sabato 28 agosto 2010

Giovani, poveri e bamboccioni? Soprattutto sfruttati al nero

I dati Istat parlano di un Paese vecchio e svogliato, ma il problema rimane il reddito

Chiara Di Domenico
Da giorni i media parlano di disoccupazione giovanile: i dati sono certamente preoccupanti se secondo l'Istat il 58% dei 18-34enni vive in famiglia, ma dimostrano con efficacia un problema di comunicazione tra dati ufficiali e dati reali di un paese in crisi, certo, ma soprattutto vecchio e svogliato davanti alle mutazioni sociali. In questo senso, la fascia dei trentenni italiani è particolarmente interessante e degna di attenzione per come riesce a sfuggire ai ritratti ufficiali. Abbiamo preso a campione Roma, ottimo esempio di crocevia di neolaureati o laureandi in cerca di fortuna nel belpaese. Il campione di testimonianze raccolte risulta particolarmente interessante: include soprattutto giovani di cultura medio-alta e di formazione umanistica. Una fascia particolarmente a rischio sotto la mannaia dei tagli ministeriali: i cosiddetti lavori atipici hanno visto nell'ultimo anno una flessione di 110mila unità rispetto alle 101mila dell'industria.
La futura classe dirigente, si diceva un tempo: è normale che la futura classe dirigente si sposti dalle province alla capitale in cerca di fortuna. Si tratta non solo di sud, ma anche di centro e di nord. Per una proporzione spesso inesorabile tra stipendi e affitto, la futura intellighenzia nostrana divide quasi sempre casa con altri fuorisede, quasi sempre in nero. Come in nero sono le occupazioni per pagarsi la vita e gli studi. I più fortunati si muovono con un mezzo privato, quasi sempre uno scooter, mentre la maggior parte se la cava con un abbonamento da trenta euro al mese coi mezzi pubblici. Sarebbe difficile fare altrimenti con compensi che oscillano tra gli 800 e i 1.100 euro e camere singole tra i 400 e i 600 euro. Un monolocale per vivere da soli, con un costo tra i 700 e i 1.000 euro, spesso non viene neanche preso in considerazione. Il tutto, ripetiamo, quasi sempre rigorosamente in nero. È proprio il nero che falsa le statistiche Istat divertendosi a creare il luogo comune e un po' volgare del bamboccione.
Pigneto, quartiere popolato di locali e giovani liberi professionisti: una terrazza profumata e illuminata da luci basse, la tipica festa a colletta in cui è facile imbattersi con la bella stagione: invitata da amici mi ritrovo tra una cinquantina di coetanei: l'immancabile Mac che diffonde la musica, voci passabilmente eccitate, citazionismi colti, gente che dorme sulle poltrone, che balla in salotto, che chiacchiera in gruppetti con bicchieri di birra e gin tonic in mano. Penso ai dati Istat e immagino che non sarebbe male avere la faccia tosta di chiedere a qualcuno come e dove vive. Mi imbatto in Toni, catanese, classe 1980. È curioso anche se un po' diffidente. L'amico che gli sta vicino mi squadra poco convinto, forse pensa che io sia una del fisco o semplicemente un'impicciona. Poi Toni mi dice che se queste cose le scrivo veramente lui è felice di raccontare. Dice che è venuto a Roma per diventare fotografo di moda. Ha fatto una scuola specialistica, e alla fine della scuola ha trovato subito lavoro. Gratis. Neanche lo stage che già di suo spesso è uno sfruttamento, ma un vero e proprio lavoro in uno studio dove faceva regolarmente le sue ore ma senza contratto e senza compenso. Così dopo aver presentato una vertenza, per vivere ha recuperato il mestiere di famiglia e si è messo a fare il cuoco. In nero naturalmente. Fino a poche settimane fa lavorava in due ristoranti cercando di continuare a fare il fotografo. Con i suoi due stipendi paga una stanza, sempre in nero, a Tor Pignattara: 450 euro più le spese. Adesso fa il cuoco in un solo ristorante, e aspetta di sapere come andrà un colloquio che, si augura, lo porterà a Parigi. Scrivo velocemente la sua storia sul taccuino e lo perdo di vista in mezzo agli altri, finita la serata non lo vedo più.
Domenico invece viene da Acqua Formosa, in provincia di Cosenza. Ha 29 anni. Lo dice quasi vergognandosi, perché studia ancora. "Per forza, come faccio se devo lavorare?" è a Roma da tre anni per prendere la laurea specialistica in storia e scienze dello spettacolo, il vecchio Dams. Vorrebbe fare il regista. Per camparsi ha fatto un po' di tutto: falegname, cameriere, meccanico, tutto sempre in nero. Lo raggiungo al telefono tramite un amico in comune ed è un fiume in piena. Mi racconta di quando si è presentato a una pizzeria al taglio a Campo de' Fiori sotto le feste natalizie: 800 euro senza nessun contratto, nessun giorno di riposo. Nessun contributo né copertura sanitaria e assicurativa. Le ore? Come sale e pepe, quanto basta: comunque di sicuro non meno di otto. "Secondo loro dovevo servire la pizza, pulire bagni e pavimenti, conoscere correntemente tre lingue per servire i turisti. Ho pensato che pulire i cessi con la lingua proprio non mi andava e mi sono trovato un altro lavoro. Quando ti presenti a volte hai quasi paura di chiedere i soldi, quasi a vergognarsi, chissà perché. Così ti ritrovi a lavorare in nero con più ore e pagato meno che se fossi in regola. Al nord di solito è il contrario: proprio perché non ti pagano le tasse ti pagano di più, invece qui lavori di più e ti pagano di meno. Ho cambiato casa sette volte in tre anni e non ho mai avuto un contratto: i primi tre mesi sono stato ospitato da un amico. Poi ho sempre lavorato in modo da non chiedere niente a casa e da non dover dividere la stanza con un'altra persona come se fossi una matricola". Anche nel caso di Domenico il canone di una stanza si aggira intorno ai 400 euro più spese. Mi spiega che spesso sono gli stessi padroni di casa che si rifiutano di farti un contratto, perché gli costa troppo in tasse e sarebbero costretti a farti pagare di più. Un po' come quando vai dal dentista e se non chiedi la fattura ti fanno lo sconto. In questo modo, però, è molto difficile prendere la residenza. E agli occhi dello stato (e dell'Istat) anche chi vive fuori casa da dieci anni risulta abitare con mamma e papà.
Anche Anna, nata a Roma nel 1974, si rifiuta di fare il contratto ai suoi inquilini: lei la casa l'ha comprata ai tempi della lira, quando vinse il concorso come dottore di ricerca e posto con borsa. "E' stato l'unico aiuto che ho chiesto ai miei. Poi quando la borsa di studio è finita, è rimasto il mutuo e mi sono venduta pure le catenine. Però non volevo tornare a casa dai miei. Ho deciso così di affittare l' appartamento trasferendomi a casa del mio ragazzo. Pago un mutuo di 600 euro al mese, lo affitto a 800. Se ci pagassi le tasse non avrei i soldi manco per l'autobus. Ciò non toglie che se dopo sette anni di ricerca precaria potessi finalmente vincere il concorso e avere uno stipendio sarei felice e orgogliosa di pagare le tasse. Ma se lo stato non le paga a me io come le pago allo stato? È un crimine voler campare di quello che si è studiato?". Anche decidere di non essere bamboccioni ha un prezzo.

Liberazione 04/06/2010, pag 6

Sono i nuovi proletari. Senza di loro l'Italia si fermerebbe

Un libro-inchiesta di Riccardo Staglianò, da nord a sud i lavori che gli italiani non fanno più

Tonino Bucci
Capo, ma perché la macchina me la lava er negro ? La diffidenza si legge in faccia, il proprietario della Bmw storce il naso nell'immaginare la sua automobile sotto le mani di un bangladese. Nella stazione di benzina Q8 di via della Bufalotta, periferia di Roma, lo scenario è come altrove. La presenza di un senegalese o pachistano o bangladese che sia, in tuta accanto a una pompa di carburante, è un'immagine ormai usuale. Nella sola area di Roma e del Lazio almeno un terzo degli addetti è straniero. Ma nelle stazioni più grandi, per ogni quattro-cinque dipendenti un paio sono spesso "extracomunitari". Un lavoro troppo umile, e anche faticoso. Tirar via in piedi tutto il giorno, col freddo o con l'afa agostana, non è mica uno scherzo. Sarà per questo che gli italiani lo evitano. Ma se ne potrebbero elencare tantissimi altri, di mestieri che ormai accettano solo i disperati della gerachia sociale, gli sconfitti nella guerra tra poveri. I pescatori tunisini a Mazara del Vallo, i camionisti discount che vengono dall'Est, i sikh che allevano bufale per la mozzarella, gli addetti alle pulizie, le colf salv-famiglia, i raccoglitori di pomodori, i nigeriani conciatori di pelle al nord-est, gli egiziani pizzaioli. E poi, ancora, addetti alla lavorazione dei polli in quel di Verona o alle fonderie nel bresciano, panettieri, infermieri, facchini, cuochi, lavapiatti. E per finire calciatori, preti e prostitute. E' frastagliata, articolata, in gran parte ancora da disegnare la mappa dell'Italia che senza gli stranieri si fermerebbe all'istante. La descrive, con stile da inchiesta, Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica e autore per l'appunto, di Grazie , sottotitolo Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti (chiarelettere, pp. 228, euro 14,60).
Stereotipi, cliché, rappresentazioni caricaturali, fobie, razzismi: la fabbrica dell'immaginario sforna sulla testa degli immigrati una quantità di immagini virtuali che impedisce un racconto del paese reale. Lo dimostra il viaggio di Staglianò per la penisola, il contatto con le situazioni di vita e di lavoro degli stranieri. La presa diretta con la realtà basta a sconfessare la narrazione-tipo sugli immigrati prodotta in questi anni dalla «fabbrica della paura». «Se poi la congiuntura è calamitosa, come quella in cui viviamo, con il naufragio della classe media, la scomparsa del posto fisso e le infinite altre precarizzazioni tipiche della "società del rischio", l' upgrade della paura in terrore non deve sorprendere». Il girovagare per l'Italia ci porta, ad esempio, a Nogarole Rocca, tre quarti d'ora d'autobus da Verona. A due chilometri dal paese, irraggiungibile con i mezzi pubblici, sorge uno stabilimento per la lavorazione dei polli. Campagna, svincoli autostradali e poi strade strette dove si incrociano tir e trattori. «Già dalla hall, con i divanetti verdi démodé su cui nessuno si siede mai, laroma dolceamaro ti stuzzica il naso. E' solo un'avvisaglia, un antipasto sensoriale». In America un giornalista del Wall Street Journal ci ha vinto il Pulitzer solo a raccontare quanto facca schifo questo lavoro. A cominciare dall'odore che «ti si insinua nelle narici» e dal «pigolare terrorizzato di polli e tacchini» avviati al patibolo. La nausea «ti riempie gli occhi quando vedi per terra gli spruzzi di sangue sgorgati dalle loro viscere». Se c'è Aia c'è gioia , recita lo slogan pubblicitario. In organico il 43 per cento sono immigrati: 168 nigeriani, 60 ghanesi, 42 marocchini, più uomini e donne di altre 28 nazionalità per un totale di 412 persone. «Che prima combattono per indirizzare le bestie vive alla loro via crucis e poi le sigillano, morte, in asettiche buste sottovuoto, sub specie di petti, cosce e ali». Il problema è che lungo la linea di produzione (una vera catena di montaggio) possono succedere degli incidenti per via delle incomprensioni di lingua. «Anche perché tra un kosovaro e un coreano non sanno da dove cominciare per spiegarsi a parole». Molti di loro sono disposti a farsi ogni giorno anche sessanta chilometri col motorino. Ghanesi e nigeriani, poi, sono ricercati per la prestanza fisica che li «rende indicati all'attacco dei tacchini, i cui esemplari maschi arrivano a pesare sui 20 chili», racconta un responsabile della direzione. Si alternano su due turni, di sei ore e quaranta ciascuno, sei giorni su sette, per 1200-1300 euro che con gli assegni familiari possono arrivare a 1500. Il primo anello della catena consiste «nel tirare fuori le bestie vive dalla gabbia di plastica in cui sono arrivate dagli allevamenti e avviarle alla loro sorte». Dapprima fanno passare le bestie in una zona illuminata da una luce blu che ha la funzione di sedarle. I tacchini vengono fatti passare per un cunicolo metallico nel quale viene pompata anidride carbonica per stordirli. I polli invece vengono tramortiti spingendoli in una vasca d'acqua con una modesta scarica elettrica. «A quattro metri da terra, nei condotti sovraffollati di tacchini, cadono addosso ai lavoranti delle piume solitarie. Ma anche le secrezioni degli animali, come se qualcuno si divertisse a sputare dal terrazzo. E poi scaglie della loro pelle, pezzi di mangime, batteri. Qui l'odore è più dolciastro e intenso. Gli addetti si spruzzano in continuazione la faccia e la tuta con un getto di aria igienizzante». Il settanta per cento è assunto a tempo indeterminato, il resto con contratti da sei o nove mesi, come gli avventizi agricoli utilizzati a seconda delle stagioni per la raccolta dell'uva e dei pomodori. Quest'ultimi sono stati i primi a saltare durante il periodo dell'aviaria.
Altra regione, altro lavoro. La Sicilia conta quanto metà dell'industria ittica italiana. Mazara del Vallo pesa da sola mezza Sicilia. «Negli anni Settanta si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli anni Novanta le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione, arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò, per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo», racconta l'assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma. Bisogna spingersi sempre più al largo alla ricerca, per esempio, del gambero rosso, esportato in mezzo mondo. Novanta giorni in mare, chi accetterebbe un lavoro del genere? «Gli italiani l'hanno capito prima e hanno lasciato che i tunisini li sostituissero. Sui pescherecci sono ormai la maggioranza». Senza di loro si fermerebbe tutto. «Questo è un lavoro che, se l'hai fatto, non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico», figuriamoci ai figli - dice Bazine che ha smesso da qualche anno. Benur, invece - cinquantatré anni induriti dal sole e dal salmastro - lo fa ancora. Però «sono sei mesi che l'armatore non mi paga. L'ho denunciato ma sin qui non è successo nulla».A bordo, durante i novanta giorni, non c'è tregua. Bisogna congelare il pesce e «nel congelatore entri sudato come sei in coperta, perché non c'è tempo per asciugarsi, vestirsi di più. Risultato? Quegli sbalzi di temperatura mi hanno fatto saltare un bel po' di denti, ho il diabete, la pressione alta, anche i reumatismi e la bronchite cronica». Il cibo non manca, ma è per dormire che non c'è mai tempo. Come ad Abu Ghraib. Adesso ci stanno provando con i ghanesi «ma ne funziona uno su mille. Non reggono quei ritmi - dice ancora Bazine - e alla sette si lavano le mani e si ritirano in cuccetta». Dopo i ghanesi, in basso nelle gerarchie, ci sono solo i clandestini.
Dal mare alle autostrade. Anche qui c'è una guerra tra poveri. I camionisti low cost dell'Est, capaci di guidare anche quaranta giorni senza mai prenderne uno di riposo - hanno sbaragliato la concorrenza. I riposi segnati sul foglio presenze sono falsi. Finte sono anche le ferie, tanto per dimostrare, in caso di controlli, che ci è riposati a sufficienza, come vuole la legge. A queste condizioni resistono solo gli stranieri. «Nelle grosse compagnie, soprattutto nel nordest che fu patria dei camionisti nostrani, sono ormai maggioranza». Maggioranza sono pure i raccoglitori di mele a Rallo, Tassullo, Taio, Tuenno, le stazioni della raccolta di mele in Trentino. I primi ad arrivare sono stati verso la fine degli anni 80 quelli della ex Jugoslavia, poi è stata la volta dell'est, oggi arrivano da tutti i paesi.

