giovedì 24 febbraio 2011

Inchiesta, militanza "sul campo" tra cassintegrati e precari

Tg regionale veneto, edizione delle 13.30: un imponente corteo di operai ha invaso l'asfalto rovente della Treviso-Mare, creando una lunga fila di camion e auto, e ai conducenti vengono distribuiti colorate bottiglie di bevanda energetica e un volantino che spiega i motivi della protesta: «Ci vogliono chiudere la fabbrica». Si trattava degli operai dello stabilimento Gatorade di Silea (Tv), su cui in quell'agosto 2010 giravano voci di chiusura entro la fine dell'anno. Ciò avrebbe comportato il licenziamento degli 80 dipendenti e dei 70 stagionali e precari, con imponenti ricadute sul tessuto sociale locale ma, soprattutto, sulle vite di quei lavoratori che, scoprimmo in seguito, con quel blocco della tangenziale raggiungevano il punto più avanzato della lotta contro la dismissione della loro fabbrica.
Mezz'ora dopo quella notizia, in 3 eravamo fuori i cancelli della Gatorade, 19 anni di media, senza sapere minimamente cosa volevamo fare, ma con la spontanea determinazione di prender parte a quel fatto che per noi, giovani militanti cresciuti nel benestante e "verde" Nord-Est, era assolutamente promettente. Iniziò così la nostra inchiesta in Gatorade, anche se capimmo solo a posteriori che ciò che avevamo fatto poteva essere catalogato così.
Il nostro primo contatto avvenne con la portinaia - «dipendente di una cooperativa», ci dice, sorpresa dalla domanda di quei 3 fittizi giornalisti circa il suo impiego. Dopo aver sogghignato al nostro presentarci come inviati di un inesistente giornalino locale, fece uscire una giovane Rsu. Anche lei rimase perplessa dalla situazione, ma senza tante precisazioni rispose con foga alle nostre domande perché «per noi la visibilità è essenziale, tanta gente deve sapere di noi». Sapemmo così che scioperi a singhiozzo duravano già da due settimane, per spingere la direzione ad incontrare le Rsu e a chiarire se le voci della chiusura erano fondate o no. Poco dopo ci raggiunsero altri 3 operai: M., già cassaintegrato in un'altra azienda; S., che parlò di lotte per il posto fisso; e M., stagionale a 50 anni.
Da quel primo incontro ci portammo a casa la convinzione dell'essersi calati nella materialità del lavoro, di aver iniziato qualcosa di importante, di essersi finalmente messi sulla strada della conoscenza diretta ed autogestita di quella "classe operaia" che fino ad allora avevamo solo sentito nominare.
Il secondo incontro con S., la giovane Rsu, avvenne in circostanze totalmente mutate: durante il tavolo che la direzione aveva concesso loro, gli operai avevano appreso che le voci della chiusura erano fondate. L'atmosfera era ora rassegnata, ma la rabbia di trovarsi a casa nonostante un 2010 di fatturati record li portò a sfogarsi, per «lasciare almeno una testimonianza di ciò che è successo, anche se tra 6 mesi siamo tutti a casa».
E fu infatti il terzo incontro, a poche settimane dalla chiusura della fabbrica, quello più proficuo ai fini dell'"inchiesta". Grazie a qualche lettura illuminante, le nostre domande furono più puntuali e indagarono il sistema produttivo, gli inquadramenti contrattuali, le strategie della multinazionale, le rivendicazioni sindacali, la "coscienza" dei lavoratori; e fu in quest'ambito che ricavammo le considerazioni più interessanti. Primo, l'orgoglio che quegli agguerriti cinquantenni operai specializzati nutrivano per il "loro" prodotto («Qui facciamo tutto noi, dal tappo al prodotto, ci vogliono anni per imparare a fare questo gioiello») e per la loro professionalità («Il nostro stabilimento è il migliore d'Europa, da qui partono le maestranze che insegnano negli altri stabilimenti come si fa quello che sperimentiamo qui dentro»); ma il piano industriale prediligeva la quantità alla qualità, e l'alta specializzazione dei lavoratori di Silea figurava evidentemente come onere da scaricare. Secondo, l'impossibilità di raggiungere i precari: fuggirono ogni tentativo di colloquio, anche se di lì a pochi giorni di loro non sarebbe rimasta traccia.
Per la cronaca, dal 31 dicembre lo stabilimento Gatorade di Silea è chiuso, ci sono 80 cassintegrati in più e altri 70 precari erranti nel mercato del lavoro. Ma l'esperienza in Gatorade ha significato per noi, 19 anni di media e nessuna esperienza di sindacalismo o vertenze, il rendersi conto del "da che parte ricominciare" per fare militanza sul campo, d'ora in poi utilizzando gli strumenti che compagni esperti ci stanno fornendo per sistematizzare il nostro lavoro e capirci di più di operai, crisi e fabbriche: magari queste competenze in futuro ci saranno ben più utili di tante riunioni tra compagni attorno a un tavolo.
Fabio Di Lisi, Ylenia Pavan, Jacopo Gerini e Martina Pasqualetto, FdS Preganziol (Tv)


Liberazione 24/02/2011, pag 14

Lotta europea per un servizio pubblico

Fabrizio Salvatori
Servizi postali: a poco più di un mese dalla data fatidica del primo gennaio del 2011 ancora non è certo che la liberalizzazione possa partire. In tutta Europa crescono le proteste sindacali e di enti locali contro un disegno che aprirebbe un ulteriore capitolo di concorrenza sregolata che si tradurrebbe in dumping sociale per i lavoratori.
L'occasione per fare il punto è stata un incontro europeo organizzato dal Coordinamento nazionale poste del Prc (sostegno della Sinistra europea e della Federazione del Prc di Trieste). Tra gli altri, hanno partecipato Sabine Wils, parlamentare tedesca eletta nel Gruppo confederale della Sinistra Unitaria Europea, a Strasburgo membro di commissione per l'ambiente, la sanità pubblica, la sicurezza alimentare e membro sostituto nella Commissione trasporti e turismo che si occupa anche delle Poste, membro del direttivo del gruppo di lavoro imprese e sindacati della Linke tedesca, cofondatrice e membro della rete europea delle sindacaliste e sindacalisti della Sinistra Europea; Michele Cimabue, responsabile del Coordinamento nazionale Poste del Prc; Patrizia Granchelli, impiegata delle Poste di Milano. Diversi gli intervenuti dall'estero: Karin Peucher dall'Austria, sindacalista appartenente al Blocco sindacale di Sinistra della Carinzia; Josef Stingl da Innsbruck, del Direttivo federale dell'Unione sindacale austriaca (Osterreichischer Gewerkschaftsbund); Nada Zendler, presidente del Comitato lavoratori postali della Slovenia; Cvetka Gliha dello Zsss (Unione Sindacati liberi di Slovenia); Breda Pecan, parlamentare della Repubblica di Slovenia, eletta nella Zdruzena Lista. Marino Calcinari ha svolto la relazione introduttiva.
La riorganizzazione del recapito, che qui comporterà l'allungamento della giornata lavorativa modulata su cinque giornate e la disarticolazione del servizio universale, partita senza troppe resistenze da parte sindacale il 13 dicembre, stenta a decollare. Ma è facile comprenderne i motivi: la ridefinizione improvvisata della logistica, lo smantellamento dei Cpo, la scarsa affidabilità del sistema geopost, la gestione degli esuberi, la cronica mancanza di scorte e, non da ultimo, una insofferenza crescente tra i lavoratori cui nulla viene garantito né sul versante della stabilità occupazionale, né su quello del rispetto delle norme contrattuali. Inoltre, il 31 dicembre 2010 è venuto meno il Ccnl e la discussione sulla piattaforma latita, ed è solo grazie ad una clausola di salvaguardia occupazionale - a suo tempo strappata dal Prc al governo Prodi nel 2006 in azienda - se gli attuali numeri dei dipendenti sinora non sono stati toccati. Con il 1° gennaio lo scenario è destinato a mutare.
Il 13 dicembre scorso è stata depositata una dichiarazione scritta al Parlamento Europeo che chiede «agli Stati membri di adottare tutte le misure necessarie per difendere le condizioni di lavoro, evitare ogni dumping sociale e perché sia assicurata l'erogazione del servizio universale nel corso di attuazione della Direttiva 2008/6 e di garantire che condizioni decenti di assunzione e di lavoro siano attuate da tutti gli operatori».
«Senza ingenerare falsi ottimismi - sottolinea Calcinari - è però possibile ipotizzare una moratoria che consentirebbe almeno temporaneamente ai lavoratori di riprender fiato ed organizzarsi costruendo consenso attorno alle parole d'ordine che anche qui abbiamo fatto circolare: "Stop alla liberalizzazione", "Poste pubbliche europee", "salari e contratto europei", "diritti europei", ecc. Ripensare alla Posta, insomma, come a un bene comune che deriva il suo valore dalla necessità di comunicare e far girare materialmente comunicazioni, informazioni, dati e non come mera occasione di profitto».
I servizi postali rappresentano un settore strategico che impiega oltre 5 milioni di persone e movimenta una cifra d'affari di 88 mld di euro. Ma in quei paesi dove la liberalizzazione c'è stata, ad es. in Svezia, le conseguenze visibili ed immediate sono state gli aumenti delle tariffe (francobolli) e la diminuzione di alcuni costi per le aziende. Dunque, una batosta per i consumatori, un regalo per le aziende.
L'attuale piano industriale di Poste Italiane che prevede la riorganizzazione del recapito e migliaia di esuberi è funzionale ad una idea di liberalizzazione che deprime il servizio universale, mortifica l'utenza, umilia i lavoratori.


Liberazione 24/02/2011, pag 15

In azienda non si respira, il Rappresentante per la sicurezza lo denuncia: licenziato!

