a lui anche Muhammad Shaaban, 20enne. Lunedì, nella giornata clou della lotta sopra e sotto la gru contro la sanatoria truffa del 2009, Mimmo - il 28enne leader della combattiva comunità egiziana bresciana - era partito con una compagna italiana dell'associazione "Diritti per Tutti" alla volta di Milano. In tasca, una regolare ricevuta del Ministero dell'Interno che attestava la sua avvenuta richiesta di sanatoria. Un gesto di generosità, quel viaggio, per Mimmo, da otto anni in Italia come operaio metalmeccanico e tecnico informatico in nero: nelle convulse ore che avevano preceduto la discesa dei quattro migranti, le istituzioni italiane avevano infatti messo su un aereo diretto a Il Cairo altri nove egiziani bresciani bloccati la settimana precedente all'interno dell'oratorio di San Faustino durante il blitz diventato famoso, a livello mediatico, per lo show verbale e fisico del vicequestore Emanuele Ricifari. Per cercare di bloccare la deportazione, Mimmo si era offerto di fare il traduttore con il Consolato Egiziano e il mediatore con le istituzioni italiane. Nel viaggio fra il Consolato e la Prefettura, fatto in compagnia di due deputati dell'Italia dei Valori, Francesco Barbato e Giuliana Carlino, la polizia aveva fermato tutti e quattro per presunti "controlli". «Evidentemente - dicono gli attivisti bresciani, da ieri sera nuovamente in presidio permanente in via San Faustino - Mimmo era seguito fin dalla partenza. Il suo ruolo carismatico faceva paura a Maroni e allo stato maggiore della Lega Nord: non a caso c'è il suo volto sui manifesti diffamatori che il Carroccio bresciano sta facendo attacchinare in queste ore sui muri della città di Brescia». Che non si tratti di un'azione preordinata si fa davvero fatica a crederlo: dopo mesi di silenzi e ritardi, lo Stato ha pensato infatti bene di comunicare a Mimmo il rigetto della richiesta di sanatoria proprio quel pomeriggio, nell'ufficio Stranieri della Questura. Niente permesso per lui, troppo scomodo. E allora via, direttamente nel Centro di Identificazione di via Corelli, dove gli avvocati Pietro Massarotto del Naga e Sergio Pezzucchi di "Diritti per Tutti" lo rintracciano solo ore dopo. E' messo in isolamento, Mimmo, non può comunicare con nessuno. I legali annunciano allora un duplice ricorso straordinario: il primo al Tar contro il rigetto in sé, avvenuto solamente perché a metà del percorso di sanatoria (marzo 2010) la clandestinità venne resa reato dalla mai abbastanza stigmatizzata legge Bossi - Fini. Il secondo, invece, più generale, alla Commissione Europea per i Diritti Umani «perché - dice Umberto Gobbi, del presidio solidale di via San Faustino - la sua espulsione è avvenuta con tempi irritualmente veloci e senza i tempi materiali per dare corso ai ricorsi». Prima ancora di poter consegnare la richiesta legale, infatti, Mimmo è stato cacciato in fretta e furia su un aereo e rispedito a Il Cairo. A nulla è valsa la straordinaria mobilitazione dei compagni di Brescia, degli antirazzisti milanesi e del centro sociale Cantiere che con un preavviso di un'ora scarsa si sono precipitati prima a Malpensa per occupare gli uffici della Egypt Air e poi nel capoluogo meneghino per un presidio fuori dalla sede della compagnia aerea.
La notizia della sua espulsione è un segnale chiaro, per migranti e antirazzisti bresciani, da giorni nel mirino degli strali dei mass media locali e dei poteri forti che da sempre li governano: la campagna di stampa contro "i cattivi maestri" e le minacce contro gli immigrati più in vista nella lotta fanno parte dello stesso progetto repressivo su scala nazionale. Non a caso, il primo ad applaudire alle deportazioni è stato il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, che ha auspicato trattamenti analoghi anche per chi da giorni lotta sulla torre di via Imbonati. A stretto giro di posta è arrivata la risposta del coordinatore meneghino del Prc, Luciano Muhlbauer: «A De Corato piace giocare alla guerra, specie sulla pelle degli altri, ma qui occorre partire dalla consapevolezza che il problema sollevato dalle proteste di Brescia e Milano è reale e coinvolge migliaia di lavoratori immigrati. Non esistono soluzioni militari a un problema di equità e giustizia».
*redattrice Radio Onda d'Urto

Liberazione 19/11/2010, pag 6

Assemblea dei delegati Fiat, la Fiom contrattacca: «Sciopero entro gennaio»

Roberto Farneti
Entro gennaio tutti i lavoratori del gruppo Fiat saranno chiamati dalla Fiom a una giornata di mobilitazione con sciopero annesso. Dopo l'accordo "straccia diritti" imposto a Pomigliano d'Arco, la delocalizzazione in Serbia del modello assegnato per Mirafiori e il sempre più evidente spostamento della testa del gruppo negli Stati Uniti, le tute blu Cgil passano al contrattacco. «E' Marchionne che deve smetterla di tirare sberle ai lavoratori, non il contrario», spiega Giorgio Airaudo ai delegati Fiom del gruppo Fiat riuniti in assemblea ieri a Roma. La data dello sciopero sarà individuata dal coordinamento aziendale. I metalmeccanici potranno contare sull'appoggio della Cgil, presente all'assemblea con il suo massimo esponente, Susanna Camusso: «Come si fa a non condividere una giornata di mobilitazione?», osserva la neosegretaria generale, che giudica in modo molto severo i disperati tentativi di Marchionne di aggirare leggi e contratti pur di bypassare la presenza Fiom nelle fabbriche, compresa la recente minaccia dell'ad di costituire tante Newco. Secondo Camusso però «la risposta migliore è quella di dimostrare che siamo il sindacato che ha nella contrattazione il suo strumento principale e che i risultati di quella contrattazione riesce a valorizzare». Da qui l'invito, rivolto alla Fiom, a sedersi a tutti i tavoli disponibili, «un grande esercizio di responsabilità» ma anche «l'unica risposta alla propaganda stucchevole di questi mesi». Una sollecitazione che sfonda una porta aperta. Camusso sa bene che a Pomigliano non c'è stato nessun confronto ma un "prendere o lasciare". E che questo è il normale modo di intendere le relazioni sindacali da parte della Fiat, come dimostra la disdetta unilaterale a Melfi dell'accordo su tempi e organizzazione del lavoro ma anche la vicenda di Mirafiori. «E' da mesi che noi siamo pronti al confronto, lo eravamo anche prima che si decidesse di spostare il monovolume in Serbia. Siamo pronti anche a stare nei tempi auspicati da Marchionne, ma a condizione che ci sia la possibilità di discutere con i lavoratori», ribatte Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese.
La propaganda della Fiat è smentita anche da altri dati. Gli operai italiani lavorano poco? Non sembrerebbe se è vero, come afferma la Fiom, che a Mirafiori, su circa 5.500 lavoratori, circa 1.500 si sono già visti riconoscere «ridotte capacità lavorative». Ancora più grave la situazione nel sito di Melfi, dove la stessa "prognosi" è stata emessa per circa 2.200 addetti su 5.500. «Ridurre i tempi delle pause o mettere la mensa a fine turno è contro la salute dei lavoratori e Fiat deve elaborare nuove forme di lavoro rispettose dei loro diritti», spiega il leader della Fiom, Maurizio Landini. L'assemblea dei delegati ha anche approvato un ordine del giorno nel quale definisce «inaccettabile» il tentativo della direzione dello stabilimento Fiat di Termoli di «impedire alle lavoratrici che usufruiscono dei permessi di riposo "per allattamento" (due ore al giorno) di poter godere del diritto alla mezz'ora di mensa retribuita».