Liberazione 20/04/2010, pag 12

Essere migrante nell'anno della recessione

Gli effetti della crisi sul fenomeno migratorio globale in un rapporto del Migration policy institue

Meno partenze, meno rimesse, leggi più dure

Martino Mazzonis
La recessione che il mondo ha sperimentato nell'ultimo anno ha effetti ad ogni punto della scala sociale e in ogni angolo del mondo. Anche tra chi vive in villaggi lontani dalla finanza, da internet e dalle linee di comunicazione più trafficate. E per chi a questa gente manda miliardi di dollari l'anno in rimesse.
E' questo uno dei fenomeni individuati da Migration and the global recession ("Migrazioni e recessione globale"), lungo rapporto diffuso ieri dal Migration policy institute e commissionato dalla Bbc world service (quando si dice un servizio pubblico).
Se è vero che il mondo è diventato più piccolo, è altrettanto vero che questo si è molto diversificato e che gli effetti della crisi sulla popolazione migrante e sui flussi migratori cambiano a seconda del Paese di origine, di quello di arrivo e della legislazione vigente. Secondo l'Onu, il 2005 è stato l'anno in cui le migrazioni globali hanno raggiunto il loro massimo. Nell'anno appena passato, la situazione è più complicata. Il repporto del Mpi fa alcuni esempi. In Spagna e Regno Unito il numero di ingressi è calato in maniera drastica e molti lavoratori est-europei, che hanno diritto a muoversi all'interno dell'Ue, sono tornati a casa, dove reggono meglio l'eventuale disoccupazione - in Spagna il ritorno a casa vale anche per le persone provenienti dal Marocco, con il quale Madrid ha un accordo. Un esempio clamoroso è quello delle domande di ingresso in Gran Bretagna, che negli ultimi due trimestri del 2006 erano più di 120mila e nei primi due del 2009 erano poco più di 40mila.
Le storie di persone che vanno e vengono sono normali - e questo è un enorme cambiamento con la fase delle grandi migrazioni del '900. Migliaia di emigrati con alto titolo di studio cinesi e indiani tornano a casa, mentre, ricorda il rapporto, del milione e 300mila est europei passati per la Gran Bretagna a lavorare, ben 800mila sono tornati a casa. Tra l'89 e oggi molte cose sono cambiate nell'est europeo e per tanti l'esperienza migratoria è stata una fase della vita, non un cambiamento definitivo. Del resto, se non si è africani sub-sahariani diretti in Europa, per andare e tornare dall'America o dall'Europa, basta un biglietto aereo, non uno di terza classe su un bastimento. Anche i contatti con la propria terra di origine sono più facili e così è più semplice capire se e quando è ora - o è possibile - tornare a casa.
Durante una recessione, lo sviluppo del Paese di origine è un altro dei fattori che cambia tutto. La recessione ha infatti determinato un calo piuttosto significativo nell'emigrazione dall'India verso gli stati petroliferi del Golfo e dei messicani verso gli Stati Uniti (meno 40 per cento). Da una parte c'è la diminuzione della domanda di manodopera a basso costo per i lavori più duri, dall'altra lo sviluppo di due Paesi emergenti rende più facile l'opzione "rimanere a casa" quando il futuro all'estero non è promettente.
L'esempio opposto sono le FIlippine, da dove il flusso migratorio non si interrompe: nel 2008 sono partite quasi un milione e 200mila persone. Per Paesi come l'arcipelago asiatico, la cui economia è sostenuta in maniera determinante dalle rimesse, il 2009 è stato un anno duro. Per coloro che lavorano spesso in edilizia, nella ristorazione, nelle pulizie e nei servizi alla persona, l'effetto della recessione è stato pesante. Il calo delle rimesse in Moldavia è del 37 per cento. Una tragedia per un Paese che si regge per un terzo dell'economia, sui soldi spediti a casa dai lavoratori partiti per l'Europa. Per qualcuno, i soldi spediti a casa continuano ad aumentare anche quest'anno. Non basta il settore di inserimento lavorativo a spiegare il crollo delle rimesse, anche il Paese di arrivo è importante. Gli unici quattro Paesi verso cui il flusso non è calato sono Pakistan, Bangladesh, Capo Verde e Filippine e, la maggior parte dei quattrini arrivano da India e Arabia Saudita. Per chi è emigrato verso Europa e Stati Uniti (dall'est e dal Centroamerica), le cose sono andate molto peggio.
La recessione ha avuto un altro effetto importante. Va dato atto - per modo di dire - al governo italiano di non essere stato l'unico ad aver dato una stretta, il rapporto cita Paesi molto diversi tra loro che in varie forme hanno cercato di ridurre i flussi migratori: dalla Tanzania, al Kazakistan, dalla Russia, alla Corea del Sud, alla Tailandia.
Caso a parte lo fa la Cina, che con i suoi 140 milioni di migranti interni, vive un fenomeno speciale. Anche nel gigante asiatico gli effetti della crisi si sono fatti sentire: la vacanza del Capodanno cinese è il momento in cui tutti tornano nelle campagne per festeggiare. Quest'anno, molti sono rimasti a casa.

Liberazione 09/09/2009, pag 7

Alla Innse di Milano, per il lavoro e la dignità operaia

Claudio Bellotti*
Franco Calamida**
Il 31 gennaio, fra poche ore, a meno di ulteriori proroghe scadrà l'ennesimo ultimatum contro i lavoratori della Innse presse di Milano: si intima di sgomberare il presidio organizzato dai 49 lavoratori che da nove mesi difendono caparbiamente il proprio posto di lavoro, il patrimonio produttivo e professionale rappresentato dalla fabbrica.
Dal 31 maggio scorso presidiano la fabbrica; hanno mandato avanti la produzione da soli per quasi tre mesi, garantendo produzione e commesse e dimostrando che la fabbrica è viva; hanno organizzato una lotta esemplare, una presenza costante con una autentica autorganizzazione che è stata in grado di diventare un punto di riferimento importante per tutti coloro che si trovano ad affrontare le conseguenze di questa crisi devastante. Avrebbero persino un possibile acquirente e delle commesse per lavorare.
E invece no: la "logica" di questo sistema dice che si deve usare la "forza pubblica" per impedire di lavorare a chi vorrebbe e potrebbe farlo; dice che si deve gettare al vento un capitale umano e tecnico in nome dell'ennesima speculazione edilizia, merce evidentemente troppo rara nella Milano che prepara l'Expo!
Dice che ha ragione un padrone che ha ricevuto una fabbrica efficiente quasi in regalo e la vuole smantellare, e ha torto chi in quella fabbrica ci ha passato la vita e vorrebbe vederla continuare a produrre.
La storia degli operai della Innse parla a tutti i lavoratori che oggi si trovano di fronte alla cassa integrazione, ai licenziamenti, alle chiusure e alle delocalizzazioni aziendali.
Per questo pensiamo che non solo si debba stare al loro fianco come è già avvenuto e se possibile ancora di più, ma che si debba anche aprire una riflessione sul significato profondo di questa vicenda per noi, Partito della rifondazione comunista, per il sindacato e per tutti coloro che non intendono rassegnarsi alla logica della crisi capitalista.
Ancora in questi giorni si parla di massicci aiuti alle aziende. Nel mondo e in Italia è una corsa a chi propone di mettere più quattrini sul piatto delle banche, delle finanziarie, delle assicurazioni e anche di quei gruppi industriali che pure hanno fatto le loro fortune (e che fortune!) sul sostegno della mano pubblica, tra incentivi, rottamazioni, ammortizzatori sociali, sostegni diretti e indiretti e che oggi, dopo anni di superprofitti (dove sono finiti?) ci dicono che non c'è più denaro in cassa.
Alla Innse, come detto, ci sarebbe il lavoro e forse persino un imprenditore disposto a riprendere la produzione. In ogni caso riteniamo decisivo tenere un punto fermo: difendere i lavoratori della Innse significa difendere la continuità produttiva, l'esistenza non solo della fabbrica, ma anche di quella soggettività che ha dimostrato non con le chiacchiere, ma con una lotta tenace e faticosa, chi difende il lavoro e chi no, vale a dire i lavoratori stessi, il loro collettivo che rifiuta di disperdersi e che forse per la proprietà, per gli speculatori e per le forze politiche che governano questo territorio è una fonte di fastidio e preoccupazione più grande ancora della necessità di "valorizzare" speculativamente l'area che si vorrebbe dismessa.
Gli operai Innse ci hanno dimostrato nella pratica ciò che da anni ci ripete il movimento latinoamericano delle fabbriche sotto controllo operaio: "un'azienda può funzionare senza un padrone, ma non può funzionare senza i lavoratori!"
La lezione è per tutti noi, guai se non la ascoltiamo.
*segreteria nazionale Prc
**responsabile lavoro federazione di Milano

Liberazione 30/01/2009, pag 19

Bankitalia sconfessa i discorsi leghisti

Il gettito fiscale degli stranieri rappresenta il 4%, mentre assorbono soltanto il 2,5% della spesa sociale (scuola, sanità).