Mi chiamo Vincenzo Labella di Baragiano Scalo (Pz) ex operaio della Linea legno Srl azienda del posto che produce infissi in legno. Ex poiché sono stato licenziato a fine agosto 2009, poiché in qualità di Rsu/Rls ho chiesto la messa in sicurezza delle aree più polverose della fabbrica, essendo prive del tutto delle aspirazioni. Vi lascio immaginare quanta polvere si produce in un'azienda che lavora il legno. Sono stato assunto nel 2001 come operaio qualificato e fino a quando non mi sono iscritto al sindacato (marzo 2008), ho lavorato nell'area montaggio e assemblaggio infissi. Subito sono stato spostato nell'area carteggiatura. In seguito mi sono candidato per le elezioni e sono stato eletto nell'aprile 2008 Rsu/Rls e da allora ho incominciato a fare le dovute richieste. Da allora è incominciato l'incubo, ogni volta che facevo osservare la pericolosità di postazioni o lavorazioni, venivo perseguitato dal titolare o da chi per esso, avevo perso tutta la tranquillità, sia dal punto di vista lavorativo che da quello familiare. Dopo un anno circa di richieste, per altro per iscritto tramite raccomandate o per fax, ho fatto intervenire l'Asl di Potenza, la quale accertava tutte le inadempienze che da tempo segnalavo, intimando la messa in sicurezza e sanzionando l'azienda. Dopo esattamente due settimane mi fecero recapitare la lettera di licenziamento con la motivazione:chiusura totale e definitiva dell'area carteggiatura, guarda caso proprio dove ero stato spostato dopo essermi iscritto al sindacato! Il licenziamento è stato impugnato e purtroppo, anche in seguito a varie vicissitudini, il processo avrà inizio a fine maggio 2011. L'azienda ha fatto la domanda riconvenzionale e addirittura mi chiede un risarcimento danni di euro 70mila solo perché in seguito al licenziamento è uscito un articoletto su qualche giornale, il quale avrebbe rovinato l'immagine dell'azienda. Vi chiederete: e gli operai che ti hanno eletto cosa hanno fatto? Nulla, assolutamente nulla, non hanno speso una parola in mio favore per paura che l'azienda avrebbe chiuso e sarebbero rimasti tutti senza lavoro. Adesso sono senza lavoro con moglie e due figli di 11 anni e con un mutuo da pagare, ma soprattutto la cosa che più mi fa rabbia che non esista una legge che tutela il rappresentante sulla sicurezza dagli "squali padroni" che ogni giorno mettono a rischio la salute dei propri dipendenti.
Vincenzo Domenico Labella


Liberazione 24/02/2011, pag 14

Noi, schiavi tipici

Nel Bel Paese dove più di quattro milioni di lavoratori sono precari noi dovremmo considerarci fortunati. Siamo giovani e abbiamo quello che si dice un "posto fisso", ma la realtà che viviamo è quella di un "precariato permanente", una condizione di lavoro che ti rende "atipico" dentro. Atipici a noi stessi, schiavi "tipici" solo per i nostri capi.
Abbiamo un orario di lavoro, una sede prestigiosa in una bella e grande piazza di Roma, piazza Venezia, reperti storici antichissimi lungo le pareti delle scale che facciamo ogni giorno per entrare nelle nostre stanze. Poi finisce la poesia e inizia la prosa, anzi il dramma. Nelle stanze ognuno ha un telefono, una scrivania e stop. Detta così sembra una mansione di un "call center". E in effetti non è molto distante. Purtroppo però facciamo i produttori assicurativi presso le Assicurazioni Generali. La nostra busta paga è quanto di più incredibile si possa immaginare. Ha una parte fissa, molto esigua, circa cinquecento euro al mese, e una parte variabile, tutta da costruire attraverso la vendita delle polizze. Il guaio è che la parte variabile si compone di provvigioni (molto basse) e premi produzione legati ai parametri, che è sempre l'azienda a decidere, in modo unilaterale e che ogni anno aumenta con percentuali del 15-25%. Alla fine del mese il nostro stipendio, se così lo possiamo chiamare, non supera i mille euro, anzi il più delle volte i 700-800 euro. Risultato, il lavoro è fisso, ma in queste condizioni è un inferno. Ha tutti i vantaggi, per l'azienda, di una libera professione, e tutti gli svantaggi, per noi, di un lavoro fisso.
La parte variabile dovrebbe rappresentare la nostra "libera intrapresa", o meglio la nostra capacità di procacciare clienti e "produrre" contratti assicurativi. Quello che è assurdo è che non siamo per niente liberi, perché l'azienda, in regime di lavoro dipendente, pretende il rispetto di un orario rigido non previsto dallo stesso contratto collettivo nazionale. Ogni "uscita", finalizzata alla visita del cliente, deve essere minuziosamente documentata, sennò subito il responsabile ti rimette in riga o addirittura arrivano le sanzioni disciplinari.
Ma veniamo a una delle note più dolenti, quella del trattamento subito da chi "non raggiunge" i parametri stabiliti da Generali. Ciò che ti aspetta non è la solita ramanzina ma una vera e propria umiliazione. Nulla ti giustifica neanche che tu ti sia assentato per malattia. Nemmeno che per procurare tre appuntamenti devi fare almeno cento telefonate. Nemmeno le difficoltà legate alla legge sulla privacy. Già, perché i nominativi da contattare li dobbiamo procurare noi, l'azienda non ci aiuta affatto, se non in rarissimi casi e in maniera estemporanea.
Se non raggiungi gli obiettivi puoi anche venir sanzionato. Una sorta di "busta paga" negativa che a quel punto si mangia anche quella elemosina della parte fissa della retribuzione. Alla fine, dai le dimissioni. Il turn over nel settore è molto alto. E il 70-80% degli esodi sono legati proprio alle dimissioni volontarie. Perché lo si fa? C'è una cosa nella testa degli uomini, e quindi anche dei produttori assicurativi, che è chiamata dignità o, se volete, rispetto di se stessi. Capita a molti di noi che quando esci dalla stanza del capo, dopo uno di quei colloqui per fare il punto sul tuo rendimento, è la cosa che smarrisci con maggior facilità. Il capo deve indurti ad andartene. Altri sono pronti al tuo posto. E l'azienda può tirar fuori altra linfa per il suo arricchimento. Li prendono laureati, ovviamente. E li allettano con tante prospettive di carriera. La laurea serve a presentare al cliente una bella immagine dell'azienda.
La carriera è solo un miraggio, ma è la promessa più usata per convincerci a dare tutto alla compagnia, impegno, lavoro, vita, affetti, due o tre dei nostri migliori anni. Alcuni di noi hanno detto già in sede di colloquio di non gradire il lavoro commerciale ma di avere altri obiettivi, e proprio in quella sede sono stati rassicurati "dopo un po' di gavetta Generali vi aprirà le porte di tutti gli altri settori, fino al comparto legale e a quello pubblicitario". Poi entriamo in azienda e scopriamo che non abbiamo nemmeno la possibilità di accedere al job posting cioè a conoscere quelle posizioni vacanti che ci sono, magari nella stanza a fianco alla nostra. E scopriamo che nella maggior parte dei casi chi copre ruoli non commerciali è entrato già in quei ruoli dall'inizio, chi nasce produttore muore produttore, anzi muore e basta, perché la percentuale di produttori che vanno in pensione è dello 0,00009%.
Questo, ovviamente, i giovani candidati non lo sanno. Ovviamente è bandita ogni idea di sindacato. Per noi è l'unica arma possibile.
Avere una copertura sindacale ci consente almeno di fare il lavoro della goccia sulla pietra. E più gocce insieme alla fine forse qualcosa riusciranno a scavare in quella maledetta pietra. Da questo punto di vista in Generali è un po' come stare in qualsiasi altro posto di lavoro. La Fiat per esempio? Come in Fiat, nei tempi d'oro dell'ingegner Valletta, l'iscrizione al sindacato comportava una immediata convocazione dal capo. Qui in Generali hanno semplicemente accorciato i tempi: tu mandi la lettera la mattina e nel pomeriggio già ti trovi davanti al vaniloquio mascellante e minaccioso dello strapazzatore di turno. Ti iscrivi al sindacato e ti giochi la possibilità di carriera, il saluto dei colleghi, la tranquillità giornaliera.
Quando ci si confronta con l'azienda sembra di essere in una situazione paradossale, qualsiasi cosa diciamo non è così, qualsiasi cosa è accaduta non è esistita in realtà. Insomma, negare, negare tutto, come direbbe Shagghy in una sua nota canzone, "It wasn't me".
I produttori assicurativi in lotta


Liberazione 24/02/2011, pag 13

Fincantieri in mille contro gli incidenti

Oltre un migliaio di operai dello stabilimento Fincantieri di Monfalcone (Gorizia) ha sfilato in corteo ieri mattina per le strade del centro, dopo l'incidente mortale avvenuto due giorni fa. All'iniziativa di protesta, organizzata dalle Rsu di Fim, Fiom e Uilm, hanno preso parte anche i rappresentanti della comunità bengalese di Monfalcone, cui apparteneva la vittima, Ismail Mia, 22 anni, dipendente di un'azienda che opera in appalto diretto per Fincantieri. L'operaio, che aveva 23 anni, secondo una prima ricostruzione ha perso l'equilibrio ed è caduto nel vuoto da un'altezza di venti metri all'interno di una conduttura, morendo all'istante.
Le rappresentanze sindacali, che subito dopo la tragedia avevano dichiarato uno sciopero, ieri hanno organizzato un presidio, non escludendo ulteriori iniziative per i prossimi giorni.
Una delegazione di lavoratori è stata ricevuta in Municipio dal sindaco, che ha proposto la proclamazione del lutto cittadino nella giornata dei funerali del giovane.
Allo stabilimenti Fincantieri di Monfalcone siamo terzo incidente mortale in due anni. «È necessario aprire un confronto per affrontare l'emergenza sicurezza», dice Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. «Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sicurezza - ha aggiunto - aggravata da un uso indiscriminato del sistema degli appalti».