Liberazione 19/11/2010, pag 6

«Yamaha truccò il bilancio per poterci licenziare»

A un anno dalla vertenza, i lavoratori in cig rifanno i conti. E scoprono l'inganno

Matteo Gaddi
Un anno fa salirono sul tetto del loro stabilimento per ottenere la cassa integrazione al posto del licenziamento in tronco, adesso sono tornati a presidiare l'azienda per avere risposte chiare sulle ragioni per cui l'azienda prese quella decisione.
Sono i lavoratori della Yamaha Italia di Lesmo, in piena Brianza, che tornano a far sentire la loro voce dopo aver analizzato il bilancio della loro azienda e aver trovato cifre quantomeno curiose.
«La Yamaha un anno fa avviò nei nostri confronti la procedura di licenziamento sulla base dei risultati di bilancio che definirono come disastrosi: adesso il bilancio, finalmente, lo abbiamo avuto e studiato. Ci devono spiegare parecchie cose».
Nello stabilimento Yamaha di Lesmo si assemblava il motore Tenerè; ma la decisone della multinazionale giapponese fu quella di smantellare il reparto produttivo trasferendolo nell'impianto di Barcellona, in Spagna.
La Yamaha sembrò non lasciare spazio alcuno alla trattativa: nel dicembre 2009 convocò i rappresentanti sindacali comunicando l'intenzione di procedere immediatamente con il licenziamento di 66 lavoratori, di cui i 47 operai addetti all'assemblaggio del Tenerè. «Capite ? Allora l'unico obiettivo per noi credibile era quello di batterci per evitare il licenziamento e ottenere almeno l'ammortizzatore sociale - spiegano i lavoratori in presidio - può sembrare paradossale, ma salimmo sul tetto tra la neve e il ghiaccio di dicembre solo per la cassa integrazione…».
La Cassa Integrazione venne ritenuta, unanimemente, dai lavoratori Yamaha come l'unico obiettivo perseguibile alla luce del lapidario giudizio espresso dalla dirigenza aziendale sui risultati di bilancio ("disastrosi") che non consentivano il mantenimento del sito industriale.
«E noi siamo andati a vedere se erano davvero "disastrosi" quei risultati. Ci teniamo a dirlo, questo lavoro lo abbiamo fatto noi operai metalmeccanici che, in cassa integrazione, ci siamo messi a studiare le leggi di contabilità aziendale per capire dove stavano le fregature…».
E, se non proprio una fregatura, quantomeno una voce "curiosa" nel bilancio è stata trovata.
Per comprenderne la portata, pesantissima sul piano sociale, bisogna confrontare i risultati del 2008 con quelli del 2009. Nel 2008 il bilancio di Yamaha Italia chiude con un utile di 7,8 milioni di euro.
Nel 2009, invece, il bilancio chiude in rosso con un passivo di 6,7 milioni di euro. Ma se si vanno a studiare le singole voci ci si rende conto che il risultato del 2009 viene pesantemente condizionato da una posta straordinaria: 9,6 milioni di euro di accantonamenti per oneri straordinari che mandano i conti in rosso. Altrimenti, anche l'esercizio 2009 avrebbe chiuso in attivo con oltre 3 milioni di utile. Il risultato, quindi, non sarebbe stato disastroso e la decisione di smantellare la produzione del Tenerè sarebbe rimasta priva di qualsiasi giustificazione.
E cosa sono questi "oneri straordinari" tali da giustificare l'inserimento in bilancio di una cifra così ingente ?
L'aspetto rilevante di questa cifra è dato dal fatto che oltre 7 milioni di euro sono riferiti all'inserimento "prudenziale" di accantonamenti per oneri e rischi legali riferiti a tre voci: oneri per ripristino del sito e per gli aspetti di gestione dell'accordo con le rappresentanze dei lavoratori.
A questo punto sorgono le domande: "Cosa si intende per ripristino del sito? Qui hanno stabilito di smantellare la produzione, l'unico intervento fatto riguarda lo spostamento di alcune scaffalature…».
Ma sono soprattutto gli oneri relativi alla gestione dell'Accordo sul personale a finire nel mirino dei lavoratori: «Nel Bilancio si parla di incentivi all'esodo, di accompagnamento alla pensione e di interventi di ricollocazione attraverso una agenzia di outplacement. Noi abbiamo fatto i conti su quante risorse economiche per l'azienda avrebbe comportato l'attuazione dell'accordo e abbiamo quantificato il totale».
I lavoratori scorrono voce per voce dell'accordo per quantificarne il costo: gli incentivi all'esodo, per i 47 operai e i 19 addetti del commerciale ammontano a 701mila euro, a cui si aggiungono 34mila euro di intervento di outplacement. Zero euro, ovviamente, per gli interventi di prepensionamento in quanto nessuno può maturare i requisiti. Costo totale dell'accordo: euro 735mila, cioè dieci volte meno di quanto indicato nel Bilancio da Yamaha. Una cifra a dir poco sproporzionata, priva di giustificazioni ma utile per mandare in rosso il bilancio e a motivare il licenziamento di 66 persone.
«Chi ha visto questo bilancio ci ha detto che o siamo in 10mila dipendenti o che a testa portiamo a casa 200mila euro», riferiscono con sarcasmo i lavoratori.
La loro lotta comincia a sortire qualche risultato: «Per venerdì 19 siamo stati convocati presso la sede dell'associazione industriale di Monza dove, da parte dell'azienda, ci attendiamo risposte».
I lavoratori tolgono "prudenzialmente" il presidio, pronti a rimetterlo in piedi se non arriveranno risposte convincenti.

Liberazione 18/11/2010, pag 6

Massa, lavoratori Eaton picchiati dalla polizia

Dal 15 dicembre i 304 lavoratori della Eaton, da due anni in cassa integrazione, rischiano di finire in mezzo alla strada. Esasperati dall'atteggiamento intransigente dell'azienda - che non solo rifiuta senza giustificato motivo di esaminare le tre proposte di reindustrializzazione fin qui pervenute, ma si oppone anche alla proroga degli ammortizzatori sociali - ieri sono scesi in piazza tentando di occupare simbolicamente e pacificamente il casello autostradale di Massa, sulla A/12. Per tutta risposta sono stati caricati con violenza dalle forze dell'ordine e due rappresentanti sindacali sono rimasti feriti. Episodio «gravissimo», accusa una nota congiunta della segreteria regionale Prc e del Gruppo"Federazione della Sinistra - Verdi" in Regione.