I migranti costano poco e rendono molto.

Laura Eduati
Sono le nude cifre a sconfessare intere carriere politiche.
Cifre come quelle contenute nella ultima relazione della Banca d'Italia per il 2008 dove è indicato che gli immigrati versano il 4% del gettito fiscale e contributivo ma assorbono soltanto il 2,5% delle spese per sanità, scuola e servizi sociali in genere. Con un linguaggio certamente rozzo, questo significa che gli stranieri sono utilissimi perché costano poco e rendono molto.
Il quadro fornito dal governatore Mario Draghi aggiunge soltanto un tassello a quello che da anni sostengono gli economisti, e cioè che la presenza degli immigrati costituisce una risorsa notevole per l'economia italiana.
Sono oltre due milioni i lavoratori stranieri in Italia - precisamente 2.194.179 - e tra costoro quasi l'85% è costituito da immigrati extracomunitari, mentre i restanti provengono da paesi dell'Unione europea. Tutti insieme hanno contribuito ad un gettito fiscale di sei miliardi di euro, mentre hanno spedito praticamente la stessa cifra alle famiglie rimaste nei paesi di origine, le cosiddette "rimesse". Secondo uno studio pubblicato dalla Cgia di Mestre a metà maggio, la maggioranza degli stranieri lavora come dipendente (66,2%), gli autonomi sono oltre trecentomila ovvero il 15% e le colf o assistenti famigliari regolarmente dichiarate costituiscono il 18,1% della forza lavoro.
Che gli immigrati facciano ormai parte integrante del tessuto produttivo italiano - e non dimentichiamoci che generano quasi il 10% del Pil - ormai è cosa assodata. Eppure il centrodestra, specialmente la Lega, continua nei suoi discorsi pubblici a trattarli come ospiti indesiderati. «Io penso che non vada dato assolutamente il voto agli immigrati. C'è gente che non è radicata nel nostro paese e si prende potere politico e non si saprebbe in che modo il nostro paese finirebbe. Il Paese è nostro, non degli immigrati» dihiarava Umberto Bossi nel 2006. Soltanto poche settimane fa, a marzo, lo stesso leader del Carroccio ricordava che il piano-casa doveva forzatamente escludere i cittadini non italiani: «Non vorrei che facessero le case per sistemarvi gli extracomunitari. Ci vogliono limiti e indirizzi precisi». Sia mai.
Da svariato tempo la sinistra accusa la destra di volere soltanto braccia da lavoro, dimenticando che con le braccia arrivano persone e queste persone necessitano di alloggi, cure, scuole. In realtà la Lega si vanta di fornire agli stranieri regolari la migliore integrazione: «I dati ufficiali», ha ricordato recentemente il senatore leghista Mario Pittoni, «dicono che dove governa il Carroccio, come a Treviso o Verona, gli immigrati si integrano con minori difficoltà».
Sarà pur vero, ed è altrettanto vero che la forza contundente dell'attuale governo è diretta principalmente contro gli illegali e non contro i regolari. Ma ostacolare il raggiungimento del permesso di soggiorno è ostacolare l'integrazione dei futuri migranti regolari - che, ci si dimentica, sono sempre le stesse persone, cambia soltanto il possesso di un permesso di soggiorno. A gennaio il capogruppo della Lega alla Camera, Roberto Cota, difendeva la proposta leghista di chiedere agli immigrati 50 euro per il permesso di soggiorno (ora con il ddl sicurezza ne chiederà 200) spiegando che per rilasciare questi documenti lo Stato «deve mettere in piedi una serie di attività che costano».
Ancora una volta: i migranti non pesano, semmai fanno guadagnare. Lo dimostra una stima della Caritas: nel 2005 i Comuni italiani spesero 136 milioni di euro in servizi dedicati esclusivamente agli stranieri, cifra che equivale al 3,7% delle entrate fiscali assicurate dagli stessi migranti. Naturalmente i cittadini non italiani usufruiscono anche di servizi estesi agli italiani (asili nido, mense, etc.) dove l'utenza straniera, poniamo, potrebbe arrivare al 20% e cioè al triplo della presenza straniera in Italia (6%). Ebbene, in quel caso i Comuni avrebbero speso 700 milioni di euro e cioè appena il 20% delle entrate fiscali fornite dai migranti. Se fosse importante soltanto il dare e avere, allora i migranti risulterebbero un affare d'oro.
Se non fosse abbastanza, il rapporto di Unioncamere del 2008 forniva un panorama ancora più roseo sull'export: «Ben il 9,2% del valore aggiunto italiano viene prodotto grazie agli immigrati», risorsa «indipensabile» per il Nord, l'agricoltura, l'industria manifatturiera e per l'edilizia.
Tuttavia i lavoratori stranieri vengono contnuamente discriminati: il datore di lavoro deve assicurare alloggio e biglietto di rientro al dipendente migrante, e deve subire continui controlli che verificano se effettivamente lo straniero lavora e dunque può ottenere un permesso di soggiorno. Inoltre gli stranieri che lavorano regolarmente faticano a rientrare nelle graduatorie degli alloggi pubblici per la precarietà del soggiorno regolare.
Bossi non cambia comunque idea. Lo scorso novembre ripeteva: «Gli immigrati? Per me sono una risorsa negativa».

Liberazione 02/06/2009, pagina 5

Boom del lavoro "a chiamata": più 75 per cento

Tra il 2009 e il 2007 il lavoro a chiamata è aumentato del 75%: a rilevarlo è l'Istat, che precisa che le imprese che hanno utilizzato almeno un "lavoratore intermittente" nel 2007 erano 48.000, due anni dopo erano quasi raddoppiate, con una forte concentrazione (54,5%) nel settore degli alberghi e ristoranti. Infatti ognuna di queste imprese occupa in media 2,8 lavoratori a chiamata, che costituiscono il 37 per cento dei dipendenti dell'impresa. Il lavoro a chiamata è stato introdotto dalla legislazione italiana nel 2004, ma solo dal 2006 è diventato possibile raccogliere ed esaminare i dati, perché nel frattempo l'Inps aveva definito la relativa disciplina previdenziale. La crescita dei contratti di questo tipo viene rilevata nell'arco di due anni, e non di anno in anno perché a un certo punto, nella prima metà del 2008, era intervenuta una modifica della legislazione che ne limitava l'applicazione ai settori del turismo e dello spettacolo. Ma nel luglio dello stesso anno è stata ripristinata la disciplina precedente, e così i contratti a chiamata hanno ricominciato a crescere fino a raggiungere le 111.000 unità. Secondo l'Istat, i lavoratori a chiamata lavorano molto meno dei colleghi con contratto a tempo indeterminato, in media meno di un settimo. Il mese in cui si lavora di più è ovviamente agosto.

Liberazione 27/08/2010, pag 4

La fine degli alibi

Luciano Muhlbauer

Un pregio questo profondo agosto l'ha avuto, con i suoi meeting e i suoi dibattiti. Ha aiutato a fare un po' di chiarezza, ad esplicitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, di che cosa stiamo parlando, quando diciamo Pomigliano, Melfi o Fiat. Non a caso nessuno parla più di fannulloni, assenteismo o finti malati, come invece si faceva senza ritegno ai tempi del referendum di Pomigliano. E assume senso compiuto anche quell'irriducibile opposizione della Fiat al reintegro "nel proprio posto di lavoro" - e non nella saletta sindacale - dei tre operai di Melfi.
No, tutte queste cazzate, ci si permetta il termine, sono state spazzate via dai dotti discorsi di ministri, capi confidustriali e amministratori delegati. Dobbiamo essere grati, in particolare, al ministro Tremonti e all'ad Marchionne, per avere autorevolmente attestato che le cose stanno esattamente come pensavamo che stessero.
Il primo, tra Rimini e Bergamo, ha in sostanza detto che viviamo in un mondo difficile, che siamo noi che dobbiamo adeguarci a questo e non questo a noi e che, quindi, certi lussi non possiamo più permetterceli. Si riferiva soprattutto a due "lussi": i diritti e la sicurezza sui luoghi di lavoro, comprese «robe come la 626». Il secondo, nel suo intervento di ieri a Rimini, non ha nemmeno fatto finta di citare l'assenteismo e si è dedicato invece a un discorso più generale. Secondo lui, ci vuole un nuovo patto sociale, un nuovo modello e questo significa, ovviamente, che bisogna buttare a mare quello vecchio. Ed è quello che sta avvenendo ora in Fiat: "la contrapposizione tra due modelli".
Marchionne non perde tempo a spiegare in dettaglio questo nuovo modello, vi allude soltanto, parlando di "responsabilità e sacrifici" e di competizione nel mondo. In cambio, però, è molto chiaro nell'individuare il modello da distruggere: «Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra "capitale" e "lavoro", tra "padroni"' e "operai"… Erigere barricate all'interno del nostro sistema alimenta solo la guerra in famiglia».
Potremmo fermarci qui con le citazioni di Marchionne, se non fosse che è stato anche protagonista di due cadute di stile, sebbene la platea ciellina non ci abbia fatto caso. Con la prima, ha attaccato gratuitamente i tre licenziati politici di Melfi, rinfacciandogli che «la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone». Con la seconda, invece, si è esercitato in una clamorosa, ma significativa omissione. E così, dopo aver rivendicato con forza il progetto "Fabbrica Italia" e affermato che «rispettare un accordo è un principio sacrosanto di civiltà», si è completamente dimenticato di accennare al caso delle produzioni assegnate quattro mesi a Mirafiori, poi sparite e, infine, riapparse in Serbia. Ma che ci vuoi fare, d'altra parte non si è nemmeno ricordato della parolina "cassa integrazione", che a breve arriverà anche per gli operai di Melfi.
Comunque, inutile scandalizzarci per qualche scorrettezza o bugia. Questo non è un gioco pulito, è un gioco pesante e non si prevedono prigionieri. Ma in cambio è trasparente. Non si tratta di avere meno assenteismo, più produttività eccetera. Tutto questo si potrebbe ottenere anche nel quadro normativo e contrattuale esistente (peraltro tutt'altro che generoso con i lavoratori). No, il problema non è quantitativo, è qualitativo. Ed è generale.
Sacconi, Tremonti e Marchionne dicono e vogliono la stessa cosa, non cose diverse. E non sono nemmeno cose tanto nuove. Quasi nessuno si ricorda ormai, ma nel lontano ottobre 2001 l'allora ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, presentò il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Riga in più, riga in meno, c'era già tutto scritto, compreso l'obiettivo di abrogare lo Statuto dei Lavoratori, cioè il pacchetto fondamentale dei diritti, per sostituirlo con lo "Statuto dei Lavori".
L'anno scorso a Milano l'81,6% dei nuovi contratti di lavoro stipulati aveva carattere precario. Evidentemente vogliono il 100%, dappertutto e subito. E' l'assalto al cielo dei padroni.
Insomma, dopo le illuminanti chiacchiere agostane, non ci sono più alibi per nessuno. Non ci riferiamo ovviamente ai vari Bonanni, che di alibi non ne hanno più da tempo, ma a tutti gli altri.
A questo punto bisogna scegliere da che parte stare. Con Marchionne e Tremonti o con la Fiom, i sindacati di base e tutti quelli che si battono per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Suona brutale, lo so, ma questa è l'ora di schierarsi.