Liberazione 23/02/2011, pag 6

martedì 22 febbraio 2011

Pomezia, 6 operai della DI.MA sulla gru. Senza stipendio e senza "cassa edile"

I sindacati e i lavoratori avevano annunciato ieri la mobilitazione di questa mattina con il blocco dei lavori al cantiere di Pomezia sito al Parco della Minerva, «a seguito della mancata finalizzazione degli incontri avvenuti con la DI.MA. Costruzioni che da dicembre non eroga gli stipendi agli operai e non paga nemmeno la cassa edile». Lo comunica la Fillea-Cgil.
Il blocco del cantiere è iniziato alle 6.30 e vi partecipano circa 130 lavoratori. Alle 9.10 prima 3 poi altri 3 lavoratori sono saliti su una gru e si rifiutano di scendere. I 6 operai chiedono di poter parlare con il sindaco, Enrico De Fusco e di venire pagati.

in data:22/02/2011

http://www.liberazione.it/news-file/Pomezia--6-operai-della-DI-MA-sulla-gru---LIBERAZIONE-IT.htm

lunedì 21 febbraio 2011

Sevel, sciopero riuscito. La Fiom: «Ora trattiamo»

Ha ottenuto il 50% di adesioni, con una produzione di 200 veicoli sui 380 previsti, il primo dei due giorni di sciopero indetti dalla Fiom Cgil alla Sevel di Atessa (Chieti). «I lavoratori - sottolinea il sindacato - hanno compreso le ragioni dell'azione di protesta. Questo risultato è la dimostrazione che condividono le richieste della Fiom Cgil di garantire a questo stabilimento produzioni certe e durature attraverso le regole stabilite nella contrattazione nazionale e aziendale, rifiutando l'idea di importare in questo stabilimento accordi "vergogna" come quelli sottoscritti a Pomigliano e Mirafiori».
La Fiom auspica quindi la ripresa «di un confronto immediato con la Sevel teso a raggiungere un'intesa sindacale» finalizzata a «produrre più veicoli». Alla collegata Isri - fanno notare le tute blu della Cgil -, abbiamo sottoscritto già un verbale d'intesa e la settimana prossima lo sottoporremo al giudizio dei lavoratori tramite un assemblea. In cambio di assunzioni certe, alla Isri si faranno tutti gli straordinari comandati da Sevel senza deroghe e senza ricorrere agli accordi tipo Mirafiori e Pomigliano a dimostrazione del fatto che la Fiom ha l'interesse di gestire le salite produttive degli stabilimenti e garantire al territorio un sano sviluppo che significa più lavoro e più diritti. Non giova a nessuno continuare con il braccio di ferro. La Fiom è disponibile a costruire intese»


Liberazione 20/02/2011, pag 7

Call center, 13mila posti a rischio. Presto la mobilitazione

Per difendere i posti di lavoro nei call center, «con Fistel-Cisl e Uilcom-Uil abbiamo già deciso di riprendere la mobilitazione sulla base di un'analisi condivisa. Passeremo unitariamente dalle parole ai fatti». Lo afferma il segretario generale della Slc-Cgil, Emilio Miceli. Nel settore, per il sindacato, sono quasi 13mila i posti a rischio, guardando sino a giugno (di cui 1.800 in Lombardia, 1.600 in Piemonte e Calabria, 1.450 in Sicilia, 1.100 in Lazio e Puglia); 8.600 quelli già persi da settembre 2009 ad oggi. Il 70% degli addetti è concentrato nelle regioni meridionali; il 68% è di sesso femminile ed ha un'età inferiore ai 40 anni. C'è «una totale disattenzione del governo», commenta il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, affermando che «da più di un anno avrebbe dovuto dare risposte» aprendo un tavolo ad hoc.


Liberazione 19/02/2011, pag 5

Perché un'azienda in "ottima salute" decide di delocalizzare?

Schneider Trasformatori di Cairo Montenotte (Sv)
Su invito della Rsu, impegnata in una vertenza con l'azienda Schneider Trasformatori sul problema dei carichi di lavoro e della stabilizzazione dei precari, una delegazione del Prc ha visitato lo stabilimento di Cairo Montenotte (Sv): un incontro interessante che ci ha permesso di conoscere più da vicino una realtà industriale complessa, inserita in uno scenario internazionale e multinazionale, che risulta essere una delle più importanti realtà dal punto di vista tecnologico e di ciclo produttivo operanti nel comprensorio valbormidese, provinciale e regionale, una realtà produttiva "in ottima salute" e decisamente in controtendenza rispetto a uno scenario industriale costellato di crisi.
In questo contesto risulta incomprensibile la decisione di agire sulla precarizzazione del lavoro per raggiungere gli obiettivi di crescita conclamati, a partire dalla non regolarizzazione dei rapporti di lavoro "flessibili": questa realtà industriale deve continuare ad essere mantenuta, difesa e se possibile potenziata sia sotto l'aspetto produttivo che di impatto occupazionale stabile ad essa legata.
Proprio queste strategie globali hanno influenzato e influenzano i livelli produttivi del polo produttivo cairese.
L'azienda ha dichiarato di essere interessata ad un potenziamento della produzione mediante una diversificazione del ciclo produttivo, ma è poco credibile che tutto ciò dipenda esclusivamente dal volere dei dipendenti e della Rsu ad accogliere le nuove sfide: perseguire le sfide "globali" mediante un ulteriore ricorso alla manodopera interinale - spingendosi verso un rapporto lavorativo ulteriormente precarizzato e "in affitto", privato persino del conteggio della anzianità di precariato maturata - contrasta ed è controproducente sia rispetto ai dichiarati obiettivi aziendali di crescita produttiva e di competitività, che dei rapporti con i dipendenti e della manodopera che non può e non deve essere considerata come merce "usa e getta". Gli obiettivi di contenimento dei costi relativi agli scarti, il processo di miglioramento continuo di alcuni aspetti del ciclo produttivo sono possibili mediante la formazione di gruppi di indagine e studio sulle linee di produzione che hanno registrato la partecipazione attiva dei dipendenti e degli addetti: ciò è stato possibile anche in presenza di un rapporto di lavoro che pone le sue basi su un contratto stabile e continuativo. L'azienda deve impostare un piano industriale puntuale rispetto alle strategie globali in termini di produzione e che questi obiettivi siano calati sull'unità produttiva di Cairo Montenotte: le amministrazioni locali territoriali competenti abbiano tutto l'interesse e la disponibilità oggettiva a proporre anche soluzioni insediative alternative, se ritenute da parte aziendale, più consone ad ospitare il potenziamento produttivo dichiarato. Non è un mistero infatti che sul territorio esiste una enorme diponibilità di aree produttive anche già infrastrutturate capaci di accogliere intenzioni insediative: l'esperienza insegna che la globalizzazione giocata sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro, sulla compressione dei diritti dei lavoratori e delle condizioni dei lavoratori è solo una cortina fumogena cosparsa per nascondere gli obiettivi di delocalizzazioni produttive già decise e pianificate.
Il caso Volkswagen dimostra proprio che il sindacato, i lavoratori quando non sono considerati un ostacolo e un vincolo, ma una dote, sono le risorse giuste sulle quali investire per raggiungere grandi obiettivi di crescita sociale ed economica.
Su questi obiettivi e su questi temi siamo pronti a ragionare e daremo tutto il nostro contributo, coinvolgendo anche i nostri rappresentanti istituzionali a livello regionale, per salvaguardare realtà produttive importanti e le condizioni di vita dei dipendenti.
Segreteria provinciale Savona


Liberazione 18/02/2011, pag 10

venerdì 18 febbraio 2011

Da 10 anni il filo che lega le tute blu italiane alla Zastava non si è mai interrotto

Fabio Sebastiani
"Dai lavoratori ai lavoratori". Fu questa l'idea che spinse alcuni settori del movimento sindacale italiano a portare in Serbia la solidarietà immediata contro le devastazioni della "guerra umanitaria" nei mesi immediatamente seguenti i bombardamenti della Nato. E da dieci anni la trama e l'ordito tra il nostro Paese e la Zastava di Kragujevac, la fabbrica di automobili e camion più grande dei Balcani, non si sono mai interrotti.
La risposta fu dettata dalla drammaticità del momento, certo: quelle "tute blu" a difesa del pane quotidiano, proprio come alla fine della seconda guerra mondiale gli operai italiani contro i tedeschi ladri di torni e presse tra Genova e Torino, rappresentavano un richiamo irresistibile, quasi ancestrale. E se dapprima fu una fraternità stretta attraverso le mani unite nei cordoni degli scudi umani contro le bombe all'uranio impoverito, poi durò oltre le macerie, la povertà e la disperazione. E ancora oggi è per quella gente l'unica ricostruzione vera.
E' grazie a questa solidarietà se i duecentomila di Kragujevac hanno trovato un motivo in più per resistere per tutto questo tempo. Non grazie alla promessa della Fiat di riaprire la Zastava, che dopo il bombardamento fu costretta al blocco quasi totale dell'attività produttiva. Non grazie al fiume di imprenditori d'accatto piombati qui dai più remoti angoli dell'Europa alla ricerca di improbabili fortune sulla pelle di una popolazione stremata e ricattabile. Non grazie a chi allungando letteralmente un tozzo di pane ha chiesto in cambio abiure e flessibilità totale, privatizzazioni immediate e liberismo selvaggio. Non grazie, infine, alle promesse di entrare in Europa.
Per Rajka Veljovic, punto di riferimento degli aiuti delle associazioni italiane a Kragujevac, l'aiuto dell'«Italia brava» è stato fondamentale. E' dal '99 che Rajka traduce le lettere che "padri" e "figli", si mandano da una parte all'altra del confine. E' un libro vivente sulla solidarietà nell'epoca della barbarie globale.
L'«Italia brava», con le mani sporche di grasso e senza fregiarsi di distintivi e bandiere, ha portato a Kragujevac circa 3 milioni in aiuti e adozioni. Aiuti di carattere sanitario, sopratutto, come i sei centri odontoiatrici, ma anche risorse per ristrutturare scuole e ambulatori.
Fino allo sfascio della Jugoslavia la Zastava produceva 220mila vetture, con più di cinquantamila lavoratori e 280 imprese dell'indotto dislocalte in 130 città jugoslave. Oggi i lavoratori che la Fiat dice di voler assumere sono circa mille. Gli accordi sono ancora freschi di timbri e firme, guarda caso arrivati sotto le elezioni del maggio 2008. Il sindacato Samostalmi si è opposto. Prima di dare alla multinazionale italiana la libertà di vendere gli impianti e di speculare sulle aree vuole "in chiaro" le garanzie bancarie.
Senza un lavoro e senza un punto di riferimento, le tute blu della Zastava sono andate avanti come hanno potuto. La solidarietà del movimento sindacale italiano ha fatto il resto. Ora che i prezzi di molti generi di prima necessità sono "europei" e le buste paga ancora "cinesi", la quota dell'adozione copre appena il 10% del magro bilancio famigliare.
La loro lotta è stata letteralmente contro la fame e le privazioni, ma anche contro le malattie. L'uranio impoverito, ma anche il Pcb, schizzato fuori dalla centrale termica "targhettizzata" dalle bombe umanitarie di Clinton e D'Alema, hanno fatto una strage. I dati non sono disponibili, ma secondo quanto risulta dalla documentazione che Liberazione ha potuto consultare il numero dei tumori presso l'ospedale di Valjevo è praticamente sestuplicato. Erano 108 nel 1980, sono diventate 658 nel 2005. Il salto, guarda caso, c'è stato nel 2002, quando si è passati da 263 casi a 623. Tra i primi a morire a Kragujevac furono quegli operai che, esattamente come a Cernobyl, si misero in prima fila per tentare di rimettere in sesto il poco che era rimasto in piedi.
Non a caso la prima cosa che ha preteso la Fiat prima di mettere piede alla Zastava è stata la bonifica di tutta l'area.