Liberazione 18/11/2010, pag 6

giovedì 18 novembre 2010

Brescia, mobilitata Emergency. Sulla gru rimasti in quattro

Fervono i tentativi di fiaccare la protesta. Oggi manifestazione a Bologna, domani assemblea a Milano

Stefano Galieni
Papa, il ragazzo senegalese è sceso dalla gru di Brescia. La sua pratica di sanatoria non è stata ancora ufficialmente rigettata e quindi si è convinto a scendere, avendo come garanzia il fatto che per ora non verrà arrestato o espulso in quanto clandestino; sicuramente verrà portato in giudizio per manifestazione non autorizzata. Ora a 35 metri di altezza sono rimasti in quattro, quelli che hanno dimostrato di essere disposti anche a gesti estremi se non vedranno un permesso di soggiorno.
L'altro ieri le loro voci hanno avuto una ribalta nazionale ad "AnnoZero", in milioni hanno potuto vedere e sentire la dignità e l'orgoglio di chi vuole solo costruirsi un progetto positivo di vita. Si sono sentite le voci dei ragazzi sulla gru, quelle dei tanti che li sostengono da sotto, migranti e antirazzisti, la tv ha mostrato le immagini inqualificabili della carica a freddo contro i manifestanti condotta lunedì scorso, la solerzia questurina con cui si ordinava di picchiare, i discorsi agghiaccianti del vicesindaco che considera questi lavoratori spazzatura o poco più.
Spenti i riflettori si vanno intensificando i tentativi di fiaccare la protesta. C'è una zona, sotto la gru, totalmente militarizzata, in posizione opposta rispetto al presidio dove pare stiano avvenendo i tentativi di frantumare il fronte. I funzionari di polizia fanno entrare mediatori, sedicenti parenti dei ragazzi sulla gru, faccendieri di vario tipo e natura. Secondo un giornale locale sarebbero giunti direttamente dal ministero dell'Interno alcuni funzionari, pomposamente ribattezzati "task force", incaricati di intervenire «puntando sull'intelligenza emotiva di chi è sulla gru». E si fanno strada le prime ricostruzioni: Singh, il ragazzo indiano che è sceso per primo anche perché febbricitante, sarebbe stato convinto da un faccendiere, un compatriota proprietario di una agenzia privata che gestisce le pratiche per le documentazioni da presentare all'ambasciata indiana in cambio di promesse non meglio precisate. Fatto sta che Singh si è ritrovato ieri in una conferenza stampa con il redivivo questore - che finora era rimasto ai margini della vicenda - e con il suddetto faccendiere. Poche parole in punjabi (Singh non parla italiano), dette a testa bassa, tradotte dal suo compatriota: il ragazzo avrebbe invitato gli altri a desistere e si sarebbe dichiarato pentito di aver violato la legge.
Anche la storia di Papa lascia perplessi: sarebbe stato convinto dai genitori, accorsi sempre per la stessa via sotto la gru. Ma a molti risulta che i genitori di Papa vivano in Senegal. Fatto sta che il personale della questura ha impedito ai partecipanti al presidio di interloquire con questi presunti genitori. Ieri poi è toccato a Rachid, marocchino. A tentare di convincerlo un rappresentante del consolato del suo paese e una mediatrice culturale proveniente da Lecco, ma Rachid ha deciso di restare con gli altri.
Un'altra notte passa e il freddo aumenta. La polizia non permette di far arrivare ai lavoratori sulla gru le batterie di ricambio per i telefonini, impedendo così la comunicazione con l'esterno, dal presidio si è chiesto un intervento di Emergency per poter monitorare le condizioni di salute dei ragazzi e lo stesso Gino Strada si è assunto l'impegno di contattare la prefettura. Ma chi coordina le operazioni, il vice questore Emanuele Ricifari, difeso ad oltranza da questore e prefetto nonostante le gravi responsabilità dimostrate nella gestione della piazza, pare abbia negato questa assistenza: «Chi sta male scende e verrà visitato», avrebbe risposto, assumendosi l'ennesima responsabilità di far alzare la tensione.
Ieri a Brescia si è tenuto un happening teatrale per sostenere il presidio, oggi ci sarà musica dal vivo. Nel frattempo il Circolo di Rifondazione Comunista di Porta Pile, sede anche dell'Anpi, ha messo in piedi una mensa popolare. Vengono serviti pasti caldi a pranzo e a cena, per coloro che sostengono il presidio. A dimostrazione di quanto anche la parte sana della città stia reagendo va segnalato l'impegno di alcuni docenti e ricercatori universitari, quello di una quarantina di commercianti che stanno portando cibo e vestiario. Ma oggi l'attenzione si sposta su Bologna dove alle 14 partirà una manifestazione regionale contro la sanatoria truffa e domenica c'è attesa per quanto si deciderà all'assemblea antirazzista convocata a Milano sotto la torre di via Imbonati. Le mobilitazioni sembrano destinate a crescere. Nel frattempo a Roma, con il pretesto di una operazione antidroga, sono stati sgomberati i rifugiati somali che da anni dormivano nella propria ambasciata ormai chiusa. Resteranno all'addiaccio: «Una operazione inutile - commenta Claudio Graziano dell'Arci - Sono ragazzi per cui va trovata una soluzione umanitaria e che non hanno un paese in cui tornare. In questo modo si scoraggiano soluzioni e si aumentano i problemi».