Liberazione 27/08/2010, pag 1 e 2

Il sogno di Marchionne: «Basta conflitti tra operai e padroni»

L'ad della Fiat: «A Melfi legge rispettata». L'operaio non reintegrato: «La lotta di classe la sta facendo lui»

Roberto Farneti
Basta con questi operai, rimasti fermi allo schema superato della lotta di classe, che con le loro baggianate sui diritti impediscono alle aziende di essere competitive sui mercati. Finendo così per segare il ramo sul quale anch'essi sono seduti. Tremila anni dopo l'apologo di Menenio Agrippa, Sergio Marchionne rispolvera antichi concetti appresi sui libri di scuola delle elementari per spiegare le relazioni industriali di cui ha bisogno una impresa moderna per navigare nel mare agitato della globalizzazione.
«Non siamo più negli anni '60» e occorre «abbandonare il modello di pensiero» che vede una «lotta fra capitale e lavoro e fra padroni e operai», spiega l'ad di Fiat rivolto alla platea del Meeting di Comunione e Liberazione in corso a Rimini. «Quello che serve - aggiunge - è un patto sociale per condividere impegni e sacrifici e dare al paese la possibilità di andare avanti». Detto da uno che guadagna cinque milioni di euro l'anno, a fronte degli 800 euro al mese di un operaio in cassa integrazione, suona un po' ipocrita. Non però per la platea ciellina, che ripetutamente lo applaude. Fuori dalla Fiera, un presidio della Federazione della Sinistra con bandiere rosse e megafoni tenta, inutilmente, di far sentire la propria voce mentre il manager, in maglietta nera con maniche arrotolate, prosegue il suo intervento.
Marchionne non ha gradito le «gravi accuse» piovute sulla Fiat dopo il licenziamento e il mancato reintegro dei tre sindacalisti di Melfi. «Abbiamo rispettato la legge - afferma - è inammissibile tollerare e difendere alcuni comportamenti, che vedono la mancanza di rispetto delle regole e di illeciti arrivati in qualche caso al sabotaggio». Dignità e diritti «non possono essere un patrimonio esclusivo di tre persone: sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti», contrattacca l'ad. Peccato che un giudice del lavoro abbia già smentito la versione dei fatti prodotta dall'azienda (e impudentemente riproposta da Marchionne), dichiarando l'antisindacalità dei licenziamenti dei tre operai e ordinando la loro immediata reintegra nel proprio posto di lavoro. Sentenza che la Fiat, però, pretende di applicare retribuendo i lavoratori senza farli lavorare. Proprio per chiarire gli aspetti procedurali di quel decreto il giudice Emilio Minio ha riconvocato le parti (azienda e Fiom) per il 21 settembre.
E le dure parole dei vescovi, ribadite anche ieri? E l'intervento di Napolitano? Marchionne fa finta di non capire: «Accetto quello che ha detto il Presidente della Repubblica come un invito a trovare una soluzione» alla vicenda di Melfi. Impegno subito incassato da Napolitano. Il manager non respinge l'offerta di dialogo avanzata dal leader della Cgil Guglielmo Epifani: «Sono disponibile a incontrarlo, però non dica sempre di no».
L'intervento di Marchionne non è ovviamente piaciuto agli operai di Melfi non reintegrati. «L'unica lotta di classe che c'è in Italia la sta facendo lui», commenta Giovanni Barozzino parlando ai microfoni di SkyTg24. Al suo fianco c'è Antonio Lamorte, anche lui della Fiom. «I diritti di tre persone - ribatte l'operaio - sono i diritti di tutti». I lavoratori non aiutano l'impresa? Fanno troppi scioperi? Una balla: «Lo stabilimento di Melfi ha festeggiato da poco i cinque milioni di vetture prodotte: credo che il merito sia soprattutto degli operai», ricorda Barozzino.
Dalla loro parte e contro Marchionne si schiera il segretario nazionale del Prc/Federazione della sinistra, Paolo Ferrero: «La Fiat - accusa - ha un'idea affatto arbitraria delle leggi dello Stato, la cui sovranità dovrebbe arrestarsi all'ingresso degli stabilimenti industriali in nome della competizione globale. Se questa è la globalizzazione - osserva Ferrero - allora no alla globalizzazione».

Liberazione 27/08/2010, pag 2

Confindustria con la Fiat, i vescovi con Napolitano

Melfi, ancora fuori i 3 operai. Marcegaglia: «Azienda in linea con la legge». Ma la Cei: «Così si negano i diritti»

Roberto Farneti
Impedendo il ritorno al lavoro dei tre operai di Melfi, licenziati e poi reintegrati dal giudice, la Fiat compie «un errore etico e nega i diritti della persona». E' un giudizio durissimo quello espresso ieri da mons. Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace. Un monito, quelle dell'arcivescovo, in linea con il «rammarico» espresso il giorno prima dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per quanto sta avvenendo nello stabilimento lucano. Intervento definito da Bregantini «nobilissimo, rapido, incisivo e lucido».
I lavoratori di Melfi torneranno in cassa integrazione dal 22 settembre all'1 ottobre prossimo. Invece di prendersela con i propri dipendenti, la Fiat farebbe bene a sbrigarsi a lanciare nuovi modelli sul mercato. Anche ieri Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli si sono presentati davanti ai cancelli della fabbrica, senza però varcarli. In teoria potrebbero farlo, ma non accettano di essere confinati in una saletta sindacale lontana quattrocento metri dalle linee di produzione. Secondo mons. Bregantini hanno ragione i lavoratori: «Non basta dire: "ti pago lo stipendio", tale comportamento dell'azienda denota, dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, un errore etico. La sentenza ha dato un'indicazione ma la Fiat - accusa l'arcivescovo - ha deciso di attuarla in questa modalità minimalista. In tal modo si priva il lavoratore della sua dignità, non basta soddisfare l'aspetto economico, c'è la dignità della persona».
Due alte autorità - una politica, l'altra spirituale - che concordano nel bacchettare l'arroganza di una azienda. Qualcosa vorrà pur dire. Una cosa è certa: con il suo modo di fare da antico "padrone delle ferriere", Sergio Marchionne sta demolendo l'immagine della più importante impresa italiana, oltre che quella sua di manager moderno. Per questo l'annunciata volontà di non compiere passi indietro fino al 6 ottobre, data in cui si discuterà in appello il ricorso presentato dalla Sata contro il reintegro, rischia di rivelarsi un boomerang per la Fiat. Lo dimostrano le contraddizioni che si stanno aprendo anche nello schieramento che fin qui ha sostenuto le scelte dell'amministratore delegato.
Il governo è diviso. Alle parole di critica del ministro dei Trasporti Altero Matteoli («le sentenze vanno rispettate anche quando non ci fanno piacere») sono seguite ieri quelle di plauso nei confronti di Marchionne da parte della sua collega Mariastella Gelmini. Dalla parte della Fiat si schiera anche la Confindustria: «Quello che ha fatto è in linea con la legge e con la prassi», afferma Emma Marcegaglia. E comunque sia «il vero tema - aggiunge - è l'esigenza di cambiare radicalmente le relazioni industriali». Cosa significhi lo spiega Giulio Tremonti: «Una certa qualità di diritti e regole non possiamo più permetterceli»: in uno scenario globale «non possiamo pensare che sia il mondo ad adeguarsi all'Europa, ma è l'Europa - afferma il ministro dell'Economia - che deve adeguarsi al mondo».
La direzione qui in italia, come è noto, è quella indicata dal nuovo modello contrattuale, non sottoscritto dalla Cgil. Il primo passo sarà la definizione di deroghe nel quadro del contratto dei metalmeccanici «perchè si possa applicare l'accordo di Pomigliano». Marcegaglia fa sapere che sono già state fissate le date per portare avanti il confronto tramite un tavolo con Federmeccanica e i sindacati sottoscrittori del contratto nazionale di categoria. Esclusa quindi la Fiom.
Ma anche il fronte sindacale è diviso. «Condividiamo il monito importante della Cei», fa sapere l'Ugl, contraria all'ipotesi di nuove deroghe al contratto nazionale. Sul fronte opposto si posiziona il segretario del Fismic, Roberto Di Maulo, aziendalista al punto di attaccare Napolitano: il suo intervento, azzarda, rappresenta «una grave ingerenza nel merito dell'operato dei magistrati che debbono giudicare il merito della questione». In palese difficoltà la Cisl. Non avendo il coraggio di dire di che non è d'accordo con Napolitano e con il richiamo della Cei nei confonti della Fiat, Raffaele Bonanni interpreta a proprio uso e consumo le parole del Capo dello Stato che, a suo dire, conterrebbero un richiamo anche nei confronti della Cgil.

Liberazione 26/08/2010, pag 2

«La Sata ci umilia, intervenga Lei Presidente»

Ampi stralci della lettera al presidente

Pubblichiamo ampi stralci della lettera inviata a Napolitano dai tre operai licenziati dalla Fiat di Melfi e non ancora reintegrati: «Ill.mo Presidente, ci rivolgiamo a Lei, quale massima carica dello Stato e supremo garante della Costituzione, per sottoporre alla sua attenzione una vicenda, la cui eco da diversi giorni ha raggiunto tutti gli organi della stampa nazionale, che non lede soltanto i nostri diritti di cittadini e di lavoratori ma colpisce direttamente i diritti collettivi e generali degli operai e dello stesso sindacato a cui siamo iscritti. Siamo i tre operai, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, iscritti alla Fiom-Cgil, licenziati dalla Fiat-Sata di Melfi in occasione di uno sciopero indetto unitariamente da tutte le sigle sindacali (...). Per l'azienda, ci saremmo resi responsabili di un reato avendo deliberatamente ostruito il transito a dei carrelli (Agv) che servono la linea di produzione all'interno dello stabilimento. In verità, non vi è mai stato alcun blocco dei predetti carrelli da parte nostra (...) così come comprovato dalle testimonianze di tutti i lavoratori presenti in occasione dello sciopero innanzi detto e da tutta la Rsu unitaria.
Non si tratta soltanto della nostra versione dei fatti, la quale potrebbe risultare viziata dalla carità di parte, ma di ciò che ha stabilito il Tribunale di Melfi, in funzione di Giudice del lavoro, adito dalla Fiom-Cgil ai sensi e per gli effetti dell'art.28 della legge 300 del 1970. In pratica, il magistrato ha riconosciuto l'antisindacalità della condotta posta in essere dalla Fiat-Sata, ordinandole conseguentemente di reintegrarci immediatamente nel nostro posto di lavoro. Tuttavia, sebbene il decreto del Tribunale di Melfi, depositato in cancelleria in data 9 agosto 2010 (...) abbia immediata efficacia esecutiva e non sia revocabile fino alla conclusione del giudizio di opposizione, l'azienda in un primo momento ci ha comunicato la reintegra sul posto di lavoro e, successivamente, con un telegramma, ci ha dato notizia della sua volontà di non avvalersi delle nostre prestazioni lavorative. (...)
In pratica, secondo l'azienda, potremmo continuare a percepire la sola retribuzione ma non avremmo il diritto ad essere reintegrati nella nostra postazione lavorativa. Allo stesso tempo, la Fiat Sata sostiene che potremmo svolgere regolarmente la nostra attività sindacale rimanendo confinati nella saletta sindacale la quale (...) è distante circa quattrocento metri dal luogo in cui svolgono il lavoro i nostri compagni. Non sia senza significato precisare che soltanto due di noi sono Rsu mentre Marco Pignatelli è un mero iscritto alla Fiom Cgil e non avrebbe "prerogative sindacali" da svolgere all'interno della saletta.
In realtà, questa riflessione ci consente di precisare che per il Tribunale di Melfi la condotta lesiva della sfera giuridica della Fiom Cgil si è sostanziata nei nostri tre licenziamenti che sono stati ritenuti, per l'appunto, antisindacali. L'ordine impartito dal Magistrato di rimuovere gli effetti della predetta condotta coincide espressamente con la nostra immediata reintegra nelle postazioni lavorative. Un diverso contegno da parte della azienda produce non solo una reiterazione della condotta antisindacale ed una permanente lesione della sfera giuridica della Fiom Cgil ma mortifica ed umilia la nostra dignità di lavoratori, prima ancora che di cittadini.
Signor Presidente, per sentirci uomini e non parassiti di questa società vogliamo guadagnarci il pane come ogni padre di famiglia e non percepire la retribuzione senza lavorare. (...) Ci rivolgiamo a Lei, perché richiami i protagonisti di questa vicenda al rispetto delle leggi e perché nel suo ruolo di massima carica dello Stato sia da garanzia del rispetto della democrazia, della Costituzione e dello Stato di diritto in modo da ripristinare e garantire il libero esercizio dei diritti sindacali nonché dei diritti costituzionalmente riconosciuti a tutti, all'interno dello stabilimento Fiat Sata di Melfi.
Signor Presidente, le chiediamo di farci sentire lavoratori, uomini e padri.