Liberazione 22/03/2009, pag 24

Termini, Romani sigla l'accordo per il dopo Fiat

Un mld di investimenti

Un grande polo industriale multiproduttivo, dove, accanto alle auto ci sarà anche posto per attrezzature mediche, serre fotovoltaiche, cinema, fiction e grande distribuzione. Sarà questo il futuro del sito di Termini Imerese dopo che la Fiat, a fine 2011, cesserà la propria produzione di vetture. Lo prevede l'accordo di programma siglato ieri al ministero dello Sviluppo economico tra governo, Fiat ed enti locali. Come questa intesa si tradurrà concretamente in occupazione e reindustrializzazione di quell'area, lo si potrà capire solo con il tempo.
Per il momento l'accordo prevede lo stanziamento di risorse pubbliche per 450 milioni: 100 da parte del Ministero, mentre la Regione metterà in campo 350 milioni, di cui 200 per la reindustrializzazione del sito e gli altri 150 per le infrastrutture. L'investimento complessivo per la riconversione del sito, tra soldi pubblici e quelli delle aziende selezionate, è di oltre 1 miliardo di euro visto che dai privati arriveranno investimenti per circa 600 milioni.
Tra le 7 aziende scelte a partire da 31 manifestazioni di interesse due sono del settore auto: De Tomaso di Gian Mario Rossignolo (auto di lusso) e Cape Reva di Simone Cimino (auto elettrica). Le altre cinque operano, invece, in vari campi: dall'energia, Bio Gen Termini (bio-tecnologie), alle serre fotovoltaiche, Fratelli Ciccolella; dalla grande distribuzione, Newcoop, alle protesi mediche, Lima, alla fiction con Med Studios. Quanto alla proposta della molisana Dr Motor Company, il ministro Romani ha spiegato che non ci sono preclusioni così come verso altri possibili nuovi soggetti, ma essendo arrivata fuori dai tempi indicati rimane "in panchina". Potrebbe dunque rientrare se qualcuna delle iniziative in campo non dovesse avere il percorso immaginato.
Sul fronte dell'occupazione, Romani ha spiegato che a regime, ovvero nei 36 mesi in cui è indicata la completa attuazione dell'accordo, si arriverà a 3.300 unità. Intanto sarà possibile tutelare gli attuali 1.500 dipendenti Fiat con la presa in carico da parte delle nuove società anche dei lavoratori del Gruppo, dato che nell'accordo è prevista la cessione del sito a costo zero da parte della Fiat «senza richiedere altro corrispettivo per i beneficiari che la effettiva ricollocazione lavorativa di tutti i relativi addetti nonché il trasferimento dell'organico aziendale». Non è escluso che nella fase transitoria del passaggio tra una società e l'altra si possa ricorrere alla cassa integrazione o comunque ad altri ammortizzatori sociali.


Liberazione 17/02/2011, pag 5

«Ci formano poi ci cacciano». Presidio al ministero

Precari della giustizia
Oltre 200 lavoratori cassaintegrati e in mobilità degli uffici giudiziari della provincia di Roma oggi saranno in piazza davanti al Ministero della Giustizia, per denunciare il fatto che il 7 giugno per alcuni di loro scadrà il periodo di tirocinio formativo finalizzato alla riqualificazione professionale con conseguente conclusione della collaborazione. «E' assurdo - denunciano - che nella situazione di gravissima mancanza di personale che affligge la giustizia si disperdano preziose competenze acquisite in un anno di formazione; di fatto, durante quest'anno, siamo stati inseriti a pieno titolo nel ciclo lavorativo garantendo il nostro impegno e lavoro quotidiano e portando una boccata di ossigeno agli uffici giudiziari della Provincia di Roma. Oggi saremo in piazza per difendere il diritto alla giustizia dei cittadini che contribuiamo a garantire con il nostro lavoro e per chiedere un impegno fattivo al Ministero della Giustizia, alla Regione ed alla Provincia, perché questo anno di formazione possa proseguire con un vero contratto di lavoro». E perché non debbano pagare sulla propria pelle «il prezzo della crisi economica».


Liberazione 16/02/2011

«E' andato ad esporre il manifesto ideologico»

Giorgio Airaudo segretario nazionale
Fiom
Fabio Sebastiani
Marchionne continua a non dire nulla di sostanziale su cosa intenda fare in Italia.
L'operazione che fa è partire da un dato oggettivo, l'assenza del governo italiano e dell'Europa, e costruire così l'unica ricetta per uscire dalla crisi, che è la sua. Ed essendo la sua non la discute con nessuno. Una decisione unilaterale che, come dimostrano i due accordi di Pomigliano e Mirafiori non lasciano il più piccolo interstizio al confronto. Un vero e proprio manifesto ideologico, quindi.

Non è che i deputati lo abbiano incalzato...
Il punto, però, è che nel corso del suo ragionamento fa alcune omissioni importanti, tipo sulla malattia, che sostiene essere solo uno strumento di controllo e non una lesione dei diritti. Omette poi di dire che con il combinato disposto degli accordi separati e dei contratti individuali lede il diritto di sciopero. Tutto questo non lo spiega certo al Parlamento, che rimane una sede sovrana. Non c'è traccia sulle newco, poi, che sono funzionali a questi disegni. Racconta a modo suo la vicenda della Sevel, dove c'era un accordo possibile nello scambio tra sabati lavorativi e assunzioni. La Fiat all'ultimo minuto ha sollevato la clausola sugli scioperi. Sono loro che non hanno voluto l'accordo. In questo manifesto ideologico che, ripeto, non discute con nessuno, ipotizza sette modelli lasciando intendere che così si può competere nei mercati. Ma sette modelli vuol dire più cassa integrazione dell'anno prcedente.

La cosa assurda è che su temi delicati come il salario, su cui ci sono precisi passaggi nella Costituzione italiana, si dà mano libera alla Fiat.
Marchionne ha detto che aumenterà i salari quando venderà le auto. Lo scorso luglio, però, non ha corrisposto 1.200 euro che doveva. Rinvia tutto a quando avrà in mano il mercato, e tra l'altro lui pensa a una forma di gratifica e non a strumenti contrattuali consolidati.

Marchionne non è tornato, come ha fatto nell'intervista su Repubblica, sui risultati del referendum.
Non vuole affrontare un problema di consenso che ha nei suoi stabilimenti. Non dice neppure che è uscito dal contratto nazionale. Dimentica che quasi metà dei lavoratori di Pomigliano e Mirafiori non è d'accordo a lavorare alle sue condizioni. E dice: o i lavoratori mi danno ragione o è ingovernabilità.


Ho un sospetto che poi è suffragato da come la politica di governo sta usando la vicenda Fiat. Il Governo dovrebbe essere sul banco degli imputati, e invece cosa fa? Attacca il diritto di sciopero usando la vicenda Fiat. Sostanzialmente ci stanno dicendo che per uscire dalla crisi non possiamo più permetterci i diritti. Un problema tutto politico e tutto democratico. Non può essere delegato a nessuna impresa.

E su Melfi e Cassino?
Ha detto che rinvia gli interventi, ma in verità procederà di caso in caso. Le lascia sullo sfondo, certo, ma non siamo rassicurati. Si tratta di siti produttivi esposti allo stesso modello applicato a Mirafiori e Pomigliano. Un modello che divide i sindacati e i lavoratori e non serve a produrre automobili.

Possibile che le voci sul trasferimento del cervello Fiat non abbiano sollevato anche in altri settori della Fiat un dissenso verso Marchionne?
Il fatto che questa progettazione venga distribuita in quattro posti del mondo va a depauperare un patrimonio, che è il cervello dell'automobile. Non c'è nessun impegno da parte di Marchionne a lasciare questa funzione a Torino. Non c'è nemmeno impegno a comprare i componenti in Piemonte. Vale quello che dice il provebio sul coraggio: "chi non ha non se lo può dare".

Marchionne come un bulldozer quindi?
Il grosso delle decisioni sono già prese. Solo un grande intervento della potliica che vuole difendere la presenza dell'auto in Italia e ci spende i soldi che ci ha speso Obama può invertire un piano inclinato che Marchionne ha ormai segnato.


Liberazione 16/02/2011, pag 4

Il diktat della Fiat: «Restiamo in Italia. Alle nostre condizioni»