Liberazione 13/11/2010, pag 5

Brescia, Milano, Bologna. Tutti sulla gru, ancora

Cariche al presidio bresciano, ma la solidarietà con i migranti non diminuisce

Laura Eduati
Doveva rimanere un pomeriggio tranquillo, il quindicesimo dall'inizio della protesta, e invece la polizia bresciana ha ordinato nuove cariche contro il presidio antirazzista che sostiene i quattro migranti sulla gru. Al termine di un corteo antifascista, convocato in risposta ad una manifestazione nazionale di Forza Nuova cancellata all'ultimo minuto, circa cinquecento manifestanti hanno voluto portare solidarietà ad Arun, Sajad, Rachid e Jimi.
Alcuni di loro hanno tentato di spostare le transenne che separano il cordone dei celerini dal luogo del presidio in via San Faustino. A quel punto la polizia ha avanzato paventando una carica, dagli attivisti sono partiti petardi, sassi, bottiglie e una bomba carta ricevendo in risposta lacrimogeni e, infine, i manganelli. Contemporaneamente è partita una carica alle spalle del presidio, da piazza della Loggia. I manifestanti si sono dunque ritrovati tra due fuochi. Tre bresciani sono stati fermati, ma nessuno di questi appartiene all'Associazione diritti per tutti, anima del presidio.
Devono risultare davvero dure le giornate umide e le fredde nottate sulla gru per Arun e gli altri. Uno di loro è febbricitante ma il prefetto di Brescia nega il contatto con medici e avvocati. La politica di Narcisa Brassesco Pace, in perfetto accordo col vicesindaco leghista Fabio Rolfi, è semplice: prendere i quattro migranti per stanchezza, strozzare ogni possibilità di trattativa.
I telefonini sono scarichi, i quattro comunicano attraverso le torce e ricevono comunicazioni via megafono. La tensione con le forze dell'ordine era salita anche venerdì sera, quando i migranti sulla gru hanno cominciato a rifiutare l'aiuto della Caritas, l'unica autorizzata a portare loro cibo e coperte. Dopo una trattativa, si è deciso che i pasti saranno preparati dalle comunità migranti e dagli antirazzisti, e poi trasportati dai rappresentanti della Curia che comunque nei giorni scorsi aveva manifestato dei dubbi sulla forma di protesta. Le cariche di ieri non hanno indebolito il presidio: la sera, di nuovo, centinaia di persone erano a via San Faustino. Una solidarietà trasversale, che va dalla Cgil alle associazioni cattoliche agli anarchici. E che non accenna a diminuire.
Sempre ieri pomeriggio un gruppo di donne politiche bresciane ha presentato due lettere, una a Giorgio Napolitano affinché intervenga per mediare, e una a Roberto Maroni chiedendo un incontro. Dal canto suo, il ministro dell'Interno ha voluto chiarire che «la legge va rispettata» e non serviranno «gesti eclatanti» per spingere il Viminale a violarla. Come unica soluzione, Maroni invita chi si ritiene truffato a sporgere denuncia «e noi lo perseguiremo»: è la stessa risposta che i rappresentanti delle reti antirazziste hanno ricevuto dai funzionari del ministero durante un incontro lo scorso ottobre.
In contemporanea, a Bologna, ha preso vita un lungo corteo organizzato dal Coordinamento migranti della città in solidarietà con l'occupazione della gru a Brescia e della torretta di via Imbonati a Milano. Migliaia di persone, moltissime di origine straniera, hanno percorso le vie bolognesi chiedendo il riconoscimento del permesso di soggiorno a tutti coloro che hanno partecipato alla sanatoria colf e badanti, definita ancora una volta «sanatoria-truffa», e una completa revisione della Bossi-Fini. Alla mobilitazione regionale hanno aderito Fds, Sel, Idv, Pd, Fiom-Cgil. Durante il corteo è giunta una telefonata dai cinque migranti sulla torre milanese, amplificata dal sound-system. Uno di loro, Marcelo, da otto giorni a trenta metri d'altezza, al telefono con Liberazione spiega che per il momento lo stato di salute è buono. Lunedì il prefetto di Milano convocherà il Comitato immigrati in Italia, ed è la prima volta dall'inizio della protesta. Questa mattina, ai piedi della torretta, si incontreranno le reti antirazziste italiane per trovare una strategia nazionale sulla questione della sanatoria.
le transenne come ulteriore barriera, la polizia ha mninacciato stava iniziando a caricare, da dietro da piazza loggia è partita un altr carica, da lì il degenero, la polizia era davanti che dietro, il quartiere Carmine è militarzati
in questistanti il presidio si è riformato
adesso riprendono trattatve del cibo, dicono che va tutto bene, fat un segnale luminoso se è tutto ok
Narcisa Brassesco Pace
un presidio compost da tutti

Liberazione 14/11/2010, pag 5

Appello dei docenti di Giurisprudenza di Brescia per gli operai migranti sulla gru

I sottoscritti:
-vista la situazione venutasi a creare a Brescia con la protesta dei sei lavoratori immigrati arrampicati sulla gru;
- vista la preoccupazione che tale situazione suscita per l’incolumità di tali persone e di tutti coloro che si trovano per vari motivi, soprattutto lavorativi, a dover affrontare tale emergenza;
- considerato che molti immigrati ( e a quanto risulta da concordanti notizie di stampa, anche gli stessi sei) hanno presentato domanda di regolarizzazione nel 2009, ma che tali immigrati sono rimasti vittime di truffe da parte di sedicenti datori di lavoro che hanno approfittato del loro stato di necessità presentando documenti di cui poi è risultata la falsità;
- visto che la disposizione sulla base della quale a molti immigrati è stata negata la regolarizzazione del 2009 è di ambigua formulazione;
- considerato che essa è stata interpretata in modo contraddittorio dalle stesse autorità amministrative e dalla giurisprudenza;
- considerato che l’interpretazione alla fine adottata dalle autorità amministrative bresciane sembra fondata su una circolare ministeriale, atto amministrativo in sé incapace di pregiudicare i diritti soggettivi;
- tenuto conto che alla luce del principio costituzionale di uguaglianza emergono dubbi di illegittimità costituzionale sulla legge di regolarizzazione (D.L. 78/2009) laddove si limita a colf e badanti escludendo gli altri lavoratori e discrimina irragionevolmente tra lavoratori rimasti sul territorio italiano dopo la scadenza del permesso di soggiorno (ammessi alla regolarizzazione) e lavoratori che vi sono rimasti non ottemperando all’ordine di espulsione del questore (non ammessi);
- chiedono a tutte le autorità competenti in materia di perseguire tutte le vie per trovare una soluzione umanitaria a questa gravissima situazione e, facendo propria una proposta già suggerita in questi giorni, le sollecitano a concedere un permesso di soggiorno temporaneo per motivi di protezione sociale agli immigrati in quanto risultino vittime di truffe a loro danni da parte di sedicenti datori di lavoro

Brescia, 10 novembre 2010

http://www.liberazione.it/news-file/Appello-dei-docenti-di-Giurisprudenza-di-Brescia-per-gli-operai-migranti-sulla-gru---LIBERAZIONE-IT.htm

Milano, sotto la torre dei migranti le "brigate della solidarietà attiva"