Liberazione 25/08/2010, pag 5

Fiat fuorilegge a Melfi, Napolitano: «Episodio grave»

I tre operai reintegrati dal giudice restano fuori della fabbrica. Matteoli rompe il silenzio di Sacconi: «Le sentenze vanno rispettate»

Roberto Farneti
Il comportamento fuorilegge della Fiat a Melfi imbarazza il governo ma anche quei sindacati, come la Cisl, più amici dell'amministratore delegato Sergio Marchionne che della Cgil. Imbarazzo reso più forte dall'autorevole intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La risposta all'appello che gli era appena giunto dai tre sindacalisti Fiom non ancora reintegrati sul posto di lavoro, malgrado una precisa sentenza del Tribunale di Melfi abbia accertato l'illegittimità del loro licenziamento, non si è fatta attendere. Napolitano, con una lettera, ha espresso ai lavoratori il suo «vivissimo auspicio, che spero - ha sottolineato - sia ascoltato anche dalla dirigenza della Fiat, che questo grave episodio possa essere superato, nell'attesa di una conclusiva definizione del conflitto in sede giudiziaria».
Oltre all'udienza d'appello del 6 ottobre sui licenziamenti, il tribunale dovrà valutare l'ulteriore ricorso presentato dalla Fiom dopo il mancato reintegro dei tre sindacalisti. Pur di affermare un principio ottocentesco, e cioè che tra le mura di una fabbrica chi comanda è l'impresa, la Fiat è infatti disposta a pagare lo stipendio a questi operai senza farli lavorare. Li vorrebbe confinati in una saletta distante quattrocento metri dalla produzione effettiva, lontani dai loro colleghi.
Ma in Italia - purtroppo per Marchionne - esistono leggi che valgono per tutti. Un ministro del Lavoro dovrebbe essere il primo a saperlo. La scelta di non pronunciarsi su questa vicenda da parte di Maurizio Sacconi era ed è perciò palesemente insostenibile. Se ne rende conto persino un politico non certo sospettabile di nutrire simpatie nei confronti della Cgil, come il ministro dei Trasporti Altero Matteoli: «Credo che le sentenze vadano rispettate, anche quando non ci fanno piacere», ha detto ieri Matteoli commentando il comportamento della Fiat a Melfi. «Se il nostro Paese è uno stato di diritto - ha aggiunto il ministro - non lo può essere a fasi alterne».
Parole di puro buon senso. E allora come mai tanta sfrontatezza da parte della Fiat? Perché la posta in palio nel braccio di ferro in corso con la Fiom - a Melfi come a Pomigliano - va oltre il posto di lavoro di quei tre operai. Lo sa bene il sottosegretario allo Sviluppo economico Stefano Saglia: «Il problema - ammette candidamente Saglia - è che con questa vicenda, così come con Pomigliano, si stanno riscrivendo le regole delle relazioni industriali del nostro paese, a fronte di una decisione che è stata condivisa da tutti, e non dalla Cgil, di un rinnovo degli accordi sulle relazioni industriali». Se l'obiettivo è questo, aggiunge Saglia, «credo che Fiat non debba mettere in imbarazzo quella parte importante del sindacato che ha condiviso questo percorso con sacrifici e difficoltà».
Imbarazzo, peraltro, emerso in modo evidente nello scambio di battute avvenuto ieri nel corso della trasmissione Radio Anch'io tra il vicesegretario generale della Cgil, Susanna Camusso e il numero uno della Cisl Raffaele Bonanni. «Non è che c'è qualcuno che siccome investe ha diritto di violare le regole. Con una logica così si va all'infinito», ha osservato Camusso riferendosi alla Fiat. «Chi non rispetta le regole è la Fiom», ha replicato Bonanni. Il leader della Cisl, da buon sindacalista, ha definito «problema assolutamente residuale» l'ingiusto licenziamento di tre lavoratori di Melfi e la mancata osservanza da parte dell'azienda di un ordine del tribunale. Per Bonanni non è una questione di diritto ma di opportunità: la Fiat, consiglia il segretario della Cisl, applichi la sentenza e non vada «dietro la Fiom che vuole questo: fa scioperi che non gli riescono, non rispetta la maggioranza dei sindacati, non rispetta niente. Ha bisogno di questi duelli per far vedere che esiste». Strana accusa nei confronti di un sindacato che, di recente, ha vinto le elezioni delle Rsu proprio a Melfi.

Liberazione 25/08/2010, pag 5

Melfi, un'occasione per la sinistra

Dino Greco
Che Marchionne stia allo statuto dei lavoratori come Berlusconi sta alla Costituzione è faccenda ormai acclarata: fine della cortina fumogena che ammantava il brevissimo "nuovo corso" della Fabbrica Italiana di Automobili Torino. E fine dell'illusione che aveva rapito gli estasiati neofiti della ex-sinistra moderata, convinti di avere trovato in Sergio Marchionne il moderno interprete del capitalismo democratico da loro agognato. La madre di tutte le imprese torna dunque ad essere la "zona franca" dove i lavoratori sono soltanto numeri, dove neppure la magistratura può ripristinare diritti violati perché la legge dell'azienda è la sola che conta, la sola davvero legittima. E se quella sancita nelle aule di giustizia vi si oppone vuol dire che si è di fronte ad un'incongruenza da sanare, perché per la Fiat il potere giudiziario dovrebbe aderire, come un guanto, a quello reale, quello che vive nei rapporti sociali dominati dal capitale. La Fiat ritiene di avere, obtorto collo, pagato il suo debito con i lavoratori ingiustamente licenziati corrispondendo loro il salario, ma non riammettendoli al lavoro: una operazione che unisce il mobbing all'attentato alla libertà sindacale. Silenzio tombale del governo complice.
Chi invece non smette di parlare è il capo della Cisl. L'ossessione fobica per la Fiom, vale a dire per un sindacato che non rinuncia a comportarsi come tale, possiede come un demone implacabile Raffaele Bonanni. Il quale ne è a tal punto divorato da non riuscire a pronunciare parole elementari, di solidarietà incondizionata, nei confronti dei lavoratori licenziati dalla Fiat per rappresaglia antisindacale, ma che Marchionne pretende di tenere fuori dai cancelli malgrado la sentenza con cui la magistratura li ha reintegrati nel posto di lavoro. Se un superficiale rimbrotto egli muove alla Fiat è quello di cadere nella trappola tesa dai metalmeccanici della Cgil. In sostanza, di fare di quell'organizzazione una vittima e dunque di rafforzarla.
Un paio di settimane fa avevamo definito il comportamento di Bonanni come un irrefrenabile impulso servile che si manifesta ormai sistematicamente, ora nei confronti del governo, ora di fronte al padrone, anche e proprio quando l'attacco ai lavoratori e ai loro diritti si fa più esplicito e liquidatorio. Un collateralismo tanto sbracato da risultare umoristico, se le conseguenze materiali di un così plateale disarmo non fossero tragiche per l'intero mondo del lavoro dipendente, colpito duramente dalla crisi, da una politica governativa incapace di pensare una benché minima risposta e da una aggressività padronale che non trova efficace contrasto, né politico né sociale.
A meno che non ci si accontenti del profluvio di dichiarazioni, deboli anch'esse, che nutrono la stampa, senza lasciare alcun segno di sé. Anche Guglielmo Epifani, sia pure dopo avere condannato la protervia di corso Marconi, finisce per accodarsi al refrain di una Fiom chiusa a riccio e refrattaria a confrontarsi su orari, turni e organizzazione del lavoro. Cosa manifestamente non vera, come Maurizio Landini ha ampiamente spiegato, anche sulle colonne di questo giornale. Sempre che costituzione e contratto collettivo di lavoro non siano considerati merce barattabile.
Il fatto è che oggi la rappresentanza sindacale non è frutto di una competizione democratica, dove il voto dei lavoratori decida in modo trasparente il peso di ciascuna forza e ne legittimi il ruolo negoziale. La rappresentanza oggi è solo presunta. Peggio: essa è decisa dalla controparte che sceglie a suo gusto l'interlocutore più malleabile con cui trattare e concludere intese, scrupolosamente sottratte al giudizio vincolante degli interessati. Mai si è dato, in democrazia, un così plateale esproprio di sovranità. Oggi, la Cisl, la Uil, trasformatesi in sindacati di comodo, esercitano una rendita di posizione, una delega padronale al sottogoverno delle aziende in quel simulacro a cui è stato ridotto il confronto fra le parti sociali. Siamo tornati agli anni Cinquanta. Con una differenza. Che allora vi era sulla scena sociale una Cgil non prona ed una sinistra politica combattiva, dichiaratamente e fattivamente al fianco dei lavoratori, sicuramente affrancata da suggestioni interclassiste e non permeata dalla cultura liberista.
Con tutta evidenza, la crisi politica, in incubazione da tempo, precipiterà in autunno. Più per autocombustione della maggioranza che per il ruolo evanescente delle opposizioni che siedono in Parlamento. Sarà un bene se la sinistra che ne sta fuori troverà il modo di giocare un proprio ruolo autonomo, nella formazione degli schieramenti elettorali, nella proposta, nel progetto. E, ancor più importante, se la mobilitazione lanciata dalla Fiom per la metà di ottobre saprà raccogliere intorno a sé un arcipelago sociale da troppo tempo rattrappito e confuso. Per distribuire alla politica nuove carte, rispetto a quelle consunte con cui si celebrano i giochi dentro il palazzo.