Marchionne alla Camera insiste sulla «governabilità delle fabbriche» ma sul progetto si tiene le mani libere
Roberto Farneti
Un investimento da 20 miliardi di euro entro il 2014 per portare la produzione nel paese da 650mila a 1,4 milioni di auto. Dopo l'audizione a Montecitorio di Sergio Marchionne, resta questa l'unica cosa nota del progetto Fabbrica Italia. Non c'è ancora infatti un piano industriale che indichi dove e come questi soldi verranno spesi, quanti e quali modelli saranno prodotti e assegnati a ciascun stabilimento, così come non c'è nessun impegno da parte della Fiat sul permanere in Italia della sua "testa" non appena la casa torinese - che già pensa e agisce come una multinazionale - assumerà il controllo dell'americana Chrysler.
L'unica novità esibita dal manager italo-canadese di fronte ai deputati della Commissione Attività produttive della Camera è stata l'abbigliamento: giacca grigia, camicia azzurra e cravatta blu al posto del solito maglioncino girocollo che piace tanto ai mass media.
Per il resto, Marchionne è rimasto fedele al copione recitato l'altro giorno nell'inutile "passerella-spot" con il governo: molte chiacchiere e poca sostanza. A cominciare dalla prima affermazione: «Vorrei che fosse assolutamente chiara una cosa: nessuno può accusare la Fiat di comportamenti scorretti, di vivere alle spalle dello Stato o di voler abbandonare il Paese». Ma non era stato lui a dire che la Fiat si sarebbe trasferita a Detroit? «La scelta della sede legale non è ancora stata presa», glissa. In ogni caso «se il cuore della Fiat resterà a Torino - aggiunge Marchionne - la testa deve essere in più posti. A Torino per gestire le attività europee, a Detroit per quelle americane, ma anche in Brasile e, in futuro, una in Asia».
Nel frattempo, il lancio di nuovi modelli è stato riposizionato a partire dalla seconda metà del 2011, visto il calo della domanda registrato negli ultimi mesi, provocato anche dalla fine degli eco-incentivi in molti paesi europei. «Quest'anno presenteremo sette prodotti nuovi», ha annunciato il capo di Fiat-Chrysler. Una scelta «anche troppo aggressiva», se si tiene conto che «in Italia, si prevede che il mercato nel 2011 si attesti a 1.800.000 vetture. Un livello così basso non si vedeva dal 1996».
Tra i veicoli commerciali «ci saranno 34 nuovi modelli nel giro di cinque anni, due terzi dei nuovi modelli saranno prodotti da Fiat, mentre 13 da Chrysler. Stiamo lavorando perché l'Alfa Romeo possa tornare sul mercato americano entro la fine del 2012». Il lancio della nuova Panda nello stabilimento di Pomigliano avverrà entro la fine dell'anno.
Marchionne ha quindi ribadito che la Fiat è pronta ad aumentare i salari portandoli ai livelli di Germania o Francia, ma solo se incrementerà l'utilizzo degli impianti fino a una percentuale dell'80%, rispetto all'attuale 40%. Il problema è: se «la domanda di auto è destinata a rimanere strutturalmente debole», come ha spiegato ieri il manager, quante probabilità ci sono che gli operai possano vedere ricompensati i loro sforzi?
Eh già, perché la Fiat, ai lavoratori, i sacrifici li chiede qui ed ora: taglio della pausa mensa, aumento dei ritmi, malattie non pagate, licenziamento per chi sciopera. Sono questi i punti più contestati degli accordi per Mirafiori e Pomigliano. Marchionne s'infervora: «Non abbiamo mai chiesto condizioni di lavoro cinesi o giapponesi - è la sua autodifesa - ma semplicemente abbiamo chiesto di poter contare su condizioni minime di competitività. Le critiche e le accuse che abbiamo ricevuto sono state ingiuste e spesso offensive». Il manager ha quindi ribadito quali sono le condizioni che la Fiat pone per non trasferire la produzione altrove: «Servono due certezze e cioè la governabilità degli stabilimenti e il rispetto degli accordi». La sicurezza cioè «di poter gestire gli impianti» in modo da essere in grado di «rispondere nei tempi e con le condizioni richieste dalle regole della competizione internazionale».
Affermazioni accolte con scetticismo dalla Cgil, che accusa Marchionne di usare il tema della governabilità delle fabbriche «come una spada di Damocle» là dove, invece, «la ricostruzione di un confronto deve passare inevitabilmente da un giusto compromesso». Le parole del capo di Fiat-Chrysler convincono invece Maurizio Sacconi: basta con «lo sciopero selvaggio di pochi singoli che inibiscono il diritto di lavorare di molti», rilancia il ministro.


Liberazione 16/02/2011, pag 4

Fiom: «Fiat, il governo non rispetta gli impegni»

Termini Imerese

Una richiesta al ministro dello Sviluppo economico affinché «rispetti gli impegni assunti e convochi con urgenza tutte le parti coinvolte per avviare un confronto di merito e specifico sulle proposte avanzate per la reindustrializzazione di Termini Imerese». Lo affermano in una dichiarazione congiunta il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, e il segretario generale della Fiom di Palermo, Roberto Mastrosimone, dopo che il Ministro dello Sviluppo Economico ha convocato ieri sera i Segretari generali confederali per illustrare un possibile accordo di programma. «Non comprendiamo le ragioni di questo cambiamento di percorso. Tanto più che escono notizie sugli organi di informazione su ben 7/8 progetti industriali per Termini Imerese in cui si indica un aumento dei posti di lavoro e mai in nessuna sede ufficiale è stato possibile per le organizzazioni sindacali e per le Rsu conoscere gli imprenditori che hanno portato i progetti ed i dettagli dei loro impegni». I due sindacalisti ricordano che «il governo si era impegnato a svolgere nel mese di gennaio 2011 un incontro con le organizzazioni sindacali confederali e di categoria e la Rsu per illustrare nel dettaglio i contenuti dei piani industriali, le ricadute occupazionali e gli investimenti contenuti nelle offerte e nei progetti di reindustrializzazione del sito produttivo di Termini Imerese che il Gruppo Fiat vuole chiudere entro il 31 dicembre 2011». Ma «ciò non è ancora avvenuto e nessun incontro è in calendario». Gli esponenti Fiom si dicono non disponibili «ad accettare la semplice chiusura ed il disimpegno della Fiat a Termini Imerese. Servono in alternativa seri progetti industriali e serie garanzie occupazionali per tutte le lavoratrici e i lavoratori attualmente alle dipendenze del Gruppo Fiat e delle aziende dell'indotto. Ed è necessario realizzare positivi accordi sindacali discussi preventivamente, valutati e condivisi dalle lavoratrici, dai lavoratori e da tutte le parti interessate, comprese le Istituzioni che diano garanzie sulla tenuta nel tempo di tali progetti industriali».


Liberazione 15/02/2011, pag 6

Fiat, ma quale "cuore italiano"

Dino Greco
E' passato sotto traccia e senza suscitare eccessivo scalpore l'incontro di sabato scorso fra i vertici della Fiat, il governo e i rappresentanti della regione Piemonte, della provincia e del comune di Torino. L'incontro, ricorderete, era stato convocato dal presidente del Consiglio, resuscitato da un letargico sonno, dopo le dichiarazioni con cui Sergio Marchionne aveva rivelato quanto ogni osservatore non addomesticato alla propaganda padronale aveva capito da tempo, e cioè che il baricentro strategico della Fiat non sarebbe stato più in Italia, a Torino, bensì negli Stati Uniti, a Detroit. Il tardivo confronto sollecitato dal governo italiano avrebbe dovuto dissipare le nubi sempre più minacciose che si addensano sul futuro della produzione automobilistica in Italia, ottenendo indicazioni finalmente chiare sugli investimenti e sul piano industriale, lo strombazzato progetto denominato "Fabbrica Italia", che dovrebbe razionalizzare e consolidare la presenza della Fiat nel nostro Paese, portando la produzione ad 1 milione e 400 mila vetture l'anno. Ebbene, da quel confronto non è sortito alcun impegno che autorizzi neppure il più prudente ottimismo. Come è noto, Termini Imerese, nei progetti della casa torinese e ancor più nei fatti, non esiste più, mentre dei 20 miliardi che l'azienda ha dichiarato di voler impiegare nel rinnovamento impiantistico e nel lancio di nuovi modelli non è dato sapere alcunché. Non una sola indicazione, capace di conferire sostanza e credibilità a quel progetto, è trapelata dal Presidente e dall'Amministratore delegato della Fiat. I quali, semplicemente, continueranno a fare ciò che a loro pare, sicuri di non trovare nel governo italiano alcuna interferenza disturbante. E' tuttavia Paolo Romani, prestanome di nessuno, alla guida (?) del Ministero per lo Sviluppo economico, a commentare entusiasticamente il "chiarimento" intervenuto, proclamando che «la Fiat è una grande multinazionale che si sta espandendo nel mondo, ma che rimane con un cuore italiano». Un cuore italiano: una battuta che sembra una cartolina, un aforisma da Baci Perugina, uno spot pubblicitario come quello interpretato, per una nota azienda di pelati, dal bravo e simpatico Gerard Depardieu.
Sergio Marchionne e John Elkann non hanno concesso nulla ai loro pavidi interlocutori. Anzi: hanno ribadito quello che in questi mesi è stato da loro imposto attraverso i dicktat di Pomigliano prima e Mirafiori poi, destinati ad essere in seguito applicati in tutti gli stabilimenti del gruppo, da Melfi a Cassino, e a fare scuola anche oltre i confini dell'auto e del settore metalmeccanico.
La contrattazione collettiva è per costoro un retaggio da archeologia industriale. Da rottamare. Le condizioni di lavoro non devono essere frutto di procedure pattizie, fra attori sociali distinti, bensì atti unilaterali che l'azienda, di volta in volta, impone ai lavoratori a propria discrezione. Il corrispettivo della prestazione di lavoro, le modalità nelle quali essa si svolge non possono essere negoziabili perché, nel nuovo modello di relazioni sindacali, esse sono funzioni della competitività. Per altro non c'è posto. E Maurizio Sacconi, ministro del lavoro sporco, lo dice con parole che non ammettono repliche: le sole «relazioni industriali costruttive» sono per lui quelle che assicurano alla Fiat (e, per induzione, a tutte le aziende) «la piena governabilità degli stabilimenti». La modernità è quella che ricaccia la Costituzione fuori dei luoghi del lavoro, dove essa fece irruzione con le lotte degli anni Sessanta e Settanta; la modernità è quella che si libera di pastoie legislative come lo Statuto dei Lavoratori; quella, infine, che rimuove «la libertà, la sicurezza, la dignità dei cittadini» dal posto sovraordinato che la Carta riserva ad esse, subordinando al rispetto di questi fondamentali diritti sociali l'esercizio della libertà di impresa.
Sulle pareti degli opifici del ventennio fascista si potevano leggere scritte ammonitrici come «Qui si lavora, non si fa politica». E' a questo modello, neppure troppo mimetizzato, che si ispirano - perfettamente coese - la borghesia industriale e il personale politico che per conto di essa governa il Paese. Di questa materiale sostanza sono fatti i rapporti sociali che nutrono un pensiero politico ancora largamente maggioritario nel parlamento, tanto nel governo quanto, in termini appena dissimulati, in buona parte dell'opposizione. Un pensiero, tuttavia, forse non più così egemone e incontrastato nel Paese, dove sono avvertibili segni incoraggianti di risveglio che vanno coltivati con cura, per evitare che la politica continui a occuparsi di tutto meno che dei rapporti di classe, fingendo che questi siano già dati e scolpiti nelle leggi di natura.