Presidio permanente in Via Imbonati: viveri e sostegno alla lotta

Stefano Galieni
«Dobbiamo essere capaci di ridislocarci laddove è necessario, rimanere a disposizione delle realtà in lotta con la pratica attiva, non intervenendo in maniera sporadica. E' anche questo che caratterizza la diversità della nostra presenza». Francesco Piobbichi, è arrivato a Milano sotto la torre ex Carlo Erba di Via Imbonati, dove prosegue la protesta dei lavoratori immigrati. Ci è arrivato con un gruppo delle "Brigate della solidarietà attiva" quelli e quelle che dal terremoto dell'Aquila alle tante vertenze di fabbrica, dal lavoro estivo con i lavoratori in agricoltura di Nardò, all'intervento con le popolazioni sotto alluvione nel vicentino, stanno sperimentando una declinazione dell'intervento sociale e della militanza adatto ai tempi della crisi.
Interventi sempre dalla netta caratterizzazione politica e in cui prevale la volontà di determinare elementi di partecipazione attiva, quelli necessari per recuperare il gap fra la percezione della politica, la sua utilità reale e le condizioni di vita delle persone. A Milano hanno trovato una realtà auto organizzata dei lavoratori immigrati e si sono messi a disposizione sapendo che c'è bisogno di un cordone democratico composto anche da cittadini italiani per supportare una lotta che si preannuncia lunga, dura e difficile, dopo quanto accaduto a Brescia. «Il vice sindaco De Corato - prosegue Piobbichi - sta aumentando il livello della pressione sui lavoratori migranti per portare tutta la questione attorno al binomio legalità/illegalità. Occorre una risposta diretta, per questo facciamo appello a tutti per rafforzare il presidio e non lasciare chi lotta da solo. Dobbiamo avere funzione di garanzia in questo contesto che rappresenta uno dei massimi punti di resistenza in Italia, restare a dormire qui, cucinare per chi è sulla torre e per chi partecipa al presidio, tenere alto un livello di comunicazione con l'esterno sapendo che bisogna veicolare un messaggio semplice a chi ancora non capisce. Se c'è questa situazione è perché con la Bossi Fini si rende reato l'essere disoccupato». Secondo i ragazzi della brigata si tratta di ricostruire un sistema di militanza forte, in cui prevale l'elemento reticolare, in cui si rispetti l'autonomia e il protagonismo di chi lotta ma contemporaneamente si resti parte in causa:«Essere solidali non può limitarsi a cliccare "mi piace" su face book- prosegue Piobbichi - ma confrontarsi direttamente con questa capacità enorme di auto organizzazione e di radicalità, riuscire a connettere questa torre con quello che è avvenuto a Pomigliano. La Bossi Fini è una legge sul lavoro, le politiche governative hanno fallito nella gestione delle questioni connesse al lavoro migrante e anche alla Lega Nord conviene mantenere questa condizione di subalternità di chi non è in regola con i documenti per abbassare il costo del lavoro e ricattare le persone».
I ragazzi resteranno sotto il presidio tentando di mantenere questo filo diretto e di rompere la condizione di invisibilità in cui si vorrebbero confinare certi conflitti, partendo da un presupposto: è tempo di giungere ad uno sciopero generale in cui le questioni del lavoro migrante abbiano il peso che necessitano, è tempo che si giunga anche ad una iniziativa nazionale di tutte quelle realtà migranti e antirazziste che stanno agendo nelle varie città. Ma questa è una decisione che spetta a chi è impegnato in prima persona, per questo ci sarà a Firenze, domenica 28 novembre una assemblea nazionale antirazzista.

Liberazione 17/11/2010, pag 4

Via Imbonati, Milano l'assemblea antirazzista: tutti nelle piazze il 20

Domenica riunione nazionale sotto la torre

Centinaia di persone accalcate sotto gazebo e rifugi di fortuna a via Imbonati 49, a Milano, sotto quella torre su cui ormai da troppi giorni sono saliti altri lavoratori immigrati per chiedere regolarizzazione e diritti. Una assemblea nazionale improvvisata che si è tenuta domenica mattina, con delegazioni giunte da tutto il centro nord ma anche da Roma e da Catania. L'assemblea è iniziata con i saluti di Marcelo, delegato Fiom, uno dei ragazzi sulla torre. Richieste semplici: estensione anche ad altre città della lotta, solidarietà ai "bresciani" che stanno vivendo in condizioni peggiori, una piattaforma che parte sì dalla accettazione delle domande di chi ha presentato richiesta di sanatoria ma tocca anche il prolungamento dei permessi di ricerca occupazione per chi perde il lavoro, la possibilità di emergere dal lavoro nero, il diritto di voto e la riforma delle norme sulla cittadinanza, la lotta contro i Cie.
Gli interventi che sono seguiti, in gran parte di lavoratori e lavoratrici migranti, ma anche di studenti, di sindacalisti, di rappresentanti di forze politiche, sono serviti per fare il punto su una situazione da cui bisogna uscire vincendo, sapendo perfettamente che si tratterà di una battaglia lunga e difficile. La situazione milanese ha una sua caratteristica che la diversifica in parte da quella bresciana, la racconta Saidou Mussa Ba, senegalese, del comitato immigrati:«Noi ragionavamo a partire dal primo marzo- racconta - pensavamo potesse essere l'inizio di un grande movimento antirazzista e invece si è andato spegnendo. Per questo abbiamo continuato a fare presidi e manifestazioni, anche a luglio e ad agosto, pensando soprattutto alla regolarizzazione. Ne è nato un percorso di auto organizzazione che è maturato. Eravamo da soli all'inizio, ora vengono in molti a darci una mano ed è utile e positivo ma l'importante è che nessuno provi a mettere il cappello su una lotta che è nostra». Saidou considera importante che alcune forze della sinistra come la Federazione stiano dando una mano:«Non è più tempo di barcamenarsi - dice - o si sta con noi o contro di noi». Anche Jorge Carasas, argentino è del comitato immigrati di Milano: «Sono stato a parlare con Giuliano Pisapia e con il vostro segretario Ferrero - dice - e vedo che finalmente si sta uscendo dalla invisibilità in cui eravamo condannati. Ora potremo vedere se la solidarietà è fatta di parole o di gesti concreti».
Tutti gli interventi in assemblea hanno lanciato proposte di mobilitazione: ieri al consolato egiziano si è tenuto un presidio per chiedere che i ragazzi egiziani, 3 su 5, non vengano rimpatriati. Nel frattempo però, durante la notte due dei ragazzi sono scesi dalla torre. Uno era malato, l'altro lo ha aiutato a scendere. I due si dileguano senza essere identificati. Mentre scriviamo però arriva la doccia fredda: uno dei due ragazzi è in Questura e si teme che venga espluso.
Il comitato immigrati ha anche annunciato di aver chiesto un incontro con il cardinal Dionigi Tettamanzi, a dimostrazione della scelta di una interlocuzione con le componenti solidali e democratiche della città. Con risultati significativi: il Consiglio di zona che amministra il territorio in cui è ubicata la torre, giorni fa ha approvato a maggioranza una mozione con cui sostiene le ragioni degli immigrati.
La lotta non si ferma: in questi giorni si terranno assemblee in tutte le città coinvolte per arrivare a sabato 20 novembre con una giornata di mobilitazione nazionale articolata in ogni città. Gli studenti milanesi che manifestano il 17 novembre hanno chiesto agli immigrati e al comitato "Per non dimenticare Abba" di aprire il proprio corteo con uno striscione. E mentre si preparano altre mobilitazioni, per il 28 novembre è stata indetta un'altra assemblea nazionale, stavolta a Firenze. Dovrà servire a fare il punto e a capire come proseguire senza mettere a repentaglio la vita di chi sta rischiando giorno dopo giorno. Vedere dal basso l'alta torre esempio di archeologia industriale fa impressione, sapere che ci sono dei ragazzi che lì dentro ormai sono accampati da 10 giorni fa tremare le vene ai polsi. Una cosa però i milanesi la vogliono ribadire: vogliono interloquire con la politica, con il ministero e non scontrarsi con la polizia: «La forma di lotta che abbiamo scelto è pacifica - ripetono sia Saidou che Jorge - e non accetteremo provocazioni che portino ad atti di violenza».
S. G.