Liberazione 25/08/2010, pag 1 e 5

Sindacalisti licenziati, la Fiat prende in giro il tribunale di Melfi

Riammessi in fabbrica, non possono lavorare. Epifani: «Sentenza non rispettata»

La Fiat se ne infischia delle sentenze emesse dai tribunali italiani. Lo ha dimostrato ieri non ottemperando, di fatto, all'ordine di reintegrare sul posto di lavoro i tre sindacalisti Fiom licenziati per rappresaglia dopo uno sciopero. "Comportamento sindacale": questo il giudizio a carico dell'azienda espresso, in primo grado, dal tribunale di Melfi.
Pur di non darla vinta ai lavoratori, i dirigenti della Fiat hanno per la prima volta adottato un comportamento inusuale per la casa automobilistica torinese. Hanno cioè riammesso i tre operai in fabbrica, confinandoli però in una saletta sindacale lontana dalle linee dove si assembla la "Punto Evo". Con il chiaro obiettivo di impedire loro la possibilità di entrare in contatto con gli altri lavoratori.
Misure «legittime», secondo la Fiat, che in un nota sostiene di aver «doverosamente eseguito» il provvedimento di reintegro emesso dal Tribunale di Melfi, confidando in un verdetto favorevole nel giudizio di appello, calendarizzato per il prossimo 6 ottobre. La Fiat infatti afferma «di poter ampiamente dimostrare che il comportamento tenuto dai tre scioperanti fu un volontario e prolungato illegittimo blocco della produzione e non esercizio del diritto di sciopero».
Di parere opposto la Fiom. Giorgio Cremaschi non usa giri di parole: «Se Sergio Marchionne, negli Stati Uniti che tanto ama, si fosse comportato come nell'Italia che tanto disprezza - dichiara Cremaschi - sarebbe stato arrestato. Il comportamento della Fiat infatti, cioè l'aggiramento e la presa in giro di una sentenza esecutiva del tribunale, sarebbe considerato oltraggio alla Corte e porterebbe all'immediato arresto del suo responsabile».
Anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, stigmatizza la linea dura adottata dalla Fiat: «Sembra un atteggiamento davvero in contraddizione - osserva ai microfoni del Tg3 - perchè non si rispetta una sentenza di reintegro della magistratura, si offende la dignità dei lavoratori e non si fa neanche l'interesse dell'immagine dell'azienda. Con questo accanimento - aggiunge Epifani - l'opinione pubblica si schiera con chi ha ragione anche se è più debole e non con chi usa la forza senza ragione».
Quello che soprende è che, di fronte a licenziamenti ritenuti illegittimi da un giudice, gli altri sindacati non assumano posizioni coerenti.
Per il segretario della Fismic, Roberto Di Maulo, la sentenza del tribunale di Melfi favorevole ai lavoratori sarebbe pericolosa e contraddittoria, perché insinuerebbe «la possibilità che durante uno sciopero possano realizzarsi azioni contra legem». Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, non sa fare di meglio che rivolgere un appello a Marchionne «affinchè non cada nella trappola tesa» dalla Fiom. «Credo che la Fiat stia sbagliando e dimostra di essere talvolta il rovescio della Fiom, che non è più un sindacato ma un movimento politico», sentenzia Bonanni.
Molto simile l'analisi della Uil: «Fra noi e la Fiom - spiega Luigi Angeletti - c'è una strategia molto diversa: l'idea di far tornare il Paese alla lotta di classe è semplicemente patetica. Noi pensiamo che, invece, sia essenziale la cooperazione fra imprese e lavoratori». Angeletti minimizza anche la decisione della Fiat di Melfi: «E' già successo, non faccio i nomi delle aziende perchè sarebbe di cattivo gusto, ma ci sono imprese che hanno pagato salari per lungo tempo senza far rientrare i dipendenti nei luoghi di lavoro».
Sta di fatto che l'aggressività di Marchionne non convince nemmeno personaggi fuori dalla mischia, come Carlo Scarpa, professore di Economia politica all'Università di Brescia: «O la Fiat non crede nel progetto Fabbrica Italia e cerca lo scontro per ritirarsi dando la colpa al sindacato oppure Marchionne pensa di poter vestire i panni di una Margaret Thatcher italiana e di cambiare da solo le relazioni sindacali nel Paese», commenta il cattedratico.
Da solo forse no, probabilmente pensa di farlo con l'aiuto di Cisl e Uil. Ieri Angeletti ha confermato che a settembre questi due sindacati concluderanno un accordo «per creare un segmento del contratto nazionale dei metalmeccanici che riguardi il settore auto, come già avviene per la siderurgia».

Liberazione 24/08/2010, pag 2

lunedì 23 agosto 2010

Manager come cavallette, guadagnano 500 volte più dei comuni lavoratori

Dal punto di vista giuridico non impegnano tutti i lavoratori
Ebbene sì, agli accordi separati si può resistere

"La paga dei padroni", un libro sugli stipendi d'oro in Italia

Maria R. Calderoni
«All'alba del 6 maggio 2004 l'ingegner Giancarlo Cimoli ricevette una telefonata destinata a cambiare la sua vita professionale e il suo conto in banca. A chiamare era Gianni Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi nel governo Berlusconi, che gli chiedeva la disponibilità a prendersi cura dell'Alitalia. La compagnia aerea pubblica stava precipitando».
La stranezza della mattiniera telefonata stava in questo: che il medesimo Giancarlo Cimoli, ingegnere chimico di Fivizzano (Massa Carrara), dal 1996 alla guida delle Fs, lasciava un'azienda coi conti disastrosamente in rosso e, nonostante ciò, gli veniva affidato il compito di rimettere in sesto la compagnia di bandiera, anch'essa con paurosi buchi di bilancio. Una stranezza davvero.
Infatti, come volevasi dimostrare, si sa come è andata a finire. L'Alitalia è colata a picco, ma a lui è andata benissimo, balzando al primo posto nella lista dei manager più pagati d'Europa: uno stipendio in media di oltre due milioni e mezzo di euro per ciascuno dei tre anni di incarico (praticamente il doppio di quanto percepito dell'amministratore delegato della Lufthansa, compagnia, peraltro, in utile per 453 milioni).
Il caso Cimoli è noto, sbattuto in prima pagina e anche finito all'attenzione della Corte dei Conti per via della strabiliante liquidazione - 7 milioni di euro - graziosamente elargitagli dalle Fs, ancorché uscite assai malconcie dalle sue cure. Ma, oltre a lui, lo strapagato sfascia-aziende Cimoli soprannominato Diesel?
Mica è un'eccezione, proprio no. Cavallette chiamate manager succhiano stipendi non cinquanta, non cento, ma cinquecento volte maggiori di quelli dei comuni lavoratori dipendenti (tutti noi).
E' un diluvio di milioni e stramilioni, ti escono dalle orecchie, questo urticante libro di due giornalisti - Gianni Dragoni e Giorgio Meletti - che ha per titolo "La paga dei padroni" e per sottotitolo "Banchieri, manager, imprenditori. Come e quanto guadagnano i protagonisti del capitalismo all'italiana" (Chiarelettere, pag. 268, Eur 14,60); arrivato alla fine ti ritrovi piuttosto arrabbiato, c'è qualcosa di storto, nel mondo.
Niente commenti, comunque; mai come in questo caso bastano le cifre. Famiglie vampire. Al top della classifica dei manager più pagati d'Italia, uno su quattro appartiene ai «cognomi blasonati» delle Dinasty familiari: «Tronchetti Provera, Pesenti, Caltagirone, Ligresti, Moratti, Romiti, Colaninno, Benetton, De Benedetti».
Scendiamo in qualche "dettaglio". Il Marco Tronchetti Provera, in cinque anni (2001-2006) da presidente di Telecom Italia e Pirelli ha percepito 34 milioni di euro, cioè 13 miliardi di lire all'anno, sic. Il Gian Luigi Gabetti, gran manager di casa Agnelli, presidente di Ifi e Ifil, nel solo 2005, a ottantun anni, ha intascato 22 milioni di euro.
Il Cesare Romiti, classe 1923, anche lui supermanager Fiat dal 1974 al 1998, si è portato a casa la somma più alta mai pagata in Italia sottoforma di liquidazione: 101,5 milioni di euro, insomma 200 miliardi!!! (e tu lavora e suda, popolo bue...).
Il Paolo Fresco, chiamato dagli Agnelli a sostituire Romiti, lui si becca subito 5 milioni e 220 mila euro come premio d'ingaggio; poi 6 milioni per cinque anni di stipendi (1998-2003); infine un bel pacchetto di "stock option" Fiat, che nel 2007 gli fruttano un guadagno netto di 3 milioni e mezzo di euro (e crepi la social card coi suoi 40 euro mensili).
Il Gabriele Galateri di Genola, presidente di Mediobanca, nel 2007 ha avuto un compenso di 3 milioni di euro, con una buonuscita di 8 milioni quando ha lasciato, dopo solo quattro anni di "lavoro". Il Vittorio Colao, amministratore delegato della Rcs dal 2004 al 2006, ha avuto nell'ordine: un bonus d'ingresso di 2 milioni di euro; stipendio fisso di un milione all'anno; 4 milioni e 800 mila euro di buonuscita.
E la signorina Jonella, chi era costei? Jonella Francesca Ligresti, 41 anni, la primogenita di suo padre, il costruttore-finanziere Salvatore Ligresti. Ovvero «la manager donna più pagata d'Italia, oltre 5 milioni di euro l'anno».
Quanto al fido Fedele Confalonieri, numero uno di Mediaset, nel 2007 ha preso di solo stipendio 3 milioni e 300 mila euro; mentre il Francesco Caltagirone junior (suo padre Francesco Gaetano è uno degli uomini più ricchi d'Italia, un patrimono di 2 miliardi di euro) ha guadagnato, sempre nel 2007, come presidente della Cementir, 5 milioni e 155 mila euro.
E via elencando. In fondo al libro si può consultare l'accecante elenco dei 100 manager più pagati, li trovate tutti. Matteo Arpe, Capitalia, liquidazione di euro 37.405.285 (31 maggio 2007); Cesare Geronzi Capitalia, liquidazione di euro 24.023.266 (30 settembre 2007); Corrado Passera, Intesa San Paolo, 3.503000 l'anno; Paolo Scaroni, Eni, 2.785.000 l"anno; Giorgio Zappa, Finmeccanica, 2.751.000 l'anno... E così via.
I soldi non danno la felicità? Sarà, ma come si desume dal benemerito listone, banchieri, manager, imprenditori, finanzieri e simili fanno a gara a chi se ne mette più in tasca. Così freddamente e scandalosamente, poi, da far perdere le staffe anche a Bruxelles, dove, all'ultimo tavolo Ecofin in data 24 maggio 2008, il commissario Almunia ha denunciato (il fenomeno non è solo italiano) il bubbone delle retribuzioni manageriali «completamente irresponsabili». E ci si è arrabbiato pure Tremonti: «Abbiamo difficoltà a tenere bassi i salari avendo al vertice delle aziende e delle banche signori che straguadagnano» (eh sì, ma il ministro dell'Economia è lui...).
Sapete niente di tal Alessandro Profumo, 52 anni, amministratore delegato di Unicredit? Ebbene, è uno che, nel "solo" 2007, ha guadagnato 9 milioni 426 mila euro, vale a dire «oltre 25mila euro al giorno», sì sì avete capito bene. Tuttavia, per non lasciare dubbi, i due autori chiariscono: «Secondo l'Ires, il centro studi della Cgil, nel 2007 i lavoratori dipendenti italiani hanno percepito in media 24.890 euro lordi. Dunque il numero uno dell'Unicredit ha incassato ogni giorno quanto un lavoratore medio in un anno». Dal che si evince («Ho studiato matematica, signor Galilei») che «un normale operaio o impiegato, per mettere insieme quanto Profumo in dodici mesi, dovrebbe lavorare 365 anni. In altri termini, una dinastia di lavoratori medi impiegherebbe almeno dieci generazioni a pareggiare il conto».
Incazziamoci.

Liberazione 28/01/2009, pag 10

Le tasse in Italia: chi le paga e quanto

Lavoratori dipendenti, imprenditori e lavoratori autonomi, pensionati. Analisi su com'è ripartita la pressione fiscale

Gian Paolo Patta
In genere si parla del fisco in relazione al suo peso sul Pil o sul lavoro. Conoscere in maniera chiara e immediatamente comprensibile quante tasse paga ognuna delle tre grandi categorie di contribuenti: dipendenti, imprenditori-autonomi e pensionati è impresa invece molto complessa.
Uno degli aspetti principali del patto sociale e costituzionale: l'equità fiscale, è mimetizzato. Non sfugge che questo oscuramento costituisce un problema per la qualità della democrazia.
Recentemente il Ministero del Tesoro ha pubblicato per l'anno 2006 dati più dettagliati sui redditi dichiarati e sull'Irpef pagata dai dipendenti e dai pensionati. Sottraendo questa parte di Irpef dal totale di quella pagata si possono calcolare redditi e imposte degli imprenditori e autonomi. Possiamo usare quindi quell'anno, il 2006, per cercare di capire il mistero di quanto pagano lavoratori, padroni e pensionati.