Liberazione 15/02/2011, pag 1 e 6

giovedì 10 febbraio 2011

Fiat crolla pure in Brasile, dopo otto anni spodestata da Vw

Prosegue lo scontro con la Fiom: accordo separato sui permessi sindacali. Sindacati di base: l'11 marzo sciopero generale
Fabio Sebastiani
Sergio Marchionne ci ha spiegato in tutte le lingue che la debolezza Fiat nei mercati occidentali, e in oriente, non è poi un problema così drammatico perché il marchio vanta comunque una forza straordinaria in Sud America. Bene, da ieri non è più vero nemmeno questo. A stare davanti alla Fiat, nelle vendite, c'è ora la Volkswagen, almeno in Brasile. E questo proprio in un momento in cui il mercato, come si dice in gergo, "tira", con una produzione record di 261 mila automezzi (auto, camion e veicoli commerciali) prodotti. La marca tedesca ha venduto 54 mila auto (il 23,7% delle vendite totali), mentre la Fiat ha piazzato 46 mila unità (il 20,2%). Da notare che le due marche cinesi presenti sul mercato brasiliano, Hafei e Chery, hanno superato nel 2011 Mercedes e Bmw.
Secondo l'Anfavea (l'associazione dei produttori di autoveicoli in Brasile), la produzione ha superato tutti i primati precedenti, con 6,4% in più del gennaio 2010 e 9% del dicembre scorso. Il nuovo record mostra che il mercato brasiliano continua in pieno boom, dopo che il 2010 aveva già fatto segnare vendite senza precedenti nel Paese.
In Italia, intanto, lo scontro è ancora piuttosto caldo. Per Susanna Camusso, leader della Cgil, l'incontro della Fiat con il Governo, alla quale la Cisl ha dichiarato di non voler partecipare preferendo incontrare la Fiat «in separata sede», dovrà tenere conto del fatto che il trasferimento negli Usa è ormai ad uno stadio piuttosto avanzato. Sulla vicenda è intervenuta la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, secondo la quale il trasferimento negli Usa «non è all'ordine del giorno». Per Enzo Masini, coordinatore nazionale Fiom-CGil del gruppo Fiat, «la discussione sulle sedi è solo astratta poichè il punto decisivo sarà se la nuova società nell'auto avrà una ragione sociale statunitense o italiana. Tutte le mosse dell'amministratore delegato e i comportamenti della famiglia Agnelli prefigurano una società di natura statunitense».
Intanto, si profila un altro accordo separato sui "permessi sindacali", in applicazione della cosiddetta clausola di responsabilità. L'accordo prevede la riduzione delle ore di permesso sindacale retribuito concesse dall'azienda in aggiunta a quelle previste dalla legge.
«La Fiat vuole giudicare l'agire delle organizzazioni sindacali - denuncia Masini - e sta cercando di introdurre per tutti gli stabilimenti italiani dell'Auto e della Powetrain le stesse norme che ha imposto con le newco di Pomigliano e Mirafiori. La commissione paritetica fra le organizzazioni sindacali e l'azienda è nei fatti priva di ogni potere poichè in caso di disaccordo può liberamente decidere l'azienda. Noi non possiamo accettare tutto ciò».
Sul fronte delle mobilitazioni sociali,
Usb, Slai Cobas e Cib-Unicobas, con la condivisione e l'adesione dello Snater, hanno rotto gli indugi proclamando lo sciopero generale per l'11 marzo con una manifestazione nazionale a Roma.
Lo sciopero è indetto, come si legge in un comunicato, «per difendere l'occupazione e il contratto nazionale e per lo sblocco dei contratti del pubblico impiego; contro la precarietà e la delocalizzazione degli impianti produttivi; ed anche contro il tentativo di imporre il modello Marchionne ed estenderlo a tutto il mondo del lavoro» Nella piattaforma trovano posto anche «reddito certo per tutti», e la difesa «dei salari e delle pensioni pubbliche», la tutela dei beni comuni, il diritto all'abitare ed il controllo delle tariffe; senza dimentica un fisco più giusto, la difesa della scuola, dell'università, della ricerca pubblica, la regolarizzazione generalizzata di tutti i migranti «e per la rottura netta del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro». Per quanto riguarda la democrazia sui posti di lavoro Usb sostiene il progetto di una legge sulla rappresentanza sindacale, «affinché siano i lavoratori e non le aziende a scegliere da chi farsi rappresentare». L'obiettivo politico dello sciopero è «la realizzazione del nuovo Patto sociale tra Governo, Confindustria, Cisl, Uil e Cgil attraverso il quale si vuole favorire e rendere sempre più competitiva l'impresa peggiorando le condizioni ed il salario dei lavoratori».


Liberazione 09/02/2011, pag 5

Fiat, Cgil in difficoltà: «Serve mobilitazione»

Torino, Susanna Camusso parla alla platea dei delegati. Fiom: «Già chiari i segnali della partenza Fiat»
Fabio Sebastiani
«Penso che ci sia una grande necessità di costruire una grande mobilitazione del paese. Ci daremo tempi e modi». La leader della Cgil Susanna Camusso ha scelto la platea dei seicento delegati della Cgil di Torino per provare ad uscire dal guscio. L'ultima sortita di Marchionne deve avergli mandato di traverso il "week end". Senza contare che due giorni prima aveva dovuto sopportare lo schiaffo dell'ennesimo accordo separato ad opera del "gatto e la volpe", alias Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, nel pubblico imiego. La misura è colma per indire lo sciopero generale? Non ancora. Avanti, con calma. E, soprattutto, in silenzio. La segretaria generale della Cgil non riesce nemmeno a dire che se ne discuterà al prossimo direttivo. «Non serve - ha detto Camusso, concludendo l'assemblea dei delegati a Torino - proclamare lo sciopero generale oggi e nemmeno tra qualche giorno. Serve sapere che quando potremo farlo lo faremo grande».
Sulla Fiat, la leader della Cgil ha usato parole dure. «Mi sembra che finora dalla Fiat non sia arrivato nessun chiarimento. Anzi, piuttosto, è avvenuto un peggioramento perchè quando si dice che ogni grande mercato avrà una sede non si sta parlando di dove sia la testa di una impresa». «Il tema da noi proposto - ha aggiunto - non è quello di dove sia la formale sede legale, ma dove saranno la progettazione, la ricerca e le strategie». Sulla possibilità di ricucire i rapporti con la Fiat, infine, Camusso ha osservato: «L'amministratore delegato ha fatto tutto da solo. Ad un certo punto ha deciso che non era disponibile a discutere con chi la pensava diversamente da lui. Noi siamo stati sempre disponibili a discutere. Mi pare che sia lui che dovrebbe decidere di non parlare solo con i suoi simili».
In attesa che arrivi la data dell'incontro tra Sergio Marchionne e il Governo, lunedì prossimo, 14 febbraio il ministro delle attività produttive Paolo Romani incontrerà i leader di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti insieme ai rappresentanti dei metalmeccanici delle organizzazioni sulla situazione dello stabilimento Fiat di Termini Imerese. Vista la partecipazione dei big, sarà anche l'occasione per mettere insieme i cocci e fare il punto della situazione? Anche il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, ritiene necessario un chiarimento, ma spera che tutta la vicenda non sia «il solito pallone gonfiato mediatico». A giudizio di Bonanni, comunque, la Fiat non ha interesse a lasciare Torino e non solo per ragioni storiche, ma anche per far fruttare gli investimenti fatti in Europa. Il segretario generale dell'Ugl, Giovanni Centrella, chiede invece che «dopo il presidente del Consiglio, Marchionne incontri anche i sindacati, insieme a tutto il governo per chiarire definitivamente il futuro del Gruppo Fiat nel nostro Paese e i dettagli del progetto Fabbrica Italia». Sarcastico il commento di Giorgio Airaudo, della segreteria nazionale della Fiom e responsabile nazionale del settore Auto. «Più che quattro teste mi sembrano quattro succursali. Una conterà più delle altre e temo che parli americano». «Gli incontri postumi, a vari livelli separati, governo, sindacati, istituzioni locali dopo un anno e mezzo - afferma Airuado - sembrano un tentativo di riportare i buoi nel recinto dopo che sono scappati. Servirebbe un tavolo generale di trattativa in cui richiamare la Fiat alle sue responsabilità. Bisognerebbe riaprire una discussione su quale produzione si vuole fare nel Paese, mentre nel confronto sulle quattro teste il tema sembra la Fiat che se ne va». «Il fallimento Chrysler - dice ancora Airaudo - è stato evitato dalla politica, mentre noi non siamo in grado di far sì che la Fiat mantenga il centro direzionale e di sviluppo dei prodotti in Italia. È assurda l'idea che si presentino le scelte di Marchionne come inevitabili. E anche l'opposizione appare accodata».
Per la Fiom, l'uscita di Marchionne non è una novità. «Segnali concreti, nelle scorse settimane e a fine 2010, di spostamenti per periodi non brevi di lavoratori degli enti centrali Fiat negli Stati Uniti» c'erano stati. Secondo Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese, «non ci si può scandalizzare oltre misura delle ultime dichiarazioni di Marchionne, nè applaudire alle apparenti retromarce perchè siamo di fronte a un processo che non parte oggi. Naturalmente sarebbe auspicabile che tutti quelli che oggi in modo tardivo si scandalizzano facciano fronte comune per costringere la Fiat a un confronto».
Intanto, il giorno dell'incontro tra la Fiat e l'esecutivo non è stato ancora fissato ma certamente all'incontro saranno presenti anche i ministri dell'Economia Giulio Tremonti, dello Sviluppo economico Paolo Romani, del Lavoro Maurizio Sacconi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta.