Liberazione 16/11/2010, pag 5

Brescia dopo la gru «Lottare è giusto»

Brescia, il giorno dopo la discesa dei quattro immigrati dalla gru

Arun, Jimi, Rachid e Sajad a piede libero Mimmo "in sospeso"

Francesca Mantovani*
Brescia
Il giorno dopo la discesa della gru di Arun, Jimi, Rachid e Sajad, Brescia si interroga su cosa succederà in città nei prossimi giorni, i primi d.G., ossia dopo la Gru.
Arun e Jimi sono ora a piede libero: la loro prima giornata è trascorsa fra taccuini, telecamere e tanta solidarietà. Anche Rachid è libero, e si sta riprendendo dagli acciacchi. Sajad, trattenuto fino al tardo pomeriggio in Questura, è stato infine rilasciato.
Per lui la Procura ha negato l'espulsione per motivi giudiziari, dato che ha denunciato i suoi truffatori. "Mimmo" Mohammed, il migrante egiziano fermato lunedì a Milano, è invece nel Cie di via Corelli e domani si attende la decisione del giudice di pace. Fin qui, la cronaca. La giornata di ieri è stata caratterizzata da un altro aspetto: l'"intelligentsia" bresciana, da sempre legata a doppio filo ai vertici dei mass media locali, ha decretato infatti la vulgata ufficiale della "Brescia bene" su quanto accaduto nelle ultime settimane in città: gli immigrati sono dei "poverini" da compatire, la colpa dei disagi allo shopping avvertiti in centro nelle ultime settimane è invece degli italiani "cattivi", quelli che semplicemente restando al fianco dei migranti hanno impedito alla vicenda di finire rapidamente nel dimenticatoio. Le centinaia di mail, telefonate e sms arrivate in poche ore a Radio Onda d'Urto - la voce della protesta e per diversi giorni l'unico contatto fra la gru e il resto del mondo - dimostrano però che questa volta l'opera di "normalizzazione" non sarà proprio così agevole. C'è un popolo, una sinistra diffusa, che dopo anni di scoramento ha riscoperto il piacere - oltre che l'impegno - della lotta, e non intende lasciarsi addomesticare tanto facilmente. «Siamo stati accusati - dicono i responsabili dell'associazione "Diritti per Tutti", da giorni nel mirino degli strali di giornali, Curia e istituzioni - di strumentalizzare la lotta dei migranti da parte di esponenti della gerarchia di una potenza politica e finanziaria come la Diocesi di questa città. Da quale pulpito, ci verrebbe da dire!". Superati i momenti delicatissimi della trattativa, i partecipanti al presidio permanente che per una settimana non hanno lasciato un secondo la centrale via San Faustino sono pronti a togliersi i sassolini dalle scarpe: "nelle ultime ore abbiamo visto la soddisfazione, espressa da dirigenti sindacali, per la chiusura di quella che per loro è stata solo una brutta pagina nella storia della città. Abbiamo visto le passerelle fugaci, a scopo mediatico, di una serie di politici evidentemente con la coscienza sporca. Silenzi imbarazzati e imbarazzanti di organizzazioni sindacali che vantano, a ragione, capacità e volontà nella difesa dei diritti dei lavoratori». Non ci stanno, quindi, i solidali bresciani che hanno accompagnato - "in basso e a sinistra", verrebbe da dire citando le foreste del Sudest messicano - le lotte decise dalle comunità migranti della città, a passare per i burattinai della situazione. Soprattutto perché questo sminuirebbe lo straordinario protagonismo autorganizzato dei migranti, che a Brescia affonda le proprie radici almeno nelle lotte del 2000 e 2001 per il permesso di soggiorno. «Tutti coloro - dicono ancora da "Diritti per Tutti" - che indicano i colpevoli della ribellione nei cattivi maestri e fomentatori italiani usano questo argomento per provare a negare o depotenziare le ragioni forti della protesta e perché proprio non ce la fanno a pensare che gli immigrati siano in grado di prendere l'iniziativa e decidere il proprio destino, di scegliere di lottare per i diritti come in questi giorni. Abbiamo infatti visto un presidio - dicono ancora i solidali - con la lotta dei migranti sostenuto da persone con diverse appartenenze, senza alcuna appartenenza, con appartenenze perdute e ritrovate. Sappiamo anche che tantissimi immigrati già vedono e ricorderanno a lungo la gru come i giorni della forza e del coraggio straordinari di salire 35 metri sopra il cielo per conquistare dignità e rispetto, per far conoscere a tutti le loro ragioni contro l'ingiustizia. Sentono l'orgoglio di averci provato e di esserci riusciti, a carissimo prezzo. Sanno di avere regalato a tutti una lezione incancellabile. Noi, insieme a tantissimi italiani e bresciani, stiamo e resteremo dallo loro parte. Siamo dalla parte di tutti coloro - italiani e migranti, uomini e donne, lavoratori, studenti, precari - che davvero, nei fatti, hanno la forza e il coraggio di credere che lottare per i diritti sia giusto e possibile. Noi andremo avanti. Per e con tutti questi nostri compagni e fratelli, i ragazzi migranti della gru e del presidio, le persone già espulse o a rischio di espulsione ancora detenute nei Centri di Identificazione e Espulsione. Contro, invece, le deportazioni, la sanatoria truffa e le guerre tra poveri».
*redattrice Radio Onda d'Urto