Pressione fiscale e Irpef
Primo aspetto: la pressione fiscale media in relazione al Pil.
Il Pil era 1479,981 miliardi. Le imposte ammontarono a 624 mld di cui 220 mld di indirette, 213 mld dirette, 189 mld di contributi effettivi e figurativi e 0,2 mld in conto capitale. Le imposte pesavano quindi per il 42,1 % del Pil.
Qui cominciano i problemi, perché nel Pil l'Istat calcola una quota di economia sommersa che nel 2006 stimava in 250 miliardi. Il Pil dell'economia legale, quella su cui si pagano le tasse dirette e i contributi, diventa 1230 miliardi e la pressione fiscale cresce al 50,7%. Una pressione fiscale di livello nord europeo (senza i benefici del sistema sociale svedese o danese). Nei confronti internazionali questo dato è importante perché l'Italia ha il primato del lavoro in nero e questo significa una pressione fiscale maggiore sulle persone che pagano rispetto a quella di altri Paesi.
Secondo aspetto: per calcolare quanto pagano i tre gruppi sociali presi in considerazione occorre ricordare che le imposte dirette non si pagano solo sui redditi da pensione o generati nella produzione ma sul complesso dei redditi individuali (terreni, immobili, pensioni di varia natura, interessi, lavoro dipendente o autonomo, ecc…).
I redditi generati nella produzione secondo l'Istat nel 2006, compreso sempre il nero, ammontavano a 608 miliardi di redditi da lavoro dipendente, 293 miliardi da lavoro autonomo e 102 miliardi da capitale (soprattutto dividendi e interessi). Secondo i dati desunti dalle dichiarazioni fiscali, invece, i redditi da lavoro indipendente erano solo 110 miliardi. Incrociando le valutazioni dell'Istat con le dichiarazioni emerge un "nero" del 10% nelle dichiarazioni dei dipendenti (sempre fatte dai loro datori di lavoro) e il dato che il reddito attribuito dall'Istat a piccoli padroni, quelli che occupano fino a 5 dipendenti, o autonomi era il 266% del reddito da questi effettivamente dichiarato al fisco (cioè due volte e mezzo).
Passando dai redditi primari generati dalla produzione a tutti i redditi che ogni contribuente è tenuto a dichiarare (a parte 14,2 milioni di lavoratori dipendenti e pensionati che vivono esclusivamente dei redditi da pensione e da lavoro):
- i redditi complessivi ai fini Irpef sono stati circa 741 miliardi, di questi 422 mld sono stati dichiarati dai contribuenti con un reddito prevalente da lavoro dipendente, 246 mld da quelli con reddito prevalente da pensione e 72 mld da quelli per i quali prevale una attività economica. Pensionati e lavoratori dipendenti dichiarano il 91,5% dei redditi complessivi ai fini Irpef!
-l'Irpef netta ammontava a 146 mld, comprese le addizionali comunali e regionali. I lavoratori dipendenti ne hanno pagati 88,5, i pensionati 44,5. Per differenza dal totale deduciamo che appena 13 mld sono stati pagati dagli indipendenti. Prima conclusione: l'Irpef è pagata per il 60,6% dai dipendenti, per il 30,4% dai pensionati e per il 9% da imprenditori e autonomi.

A proposito di contributi
Affrontiamo ora un altro grande capitolo: i contributi; dei quali, per inciso, ritengo sbagliata l'omologazione alle tasse, in quanto li considero una forma di ripartizione solidaristica dei redditi tra generazioni o se preferiamo la forma di risparmio più conveniente tra quelle offerte dal mercato.
Considerato che sono comunque inclusi nelle imposte, è interessante notare che (basandoci ancora sui dati Istat relativi al 2006) i contributi sociali ammontavano a 189 mld, di cui 165 mld (87,3%) versati dai lavoratori dipendenti e 23 mld (12,1%) dagli indipendenti. Gli indipendenti versano 3 punti percentuali in più rispetto all'Irpef perché ai soli fini contributivi sono definiti per decreto dei redditi annuali minimi per ogni categoria sociale e quindi è obbligatorio, ai fini del riconoscimento, un versamento minimo per ogni giornata lavorativa.
La somma del gettito di Irpef e contributi è 344 mld. I lavoratori dipendenti hanno pagato 263,5 mld (76,5%), gli indipendenti 36 mld (10,4%) e i pensionati (che ovviamente non versano contributi) hanno pagato solo l'Irpef e quindi 44,5 mld (12,9%).

Le imposte indirette, invece...
Di difficile attribuzione alle categorie sociali considerate la rispettiva quota di imposte indirette.
Quelle sui prodotti, (escludendo quindi Ici, Irap e imposta sul registro, ecc...) ammontavano sempre nell'anno preso in esame, il 2006, a circa 160 miliardi.
Per calcolare la parte attribuibile a ciascuno dei tre gruppi sociali, occorre valutare la quantità dei loro consumi effettivi sulla base dei redditi reali netti e non del solo dichiarato, meno la quota di reddito risparmiata. Qui vengono in aiuto i dati che Banca d'Italia pubblica nell'indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane, che sono il vero attore della spesa. Possiamo stabilirne una distribuzione proporzionale al reddito percepito dalle diverse categorie sociali, anche se tutti convengono che gli autonomi hanno una maggiore capacità di risparmio (37% dei redditi secondo Banca d'Italia, contro il 20 dei pensionati e il 25 dei dipendenti) e che gli indipendenti scaricano parte dell'Iva.
Secondo questa indagine i 10,8 milioni di famiglie con a capo un lavoratore dipendente nel 2006 hanno consumato 275,7 mld, i 9,23 milioni di famiglie con a capo un pensionato o ritirato dal lavoro 179 mld e i 2,8 milioni di famiglie con a capo un imprenditore o un autonomo 86 mld. Proporzionalmente a questa suddivisione dei consumi, soprassedendo sul fatto che gli autonomi non pagano una parte dell'Iva (auto, attrezzature, ecc.), si può stimare che le imposte siano così distribuite: lavoratori dipendenti 81,6 mld, pensionati 52,8 mld, imprenditori e autonomi 25,6 miliardi.

Tirando un po' le somme
A questo punto possiamo calcolare la reale pressione fiscale e contributiva sulle persone fisiche. Sul dichiarato: prelievo complessivo (Irpef, contributi e imposte indirette): lavoratori dipendenti 345 mld; pensionati 97,3; indipendenti 61,6 mld.
Eppure gli indipendenti secondo Banca d'Italia possedevano nel 2006 un reddito familiare superiore del 44% a quello dei dipendenti, un reddito individuale superiore del 48%, una ricchezza mediana superiore del 79% (quella finanziaria superiore del 200%). Il 22% degli indipendenti possiede patrimoni di oltre 500 mila euro contro il 7,4% dei dipendenti (quasi tutti dirigenti). E si potrebbe continuare.
Le restanti principali imposte sono l'Ires, l'Irap, l'Ici, le tasse sostitutive su dividendi e interessi. L'Ires insiste sulle società di capitali e non sulle persone fisiche, l'Irap origina, e corrisponde come gettito, ai contributi sanitari - principalmente dei lavoratori dipendenti e fino al 1996 valutati come prelievo sui loro redditi - trasformati con destrezza in imposta indiretta. Le imposte sostitutive sul capitale (dividendi, interessi, ecc...) sono prevalentemente tasse sui conti correnti (tassati al 27%) che posseggono l'89% delle famiglie e sugli interessi del debito pubblico che (tolto l'80% di essi in possesso di soggetti esteri e di banche) sono prevalentemente in possesso di pensionati e dipendenti. L'Ici nel 2006 era pagata anche sulla prima casa e quindi incideva su tutte le categorie sociali.
In conclusione: lavoratori e pensionati pagano circa il 90% delle tasse. Secondo l'Istat i redditi da lavoro dipendente lordi erano invece solo il 60% dei redditi primari e il margine operativo netto, cioè l'altro reddito primario da cui originano tutti i redditi da capitale (gli interessi, le rendite, i dividendi e gli utili) era il 40% dei redditi primari. Con una tassazione meramente proporzionale il gettito dovrebbe rispecchiare queste proporzioni. In osservanza del dettato Costituzionale che invece prevede la progressività, i redditi da capitale dovrebbero pagare oltre il 50% delle imposte essendo questi redditi concentrati nel 12,3% delle famiglie.
In Italia quindi lavoratori e pensionati mantegono la vita sociale e pubblica del Paese e non riescono a risparmiare e spesso si indebitano. L'altra classe sociale lucra i benefici pubblici e intanto accumula patrimoni. Patrimoni che non sono neanche tassati.
Gli operai che votano Lega perché pensano che le loro tasse vadano a Roma non si accorgono che i soldi che Roma ruba dalle loro tasche li mette in quelle di padroni e padroncini. Converrà che tornino a chiedersi chi mangia alle loro spalle (sia nato sopra o sotto il Po poco cambia).
Uscendo dalle medie che oscurano i reali rapporti di classe, la pressione fiscale sui redditi dei dipendenti, compresa la parte in nero, è del 56,7%, quella sugli imprenditori del 15,4%. Meditate, gente, meditate.

Liberazione 18/07/2009, pagina 6

Firmeresti questo accordo?

I capitoli del diktat con cui la Fiat riabilita il lavoro servile

Orario di lavoro
La produzione della futura Panda si realizzerà con l'utilizzo degli impianti di produzione per 24 ore giornaliere e per 6 giorni la settimana, comprensivi del sabato, con uno schema di turnazione articolato a 18 turni settimanali. L'attività lavorativa degli addetti alla produzione e collegati (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario e ferma la durata dell'orario individuale contrattuale, sarà articolata su tre turni giornalieri di 8 ore ciascuno a rotazione, secondo i seguenti orari: primo turno dalle ore 6.00 alle ore 14.00, con la mezzora retribuita per la refezione dalle ore 13.30 alle ore 14.00; secondo turno dalle ore 14.00 alle ore 22.00, con la mezzora retribuita per la refezione dalle ore 21.30 alle ore 22.00; terzo turno dalle ore 22.00 alle ore 6.00 del giorno successivo, con la mezzora retribuita per la refezione dalle ore 5.30 alle ore 6.00. La settimana lavorativa avrà pertanto inizio alle ore 6.00 del lunedì e cesserà alle ore 6.00 della domenica successiva. Lo schema di orario prevede il riposo individuale a scorrimento nella settimana. L'articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 1-3-2. Il 18° turno, cadente tra le ore 22.00 del sabato e le ore 6.00 del giorno successivo, sarà coperto con la retribuzione afferente la festività del 4 novembre e/o con una/due festività cadenti di domenica (sulla base del calendario annuo), con i permessi per i lavoratori operanti sul terzo turno maturati secondo le modalità previste dall'accordo 27 marzo 1993 (mezzora accantonata sul terzo turno per 16 turni notturni effettivamente lavorati pari a 8 ore) e con la fruizione di permessi annui retribuiti (P.A.R. contrattuali) sino a concorrenza. Le attività di manutenzione saranno invece svolte per 24 ore giornaliere nell'arco di 7 giorni la settimana per 21 turni settimanali. L'attività lavorativa degli addetti (quadri, impiegati e operai), a regime ordinario, sarà articolata su 3 turni strutturali di 8 ore ciascuno, con la mezzora retribuita per la refezione nell'arco del turno di lavoro a rotazione e con riposi individuali settimanali a scorrimento. L'orario di lavoro giornaliero dei lavoratori addetti al turno centrale (quadri, impiegati e operai) va dalle ore 8.00 alle ore 17.00, con un'ora di intervallo non retribuito. Per i quadri e gli impiegati addetti al turno centrale si conferma l'attuale sistema di flessibilità dell'orario di lavoro giornaliero (orario in entrata dalle ore 8 alle ore 9 calcolato a decorrere dal primo dodicesimo di ora utile). In alternativa, su richiesta delle organizzazioni sindacali nel caso in cui intendessero avvalersi della facoltà di deroga a quanto previsto dal D. Lgs. 66/2003 e successive modifiche e integrazioni in materia di riposi giornalieri e settimanali. Lo schema di orario per lo stabilimento prevede, a livello individuale, una settimana a 6 giorni lavorativi e una a 4 giorni. L'articolazione dei turni avverrà secondo lo schema di turnazione settimanale di seguito indicata: 3-2-1. Nella settimana a 4 giorni saranno fruiti 2 giorni consecutivi di riposo secondo il seguente schema: lunedì e martedì, ovvero mercoledì e giovedì, ovvero venerdì e sabato. Preso atto delle richieste da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, al fine di non effettuare il 18° turno al sabato notte, lo stesso viene anticipato strutturalmente alla domenica notte precedente. Pertanto il riposo settimanale domenicale avviene dalle ore 22 del sabato alle ore 22 della domenica.