Liberazione 08/02/2011, pag 4

Migranti contro il prefetto: è agli ordini della Lega

Brescia, sanatoria truffa
"Sopra e sotto la gru". È il nome scelto da coloro che a Brescia sono rimasti a lottare contro la sanatoria truffa, dall'associazione "Diritti per tutti" alle forze politiche come il Prc e Sc, alle associazioni di immigrati che non hanno rinunciato alle loro richieste. Sabato alcuni rappresentanti delle comunità e delle associazioni erano stati ricevuti in prefettura, non certo dal prefetto ma da funzionari. Il rappresentante legale di "Diritti per tutti", Manlio Vicini, ha chiesto di conoscere il numero esatto di domande presentate e di quelle rigettate e, cosa ancora più importante di sospendere l'esecuzione dei rigetti in attesa della decisione del Consiglio di Stato, che dovrebbe pronunciarsi il 21 febbraio. Sarà una decisione definitiva. A gennaio, in più occasioni, la massima autorità della giustizia amministrativa si era già espressa per il blocco dei rigetti. E se alla prima domanda non è stata data risposta, quella sui rigetti ha fatto infuriare le persone che erano in attesa sotto il Palazzo del Broletto, sede della prefettura. Non solo non ci saranno sospensioni fino al 21 febbraio ma, qualora il pronunciamento del Consiglio di Stato dovesse essere positivo per i migranti, a Brescia farà fede la circolare del capo della polizia Manganelli che prevede di non poter sanare la posizione di chi ha subito precedenti provvedimenti di espulsione. Alla notizia c'è stata una forte reazione dei migranti che prima hanno provato ad occupare la prefettura al grido di "vergogna" e "dimissioni", poi hanno optato per un corteo attraverso la città. La tensione è alta e c'è già chi minaccia di tornare sulla gru: «Del resto - sottolinea Fiorenzo Bertocchi segretario provinciale del Prc - la prefettura non è più al di sopra delle parti, obbedisce direttamente ad una parte politica, la Lega Nord e al ministro Maroni, rendendo materiale una secessione strisciante». Sta crescendo anche la reazione nella città. La Lega tenta di utilizzare questa tensione per scaricare sui migranti il fallimento sia in Comune che alla Provincia, di una amministrazione incapace e inadeguata e forse si prepara in questa maniera ad una eventuale competizione elettorale nazionale. «A Brescia non lavora il rappresentante dello Stato ma quello della Padania», ha sottolineato Umberto Gobbi di "Diritti per tutti". In attesa di una assemblea che si terrà giovedì sera nei locali del Centro Sociale Magazzino 47, si cerca di capire cosa fare. Molti immigrati sono esasperati, in piazza quelli della comunità egiziana hanno esposto cartelli per comunicare che in Italia, come in Egitto si sta lottando per gli stessi diritti. Bertocchi spera anche che questa situazione spinga la Camera del lavoro e la Diocesi a superare timidezza e ambiguità:«Devono scegliere se preservare i propri rapporti istituzionali oppure prendere una posizione netta. Nessuno lo dice ma tutti sanno che dietro ci sono forze politiche che temono, schierandosi dalla parte del diritto, di perdere consenso elettorale».
S.G.


Liberazione 08/02/2011, pag 3

Sconcerto a Torino, nonostante la smentita. Fiom: «Avvalorate le nostre supposizioni»

Gli industriali: la sede non è un problema. Fim: colpa delle tute blu Cgil
Maurizio Pagliassotti
Qualcuno sa che fine ha fatto il tappeto rosso per Marchionne? Fuori il tappeto che serve! La vicenda Fiat insegna che talvolta non è sufficiente mettersi in ginocchio di fronte al padrone per farlo contento. Marchionne se ne va e si porta lontano la Fiat, va in America a brindare, l'aveva detto. Poi smentisce, vecchia storia, ormai Berlusconi ci ha abituati. A Torino quelli che volevano stendere il tappeto rosso oggi si indignano, si impegnano ma poi gettan la spugna con gran dignità, come cantava De Andrè. Anzi, la dignità lasciamola stare. In questo campo ci sono i vari chiamparini, i fassini, i garigli, i coti, i ghighi… cloni che solo pochi giorni fa celebravano le magnifiche sorti progressive scaturenti dal Piano Marchionne. Ma oggi il "Al mansour" Marchionne li ridicolizza davanti a tutta la città.
Poi ci sono quelli che tentano comunque di rimanere aggrappati al carro del vincitore senza se e senza ma. Secondo il segretario della Fim-Cisl di Torino, Claudio Chiarle, «le dichiarazioni di Marchionne non sono una novità, se si leggono attentamente le sue dichiarazioni passate. E sono anche piene di condizionali, dunque la partita è aperta. Certo l'atteggiamento del governo che è privo di una qualsiasi politica industriale capace di attrarre capitali e imprenditori stranieri, anzi si lascia sfuggire anche quelli italiani, non contribuisce a porre le condizioni affinché la testa di Fiat rimanga in Italia. Anche la vasta opposizione politica all'accordo prima di Pomigliano e poi di Mirafiori, insieme al fronte del no sindacale, coordinato dalla Fiom, che persegue una conflittualità permanente, disincentivano qualsiasi investimento industriale in Italia». Quindi la Fim non critica Marchionne, dà la colpa di tutto alla Fiom e all'ormai innocuo Berlusconi. E sottolinea i condizionali. Per l'unione degli industriali metalmeccanici di Torino invece «la sede non è un problema».
Forse lo sarà per i quattrocento capi che hanno votato in massa sì al referendum. Come è noto, da tempo la Fiat sta chiedendo soprattutto ai tecnici di fare armi e bagagli e trasferirsi a Detroit. Si prenda poi il povero leghista Cota, governatore del Piemunt. E' andato dal Monsù al Padrun in visita a Detroit e quello, l'omino col maglioncino, manco gli dice che vuole spostare il cuore della Fiat da Torino. Ma per Cota non è importante perché Marchionne «mi ha parlato a lungo solo di cose positive».
La Fiom di Torino invece è il soggetto che meno strabuzza gli occhi e si straccia le vesti. Federico Bellono, segretario provinciale, osserva: «Purtroppo far la parte di quelli che dicono l'avevamo detto non è piacevole. Noi siamo un sindacato che da tempo va dicendo che i segnali lanciati dal gruppo Fiat, e non solo da Marchionne, facevano intendere un esito di questo tipo. Ora è chiaro che sono gli americani che si sono comprati la Fiat e non il contrario. Le recenti parole dell'amministratore delegato avvalorano le nostre supposizioni e purtroppo diventano sempre più incerte le prospettive industriali in Italia. La Fiat sta diventando una multinazionale americana che ha fabbriche di pari importanza strategica sparse per il mondo. Italia compresa, un paese come molti altri quindi. Non credo che da questa scelta ne vengano particolari vantaggi per i lavoratori. Questa vicenda dovrebbe spingere parte del sindacato e della politica torinese, troppo pronta ad accogliere in modo acritico ogni parola di Marchionne, a sviluppare un senso critico maggiore. Peccato che segnali in questa direzione manchino perfino in questo momento».


Liberazione 06/02/2011, pag 2

«Ci trasferiamo a Detroit» Il gioco al massacro di Sergio Marchionne

Poi l'Ad rettifica ma non sulla chiusura degli impianti. Cgil: incontro urgente
Fabio Sebastiani
Ci si è chiesti spesso in questi giorni come avrebbe fatto l'Ad di Fiat Sergio Marchionne a far dimenticare il misero risultato politico rimediato a Mirafiori. Tempo un paio di settimane, ed ecco la zampata: Fiat pronta ad andar via da Torino. Stavolta non ci sono ragioni particolari legate al comportamento, o prese di posizione, di lavoratori e sindacati. Si fa così e basta. I tempi non saranno immediati, ma la prospettiva viene data come la naturale conseguenza della fusione tra Chrysler e Fiat e dell'incertezza degli assetti societari. In pratica, Fiat potrebbe affrontare, come si capisce tra le righe da una "precisazione" telefonica dello stesso Marchionne al ministro Maurizio Sacconi, un forte ridimensionamento della famiglia Agnelli. E a quel punto non ci sarebbe più nessun legame con Torino.
Il possibile disimpegno da Torino, se non della direzione, a questo punto, sicuramente della produzione, arriva a pochi giorni dall'incontro con il ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, che con Marchionne dovrà formalizzare l'accordo di programma per Termini Imerese.
La Cgil chiede subito un chiarimento davanti al Governo in cui finalmente si discuta di piano industriale. Pronta la risposta della Fiom: «La richiesta di un incontro che fanno tutti oggi è tardiva», dice chiaramente Giorgio Airaudo, della segreteria nazionale della Fiom e responsabile del settore Auto. «Se siamo in questa situazione - continua il sindacalista - c'è una gravissima responsabilità del Governo e delle classi dirigenti a tutti i livelli che stanno sottovalutando il rischio per il Paese di perdere la testa del gruppo».
L'annuncio getta nello smarrimento il Pd, che più di chiedere anche lui un immediato intervento del Governo non riesce a dire. «Non mi sorprende. Quando dopo decenni di aiuti, un governo non chiede conto di nulla...», commenta amaramente Sergio Cofferati. «Nessuno conosce il piano industriale di Fiat, cosa che può capitare solo in un Paese come il nostro, dove premier e governo non si sono occupati in prima persona dell'azienda automobilistica». Quanto all'atteggiamento del Pd sulla vicenda Cofferati, tra i più critici nel partito sulla vicenda Mirafiori, si limita a rispondere: «Mi dichiaro prigioniero politico...».
Gli imprenditori torinesi e del Piemonte sono in preda allo sconforto e ricordano che l'indotto rappresenta «qualcosa come 100mila occupati». «In questi anni - aggiungono - hanno dato molto in questi anni per il mantenimento e la crescita della Fiat».
Maurizio Sacconi cerca di tagliar corto: «Una vaga ipotesti non è una decisione», commenta frettoloso.
Tra gli altri, c'è spazio anche per la fantasia. Per Giuseppe Berta, docente alla Bocconi, ed ex responsabile dell'archivio storico Fiat, in prospettiva potrebbero esserci ude teste, una europea e una americana: e perché no, anche una asiatica. In questo contesto, evidenzia Berta, «si capisce meglio anche l'operazione sulla produttività voluta da Marchionne in Italia: saranno utilizzati solo gli impmianti efficienti, che rispettano standard internazionali. Non si può pensare che ci sia un occhio di riguardo per l'Italia».
Per Paolo Ferrero, segretario del Prc, «come dice il proverbio: chi pecora si fa, il lupo se la mangia». «Come avevamo previsto - osserva - Marchionne dopo aver incassato la demolizione del contratto nazionale di lavoro bada solo ai suoi interessi e si prepara a inglobare la Fiat dalla Chrysler. Una vergogna che dimostra come sia stata fallimentare la strada di tutte le forze politiche dal Pd alla Lega di appoggiare Marchionne contro gli operai. Il governo deve intervenire e bloccare il piano di Marchionne per impedire la distruzione della Fiat».
Anche Giorgio Cremaschi ricorda le previsioni sul disastro prossimo venturo fatte, in questo caso, dalla Fiom. «Ormai le intenzioni di Marchionne sono chiare e pubbliche - dice - ed è ora che l'Italia esca dall'ignavia politica di destra e di sinistra che ha permesso all'amministratore delegato della Fiat di usare il patrimonio nazionale della Fiat per diventare capo della Chrysler. Avevamo ragione noi e tutti i complici sindacali e politici di Marchionne avevano torto. Adesso bisogna lavorare per rovesciare il piano Marchionne». E i "complici sindacali" che dicono? Non parlano, ovviamente. A tentare di dire qualcosa è Claudio Chiarle, segretario della Fim-Cisl di Torino, che addossa alla Fiom la responsabilità del dietro front di Fiat.