Liberazione 17/11/2010, pag 1 e 4

Pressioni, espulsioni i "bresciani" accerchiati

Cibo negato, dieci rimpatriati, un leader della lotta a via Corelli

Francesca Mantovani*
Brescia
Ventiquattro ore di tensione altissima, colpi bassi, follie dal sapore cileno e disinformazione a pie' sospinto non riescono ancora a spegnere la resistenza della Brescia antirazzista e antifascista. La giornata, l'ennesima di lotta, sotto la gru di piazzale Cesare Battisti, inizia domenica: in programma nel primo pomeriggio c'è un happening musicale, decine di gruppi solidali coordinati da Jean Luc Stote di Radio Onda d'Urto e guidati da Isaia e l'orchestra Clochard (loro la canzone "Siamo tutti sulla gru", diventata l'inno del presidio di via San Faustino) si sono autoconvocati per sostenere Arun, Rachid, Sajad e Jimi. La polizia, però, minaccia: «Via gli amplificatori o portiamo via tutto». Nel frattempo sulla gru sale la tensione: dal venerdì sera la polizia blocca i rifornimenti di cibo. «Non ce la facciamo più - dicono i migranti, che lanciano anche qualche oggetto - vogliamo mangiare, non siamo animali. Basta con il razzismo». Segue una lunghissima trattativa, estenuante, con punte paradossali come la richiesta delle forze dell'ordine di "zittire" le centinaia di presidianti. Nella prima serata, dopo l'invio di acqua e zucchero, arrivano finalmente i viveri.
Tempo qualche ora e Cgil, Cisl e Curia si presentano alla luce dei riflettori mediatici con una proposta di mediazione che riporta le lancette a prima dello sgombero del presidio di via Porte Pile da parte della polizia: garanzie legali per i migranti e la promessa di un "presidio autorizzato" per portare avanti la lotta. La prima domanda che arriva dalla gru è la più ovvia, quella però che nessun giornalista mainstream ha il coraggio di fare: ma cosa ne pensano dal presidio e dalle comunità migranti che da settimane sostengono la lotta? Disarmante la risposta: non lo sanno, nessuno li ha coinvolti. «E allora non si discute nemmeno», si urla in sostanza dalla gru. Segue un drammatico botta e risposta via megafono fra i presidianti e la gru, mediata dalla diretta di Radio Onda d'Urto, unico contatto con il mondo dei quattro. Alla fine Don Fabio Corazzina, uno dei mediatori, arriva al presidio per leggere la proposta di mediazione. La tensione per quello che viene percepito come un tentato raggiro è alta, ma alla fine un'ulteriore intesa riesce a passare: la proposta di Cgil, Cisl e Curia può salire sulla gru, ma se ne deve discutere con calma e non si può certo pensare di scendere già in serata. A ulteriore garanzia, i quattro nominano i loro legali: sono quelli dell'associazione Diritti per Tutti.
Nella mattinata di ieri si palesano sotto la gru altri esponenti politici, mai visti prima in piazza. Gli avvocati discutono con i loro assistiti, si apre lo spiraglio per una possibile loro discesa alle ore 20, mentre arriva però l'ennesimo colpo basso: dieci egiziani (fra cui quelli fermati lunedì mattina dentro l'oratorio di San Faustino) vengono prelevati dai Cie di Milano e Torino e imbarcati a tradimento su un volo diretto a Il Cairo. Padre Toffari, altro mediatore ecclesiale, smentisce tutto. Ascoltatori di Radio Onda d'Urto e compagni in diretta da Malpensa invece lo sbugiardano dopo pochi minuti: le espulsioni ci sono, e sono dieci. Non appena si apre uno spiraglio, quindi, subito arriva la risposta muscolare.
Nel delirio di ieri, anche essere onorevole non conta molto: il deputato Franco Barbato e la senatrice Giuliana Carlino dell'Idv sono infatti stati bloccati da una pattuglia della polizia di Stato e da una pattuglia della polizia municipale in Corso Monforte a Milano, mentre si recavano in Prefettura, dove era in corso una riunione sulla protesta degli immigrati sulla gru a Brescia. A riferirlo lo stesso deputato che poi è entrato in Prefettura per chiedere spiegazioni. «Siamo stati bloccati per le vie di Milano come dei delinquenti e ci hanno trattenuto i documenti perché ci dicono siamo persone segnalate - ha detto Barbato -. E' inaudito il comportamento che stiamo subendo». Fermati anche due compagni del movimento antirazzista bresciano: la prima, una compagna di nazionalità italiana, viene rilasciata a metà pomeriggio. Il secondo, invece, Mohamed - per tutti "Mimmo" - , non è italiano. Ha una richiesta della sanatoria ancora in discussione, la sua posizione dunque è in bilico. Mimmo, soprattutto, è una delle persone più in vista del movimento. Ed è migrante. Per questo la polizia lo porta in Questura, da dove viene trasferito all'Ufficio Stranieri per una "comunicazione". Si tratta del diniego della richiesta della sanatoria, con conseguente deportazione al Cie di via Corelli.
*redattrice Radio Onda d'Urto.

Liberazione 16/11/2010, pag 5

Finanziaria di toppe mentre esplode la Cig

Superata la soglia del miliardo di ore. Allarme per quella in deroga

Fabio Sebastiani
Sarà pure una soglia "psicologica" ma aver sfondato il tetto del miliardo di ore di cassa integrazione fa un certo effetto. Anche perché, dall'altra parte il paese crolla e il Governo, che prima era inerte, ora è addirittura bloccato dalla crisi politica. Fino al punto che la legge finanziaria è completamente monopolizzata dal tentativo di rattoppare la maggioranza. «E' incredibile che la discussione della Finanziaria - sottolinea in una nota il portavoce del Prc Paolo Ferrero - sia completamente svincolata dalla valutazione degli effetti che questa avrà sul terreno dell'occupazione».E' di qualche giorno la notizia della dotazione del fondo per gli ammortizzatori sociali - l'unico punto apprezzato nel comunicato scritto a quattro mani tra Confindustria e parti sociali - che ecco la mazzata sulle cifre del "paese reale". Ad ottobre, infatti, secondo la Cgil, le ore di Cig autorizzate dall'Inps da inizio anno sono state 1.026.479.655, mettendo a segno un incremento del +44,2% rispetto al 2009 quando le ore erano 712.008.425. A far paura sono le ore di "cassa in deroga" perché rapresenta una sorta di "ultima spiaggia" dopo essere passati per il limbo della degli ammortizzatori "ordinari" e "straordinari". Dall'analisi della Cgil il ricorso alle ore di cassa integrazione a ottobre segna un calo del -2,3% rispetto al mese precedente, per un totale di ore pari a 100.806.175. Calo addebitabile ad un flessione della Cassa integrazione ordinaria (cigo) e straordinaria (cigs); ma ad «incidere ancora pesantemente», così come segnala il rapporto, è la «costante e inarrestabile» crescita della cassa integrazione in deroga (Cigd) che a ottobre torna ad aumentare con un monte ore ad ottobre pari a 34.374.368 segna un +6,36% su ottobre e nei primi dieci dell'anno, sullo stesso periodo dello scorso, un +295,9%. Da gennaio ad ottobre sono state autorizzate 320.241.258 ore di Cigd. Questi dati, osserva il segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere, «insieme a quelli sulla produzione industriale, dimostrano che la situazione resta molto grave e preoccupa seriamente la costante crescita della cassa in deroga. Diventa ogni giorno più urgente definire politiche industriali che possano determinare crescita e lavoro insieme ad interventi strutturali sulla cassa integrazione».
Per la cassa in deroga, i settori con il maggiore ricorso continuano ad essere quelli che non rientrano nella normativa attuale della cigs. Tra i settori più colpiti c'è l'edilizia che resta quello con l'aumento più consistente, da inizio anno, pari a +1.150,4% sul 2009. Segue il settore chimico +471,9%, il legno +675,7%, il commercio +369,5%, carta e poligrafiche +325,1% e la piccola industria meccanica +264,38% che ha il volume più alto con 98.076.416 ore. Le regioni maggiormente esposte con la cigd restano la Lombardia con 78.147.195 ore da inizio anno (+202% sul 2009) e l'Emilia Romagna con 45.772.191 ore (+1109,9%). «Si conferma l'aumento consistente - si legge nel rapporto - soprattutto nei settori direttamente produttivi, frutto di un allargamento ulteriore delle difficoltà del settore manifatturiero e del fatto che molti lavoratori, prima coperti dalla cassa ordinaria e straordinaria, stanno progressivamente ricorrendo alla cassa in deroga».
Per tornare alla legge finanziaria, infine, c'è da registrare il via libera della Commissione Bilancio della Camera. Il maxiemendamento del governo e il ddl di Bilancio da martedì saranno all'esame dell' Aula di Montecitorio. Dalla discussione in commissione è uscita la possibilità di qualche aggiustamento. Sotto osservazione ancora la partita con i Comuni e agevolazioni fiscali del 55% delle ristrutturazioni edilizie ecocompatibili. Su queste ultime, secondo il viceministro dell'Economia, Giuseppe Vegas, il Governo è pronto a fare «una riflessione da qui all'Aula per presentare un emendamento che recepisca» il reintegro. Segnali negativi, invece, sugli enti locali. «Non credo ci saranno correttivi se non un leggero allentamento del patto di stabilità. Non ci sono le risorse del passato quindi i tagli sono inevitabili per tutti i livelli di governo», dice il sottosegretario all'Interno Michelino Davico, ieri a Padova per l'Assemblea nazionale dell'Anci. «C'eravamo illusi che tutto fosse più facile riguardo al federalismo - sottolinea Davico - anche perchè sono dieci anni che ci lavoriamo».