Lavoro straordinario
Per far fronte alle esigenze produttive di avviamenti, recuperi o punte di mercato, l'azienda potrà far ricorso a lavoro straordinario per 80 ore annue pro capite, senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni interi. Nel caso dell'organizzazione dell'orario di lavoro sulla rotazione a 18 turni, il lavoro straordinario potrà essere effettuato a turni interi nel 18 turno, già coperto da retribuzione secondo le modalità indicate al capitolo orario di lavoro, o nelle giornate di riposo. L'azienda comunicherà ai lavoratori, di norma con 4 giorni di anticipo, la necessità di ricorso al suddetto lavoro straordinario e terrà conto di esigenze personali entro il limite del 20% con sostituzione tramite personale volontario. Con accordo individuale tra azienda e lavoratore, l'attività lavorativa sul 18° turno potrà essere svolta a regime ordinario, con le maggiorazioni del lavoro notturno: in tal caso non si darà corso alla copertura retributiva collettiva del 18° turno. Il lavoro straordinario, nell'ambito delle 200 ore annue pro capite, potrà essere effettuato per esigenze produttive, tenuto conto del sistema articolato di pause collettive nell'arco del turno, durante la mezzora di intervallo tra la fine dell'attività lavorativa di un turno e l'inizio dell'attività lavorativa del turno successivo. In questo caso la comunicazione ai lavoratori del lavoro straordinario per esigenze produttive saranno effettuate con un preavviso minimo di 48 ore.

Rapporto diretti-indiretti
Con l'avvio della produzione della futura Panda e in relazione al programma formativo saranno riassegnate ai lavoratori le mansioni necessarie per assicurare un corretto equilibrio tra operai diretti e indiretti, garantendo ai lavoratori la retribuzione e l'inquadramento precedentemente acquisiti, anche sulla base di quanto previsto dall'art. 4, comma 11, legge 223/91. Inoltre, a fronte di particolari fabbisogni organizzativi potrà essere richiesto ai lavoratori, compatibilmente con le loro competenze professionali, la successiva assegnazione ad altre postazioni di lavoro.

Bilanciamenti produttivi
La quantità di produzione prevista da effettuare per ogni turno, su ciascuna linea, e il corretto rapporto produzione/organico saranno assicurati mediante la gestione della mobilità interna da area ad area nella prima ora del turno in relazione agli eventuali operai mancanti o, nell'arco del turno, per fronteggiare le perdite derivanti da eventuali fermate tecniche e produttive.

Organizzazione del lavoro
Per riportare il sistema produttivo dello stabilimento Giambattista Vico alle migliori condizioni degli standard internazionali di competitività, si opererà, da un lato, sulle tecnologie e sul prodotto e, dall'altro lato, sul miglioramento dei livelli di prestazione lavorativa con le modalità previste dal sistema WCM e dal sistema Ergo-UAS. Le soluzioni ergonomiche migliorative, derivanti dall'applicazione del sistema Ergo-UAS, permettono, sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo, nell'arco del turno di lavoro, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Sui tratti di linea meccanizzata denominati "passo-passo", in cui l'avanzamento è determinato dai lavoratori mediante il cosiddetto "pulsante di consenso", le soluzioni ergonomiche migliorative permettono un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo o individuale a scorrimento sulla base delle condizioni tecnico-organizzative, che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti ciascuna. Per tutti i restanti lavoratori diretti e collegati al ciclo produttivo le soluzioni ergonomiche migliorative permettono la conferma della pausa di 20 minuti, da fruire anche in due pause di 10 minuti ciascuna in modo collettivo o individuale a scorrimento. Con l'avvio del nuovo regime di pause, i 10 minuti di incremento della prestazione lavorativa nell'arco del turno, per gli addetti alle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo e per gli addetti alle linee "passo-passo" a trazione meccanizzata con "pulsante di consenso", saranno monetizzati in una voce retributiva specifica denominata "indennità di prestazione collegata alla presenza". L'importo forfettario, da corrispondere solo per le ore di effettiva prestazione lavorativa, con esclusione tra l'altro delle ore di inattività, della mezzora di mensa e delle assenze la cui copertura retributiva è per legge e/o contratto parificata alla prestazione lavorativa, per tutti gli aventi diritto, in misura di 0,1813 euro lordi ora. Tale importo è onnicomprensivo ed è escluso dal TFR, dal momento che, in sede di quantificazione, si è tenuto conto di ogni incidenza sugli istituti legali e/o contrattuali e pertanto il suddetto importo forfettario orario è comprensivo di tutti gli istituti legali e/o contrattuali.

Formazione
È previsto un importante investimento in formazione per preparare i lavoratori e metterli in condizioni di operare nella nuova realtà produttiva. Le attività formative si svolgeranno contemporaneamente alla ristrutturazione degli impianti e saranno fortemente collegate alle logiche WCM. I corsi di formazione saranno tenuti con i lavoratori in cigs e le Parti convengono fin d'ora che la frequenza ai corsi sarà obbligatoria per i lavoratori interessati. Il rifiuto immotivato alla partecipazione nonché l'ingiustificata mancata frequenza ai corsi, oltre a dar luogo alle conseguenze di legge, costituirà a ogni effetto comportamento disciplinarmente perseguibile. Non sarà richiesto a carico azienda alcuna integrazione o sostegno al reddito, sotto qualsiasi forma diretta o indiretta, per i lavoratori in cigs che partecipino ai corsi di formazione.

Recuperi produttivi
Le perdite della produzione non effettuata per causa di forza maggiore o a seguito di interruzione delle forniture potranno essere recuperate collettivamente, a regime ordinario, entro i sei mesi successivi, oltre che nella mezzora di intervallo fra i turni, nel 18° turno (salvaguardando la copertura retributiva collettiva) o nei giorni di riposo individuale.

Assenteismo
Per contrastare forme anomale di assenteismo che si verifichino in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche, quali in via esemplificativa ma non esaustiva, astensioni collettive dal lavoro, manifestazioni esterne, messa in libertà per cause di forza maggiore o per mancanza di forniture, nel caso in cui la percentuale di assenteismo sia significativamente superiore alla media, viene individuata quale modalità efficace la non copertura retributiva a carico dell'azienda dei periodi di malattia correlati al periodo dell'evento. A tale proposito l'azienda è disponibile a costituire una commissione paritetica, formata da un componente della RSU per ciascuna delle organizzazioni sindacali interessate e da responsabili aziendali, per esaminare i casi di particolare criticità a cui non applicare quanto sopra previsto. Considerato l'elevato livello di assenteismo che si è in passato verificato nello stabilimento in concomitanza con le tornate elettorali politiche, amministrative e referendum, tale da compromettere la normale effettuazione dell'attività produttiva, lo stabilimento potrà essere chiuso per il tempo necessario e la copertura retributiva sarà effettuata con il ricorso a istituti retributivi collettivi (PAR residui e/o ferie) e l'eventuale recupero della produzione sarà effettuato senza oneri aggiuntivi a carico dell'azienda e secondo le modalità definite. Il riconoscimento dei riposi/pagamenti, di cui alla normativa vigente in materia elettorale, sarà effettuato, in tale fattispecie, esclusivamente nei confronti dei presidenti, dei segretari e degli scrutatori di seggio regolarmente nominati e dietro presentazione di regolare certificazione. Saranno altresì individuate, a livello di stabilimento, le modalità per un'equilibrata gestione dei permessi retribuiti di legge e/o contratto nell'arco della settimana lavorativa.

Cigs
Il radicale intervento di ristrutturazione dello stabilimento Giambattista Vico per predisporre gli impianti alla produzione della futura Panda presuppone il riconoscimento, per tutto il periodo del piano di ristrutturazione, della cassa integrazione guadagni straordinaria per ristrutturazione per due anni dall'avvio degli investimenti, previo esperimento delle procedure di legge. In considerazione degli articolati interventi impiantistici e formativi previsti nonché della necessità di mantenimento dei normali livelli di efficienza nelle attività previste, non potranno essere adottati meccanismi di rotazione tra i lavoratori, non sussistendone le condizioni.

Abolizione voci retributive
A partire dal 1 gennaio 2011 sono abolite le seguenti voci retributive, di cui all'accordo del 4 maggio 1987 Parte III (Armonizzazione normativa e retributiva): paghe di posto, indennità disagio linea, premio mansione e premi speciali. Le suddette voci, per i lavoratori per i quali siano considerate parte della retribuzione di riferimento nel mese di dicembre 2010, saranno accorpate nella voce "superminimo individuale non assorbibile" a far data dal 1 gennaio 2011 secondo importi forfettari.

Maggiorazioni lavoro straordinario, notturno e festivo
Sono confermate le attuali maggiorazioni comprensive dell'incidenza sugli istituti legali e contrattuali.

Polo logistico di Nola
È confermata la missione del polo logistico della sede di Nola. Eventuali future esigenze di organico potranno essere soddisfatte con il trasferimento di personale dalla sede di Pomigliano d'Arco.

Clausola di responsabilità
Tutti i punti di questo documento costituiscono un insieme integrato, sicché tutte le sue clausole sono correlate e inscindibili tra loro, con la conseguenza che il mancato rispetto degli impegni eventualmente assunti dalle organizzazioni sindacali e/o dalla RSU ovvero comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate per la realizzazione del Piano e i conseguenti diritti o l'esercizio dei poteri riconosciuti all'azienda dal presente accordo, posti in essere dalle organizzazioni sindacali e/o dalla RSU, anche a livello di singoli componenti, libera l'azienda dagli obblighi derivanti dalla eventuale intesa nonché da quelli derivanti dal CCNL Metalmeccanici in materia di: contributi sindacali, permessi sindacali retribuiti di 24 ore al trimestre per i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali delle organizzazioni sindacali ed esonera l'azienda dal riconoscimento e conseguente applicazione delle condizioni di miglior favore rispetto al CCNL Metalmeccanici contenute negli accordi aziendali in materia di: permessi sindacali aggiuntivi oltre le ore previste dalla legge 300/70 per i componenti della RSU, riconoscimento della figura di esperto sindacale e relativi permessi sindacali. Inoltre comportamenti, individuali e/o collettivi, dei lavoratori idonei a violare, in tutto o in parte e in misura significativa, le presenti clausole ovvero a rendere inesigibili i diritti o l'esercizio dei poteri riconosciuti da esso all'Azienda, facendo venir meno l'interesse aziendale alla permanenza dello scambio contrattuale e inficiando lo spirito che lo anima, producono per l'azienda gli stessi effetti liberatori di quanto indicato alla precedente parte del presente punto.

Clausole integrative del contratto individuale di lavoro
Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate e inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell'efficacia nei suoi confronti delle altre clausole.

Liberazione 20/06/2010, pag 2