Liberazione 14/11/2010, pag 4

Cosa c'è dietro lo statuto dei lavori

Piergiovanni Alleva
Dopo il "collegato lavoro" sulle cui brutture e pericoli ci siamo soffermati quindici giorni orsono sulle colonne di questo giornale, è uscita dal vaso di Pandora del ministro del Lavoro un'altra mefitica proposta normativa, che speriamo non divenga mai legge perché travolta dalla rovina del regime berlusconiano.
Adesso occorre, però, opporsi comunque con la massima fermezza e fin da ora perché, con riguardo ai temi del lavoro, l'unità di intenti nel centrodestra (e tra il centrodestra e la Confindustria) non è mai venuta meno. Il "collegato lavoro", ad esempio, è stato recentemente approvato, a gran velocità, anche da Futuro e libertà e dall'Udc, in polemica con il Pdl su tutto, ma non sulle leggi che riducono e potenzialmente annullano i diritti dei lavoratori. Esaminiamo, dunque, questa sorta di "colpo di coda del caimano", questo progetto di "statuto dei lavori" che, indecentemente, scimmiotta, nel nome, la grande legge che è stata ed è lo Statuto dei lavoratori.
Si tratta tecnicamente di un progetto di legge delega per la emanazione di uno o più decreti legislativi diretti alla redazione di un testo unico denominato appunto Statuto dei lavori, che dovrebbe sostituire lo Statuto dei lavoratori, o, piuttosto, sovrapporsi ad esso e ad altre leggi di tutela. Diciamo "sovrapporsi" perché il progetto si caratterizza per una innovazione metodologica davvero perfida essendo d'altro canto la perfidia il tratto caratteristico dell'agire dei transfughi, al cui novero sicuramente appartengono gli autori e proponenti di questo progetto. L'innovazione metodologica consiste nel fatto che il nuovo testo legislativo invece di disporre direttamente previsioni peggiorative rispetto agli attuali in tema, ad esempio, di licenziamenti, di mansioni e qualifiche, di trasferimenti, di sanzioni disciplinari, di contratti precari, di orario di lavoro, di salario ecc., consentirà ai contratti collettivi di derogare in lungo e in largo le norme esistenti in relazione, ad esempio, alla collocazione territoriale o alla dimensione dell'impresa o al settore produttivo e così via.
Tanto per intenderci, i contratti collettivi potrebbero prevedere che in Calabria l'articolo 18 sulla tutela contro i licenziamenti non si applichi o si applichi solo sopra i 70 dipendenti o che nelle imprese fino a 20 dipendenti nel centro-Sud sia legittimo, in deroga all'articolo 2103 cod. civ. dequalificare il dipendente adibendolo a mansioni inferiori e così via. Ma quali contratti collettivi avrebbero questo smisurato potere derogatorio? La proposta di statuto dei lavori del ministro Sacconi non lo specifica e quindi si può intendere che lo avrebbero tutti i contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali ma comunque un'indicazione nel progetto viene pur data: che quei contratti collettivi in deroga dovrebbero valorizzare il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali.
Ed allora tutto è chiaro, e d'altro canto coerente con quanto già si è cominciato a fare con la legge Biagi e con il "collegato lavoro": i contratti collettivi cui si pensa sono quelli che saranno firmati dai sindacati - Cisl e Uil anzitutto - che si sono già ridotti ed umiliati ad un ruolo subalterno e servente verso la controparte datoriale e che cercano di fare degli "organismi bilaterali" il luogo di una gestione corporativa, complice ed autoreferente degli interessi dei lavoratori.
In tal modo la Confindustria e le altre organizzazioni datoriali diverrebbero, con la complicità di questi sindacati serventi, i veri legislatori in tema di lavoro, espropriando lo stesso parlamento. E per di più - occorre sottolinearlo perché questo è il peggio del peggio - legislatori del caso per caso a seconda delle convenienze. L'anticipo di questa strategia lo abbiamo già visto con l'accordo separato di Pomigliano, e con quello che ha introdotto l'articolo 4-bis del Ccnl metalmeccanico, che, appunto, consente deroghe locali caso per caso alle norme contrattuali.
Tutti comprendono che un diritto del lavoro ridotto ad una specie di "colabrodo" dal moltiplicarsi degli accordi in deroga cesserebbe di essere un diritto del lavoro, cioè un'insieme di garanzie certe per i lavoratori. Bisogna, però, chiedersi come si è potuti arrivare a questo punto non tanto in sede politica, perché questo è chiaro, ma in sede di teoria giuridica. Si può dire, veramente, a questo proposito, che "la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni": quando c'era l'unità sindacale il legislatore italiano concepì l'idea - in sé non peregrina - di una integrazione tra la fonte legale primaria e la fonte secondaria contrattual-collettiva, ritenendo che in tal modo i fenomeni sociali potessero esser meglio colti nella loro dinamica. Così, per intendersi, la legge invece di stabilire solo lei quando potessero essere stipulati i rapporti a termine aveva previsto che potessero essere conclusi anche nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Su un presupposto, però, tanto politico quanto giuridico, ossia che si trattasse di contratti stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi, e fin quando vi è stata l'unità sindacale, la rappresentatività di tali sindacati, che firmavano unitariamente era indiscutibile, ed era anche suplrfluo porsi il problema di misurarla. Ora è cambiato tutto, e non per nulla il progetto di "statuto dei lavori" conferisce un enorme potere derogatorio delle norme di legge alla contrattazione collettiva senza più accennare a questioni e misure di maggiore rappresentatività, proprio perché evidentemente si vuole che gli accordi derogatori della legge siano accordi separati, firmati dai sindacati collaborativi e serventi, ancorché comparativamente meno rappresentativi.
Si tratta di una strategia incostituzionale - sia chiaro - perché la stessa Corte costituzionale ha ritenuto legittima quella integrazione tra fonte legislativa e fonte contrattuale collettiva solo in quanto questa possa dirsi effettivamente rappresentativa dell'assoluta maggioranza dei lavoratori sindacalmente organizzati, ma questa considerazione non è sufficiente a rassicurarci: è ora, pensiamo, che la fonte legale e quella contrattuale riacquistino la loro distinta fisionomia e finalità, ma soprattutto che vengano fissati come condizione di legittimità della fonte contrattuale i suoi requisiti di maggiore rappresentatività e di rappresentanza, ossia di conformità verificata attraverso referendum, dei risultati negoziali alla volontà dei lavoratori interessati.

Liberazione 14/11/2010, pag 1 e 5