Liberazione 06/02/2011, pag 2

Strappo sul pubblico impiego, Cgil abbandona il tavolo

Cisl e Uil firmano l'intesa separata sul salario di produttività. Camusso: «Presa in giro». No anche dai Cobas

Giorgio Ferri
Ancora un accordo separato. Il modello Fiat arriva anche nel pubblico impiego. Cisl e Uil hanno firmato ieri l'intesa con il governo sul salario di produttività. La Cgil invece ha lasciato il tavolo dichiarando di non essere interessata ad un accordo che non discuta contemporaneamente degli altri problemi del settore a partire dall'emergenza precari e dalla necessità di andare con urgenza alle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie. Anche Cobas e Cisal hanno rifiutato di firmare. Alla base dell'intesa con le due sigle ultragovernative vi sarebbe quello che è stato definito uno «scambio politico con il quale il governo tenterebbe di dimostrare una capacità di soluzione dei problemi fondata sul nulla». Nella conferenza stampa che ha seguito l'incontro, Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, ha dichiarato che «l'accordo sottoscritto da Cisl e Uil è una presa in giro dei lavoratori. Siamo di fronte - ha aggiunto - a sindacati che corrono in soccorso di un governo claudicante». «Grande soddisfazione» è stata espressa dal ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Per Raffaele Bonanni l'accordo «salvaguarda interamente gli stipendi dei dipendenti pubblici» e chi non è d'accordo favorisce il rischio che sopravvenga un pericoloso clima di violenza. A quanto pare, però, le cose non stanno proprio così. Con l'accordo separato siglato ieri a Palazzo Chigi - ha spiegato Rossana Dettori, segretaria generale dell'Fp-Cgil nazionale - si è deciso «di espellere la Cgil dal sistema di relazioni sindacali nel pubblico impiego, approvando la sospensione delle elezioni dell'Rsu, il blocco dei salari per tre anni e il taglio dei precari». Tutto sarebbe avvenuto - prosegue sempre la dirigente sindacale - «mettendo come al solito la Cgil di fronte al fatto compiuto, mentre tutto era stato evidentemente contrattato tra le parti negli incontri separati dei giorni scorsi». Circostanza testimoniata - sempre secondo Dettori - dalla comparsa nel sito dell'Fp-Cisl del testo dell'accordo, di un volantino esplicativo e di una dichiarazione del mio collega Faverin alle 9,33 di questa mattina, a trattativa ancora in corso. Tempi da record. Siamo di fronte all'estensione del modello Marchionne al sistema di relazioni sindacali nel lavoro pubblico. Il cerchio si chiude ed è chiaro il disegno complessivo». Commenti duri anche da parte del segretario confederale della Cgil, responsabile del comparto Pubblica amministrazione, Nicola Nicolosi, che ritiene la firma apposta da Cisl e Uil «un atto gravissimo». Queste sigle sindacali insieme ad un governo screditato fingono di difendere i salari e le condizioni di lavoro dei dipendenti pubblici mentre agiscono esattamente in direzione contraria». Si annuncia, dunque, una mobilitazione nazionale generale dei lavoratori del pubblico impiego della Cgil. Lunedì 7 febbraio è prevista una prima riunione della Fp-Cgil e della Flc per stabilire i passaggi della mobilitazione del settore. Martedì 8 ci sarà una riunione straordinaria dei segretari generali regionali della funzione pubblica per decidere le iniziative. Non è escluso che si arrivi a uno sciopero della categoria entro la fine di marzo contro il blocco dei contratti, l'accordo separato di venerdì e per il rinnovo urgente delle rappresentanze sindacali del pubblico impiego. Intanto il segretario della Fiom Maurizio Landini chiede che il direttivo della Cgil si pronunci sullo sciopero generale per dare una spallata al governo e impedire l'allargamento del modello Marchionne a tutte le categorie.


Liberazione 05/02/2011, pag 7

Landini a Cgil: «Subito il direttivo nazionale»

Il leader Fiom: «Situazione straordinaria». Al documento finale 375 voti contro 109
Fabio Sebastiani
Cervia (Ra) - nostro inviato
«La situazione è straordinaria e quindi ci vuole subito la convocazione di un Comitato direttivo nazionale della Cgil che discuta di ciò che sta accadendo nel paese». Il leader della Fiom Maurizio Landini ripete la richiesta per ben due volte nel corso delle conclusioni dell'Assemblea nazionale dei delegati che ieri ha terminato i suoi lavori. La notizia dell'ennesimo accordo separato nel pubblico impiego non ha certo colto impreparati i delegati metalmeccanici. La Fiom ha provato a convincere con tutti gli argomenti possibili Vincenzo Scudiere e Fulvio Fammoni, i due segretari nazionali della Cgil presenti all'iniziativa, che a questo punto non è utile girare la testa dall'altra parte sventolando una improbabile possibilità di accordo su democrazia e rappresentanza con Cisl e Uil. Ci ha provato anche Giorgio Airaudo, sottolineando che quei po' di accordi contrattuali strappati al nuovo regime delle deroghe introdotto nel 2009 verranno presto travolti dalla folle corsa di Cisl e Uil alimentata a bordo campo dal tifo di Maurizio Sacconi e Sergio Marchionne. Insomma, come dice Landini nelle conclusioni, nemmeno la caduta del Governo Berlusconi potrà togliere le castagne dal fuoco della Cgil. La Cgil non sembra intendere. E così sul voto al documento finale torna il fuoco di fila della minoranza interna (375 contro 109) a cui non va giù il no ad un emendamento sulla "politica unitaria".
Ma ieri è stata anche la giornata delle tute blu della Fiat, a cui il documento finale votato dai rappresentanti sindacali riconosce il merito della vittoria politica. «Quel risultato l'abbiamo ottenuto perché abbiamo scelto di andare tra i lavoratori che ci hanno accolto dicendoci "siete una speranza"», dice Nina Leone rivolta a una sala che ascolta in religioso silenzio. Nina racconta le difficoltà di muoversi in un clima difficile, in cui qualcuno ha anche parlato di "fannulloni", del confronto "postazione per postazione" con i lavoratori dapprima dubbiosi e poi sempre più convinti. «Mettere in gioco la dignità è stato l'errore della Fiat». «Un clima ostile poi, però, dal macellaio al giornalaio - racconta Laura Spezia, della segreteria nazionale - hanno capito quello che stavamo realmente facendo». La battaglia non è stata vinta, ma il risultato ottenuto è eccellente. E tutti i delegati l'hanno riconosciuto. Nina racconta della "coda tra le gambe" di Fim e Uilm «che non hanno più il coraggio» di andare in assemblea a parlare dell'accordo separato e del bisogno urgente di continuare sulla strada del conflitto perché ciò che ha scippato Marchionne è l'unico strumento per difendere i lavoratori nel concreto, il sindacato.
«Quel voto ci consegna un tesoretto», dice un altro delegato della Fiat. Insomma, se c'è un debito che la Fiom dovrà onorare è nei confronti dei lavoratori. Sì, con lo sciopero generale, da cui il segretario confederale della Cgil Fulvio Fammoni, intervenuto ieri, si è tenuto ben lontano, ma anche con il "mestiere di sindacato". Non c'è un altro modo per «riconquistare», come sottolinea Giorgio Cremaschi, il contratto nazionale. L'ipotesi di piattaforma che la Fiom sta per varare rappresenta l'occasione giusta: a cominciare dal salario, di cui l'ultima traccia risale alla concertazione, e poi sul valore dell'orario e delle condizioni di lavoro nelle ristrutturazioni dettate dalla crisi.
La Fiom non è disposta a cedere facilmente. E' lì che dimostrerà di voler essere un sindacato che tratta. Il voto alla Fiat dimostra che "parlare ai lavoratori" è possibile. E in qualche caso si possono ottenere anche degli ottimi risultati. La Fiom rappresenta a questo punto non più un "nodo difficile" ma una vera e propria "soglia critica" di problemi. Entro la fine dell'anno dovrà presentare la piattaforma, separata, per il rinnovo del contratto nazionale scaduto nel 2008. La segreteria generale della Cgil Susanna Camusso può provare ad evitare l'ennesimo accordo separato solo attraverso la legge su democrazia e rappresentanza. Ma Cisl e Uil non intendono ragioni. E lo schiaffo rimediato nell'accordo separato del pubblico impiego sta lì a dimostrarlo. «Basta con questa idea che prima dobbiamo metterci d'accordo con Fim e Uilm - tuona Cremaschi nel suo intervento - e poi fare la piattaforma. E' una sciocchezza».
Ora la parola passa ai lavoratori metalmeccanici, a cui la Fiom intende presentare la sua piattaforma, che spazia dal salario alle condizioni di lavoro senza tralasciare il welfare. Dovranno votare le tute blu, ma soprattutto dovranno discutere.


Liberazione 05/02/2011, pag 6

Mirafiori "chiude", cassa integrazione per un anno

In arrivo le lettere, la preoccupazione degli operai
Maurizio Pagliassotti
Davide ha diciassette anni e ieri pomeriggio era preoccupato: «Stanno arrivando le lettere per la cassa integrazione straordinaria a Mirafiori e mia mamma fa l'operaia alle carrozzerie. Io non ho un lavoro e a casa c'è anche mio fratellino piccolo di tre anni. Come faremo a sopravvivere se per un anno ci daranno solo poche centinaia di euro per vivere?». Insieme a Davide e sua mamma altre migliaia di operai stanno aspettando l'arrivo della lettera. Ma sono pochissimi quelli che riusciranno a scamparla, forse nessuno. Perché di fatto Mirafiori chiude bottega per un anno a causa del tracollo di vendite ridotte del 27,8%. La quota Fiat di mercato è calata dal 31,99% di un anno fa al 29,15%.
«Con l'avvio della cassa integrazione straordinaria la musica non cambia, anzi con l'intensità della cassa diminuiscono i volumi produttivi», spiega Federico Bellono, segretario generale della Fiom di Torino, dopo che l'azienda ha comunicato il passaggio da 1.020 a 890 auto al giorno per le Carrozzerie. «Siamo in attesa - prosegue - della convocazione alla Regione Piemonte prevista dalle procedure per la cassa integrazione straordinaria. In quell'occasione chiederemo ulteriori chiarimenti in merito alla gestione della cassa e alle prospettive produttive che sono state indicate in modo molto generico nell'accordo del 23 dicembre».
Fiat e delegati sindacali di Mirafiori hanno concordato il calendario per la gestione della cassa integrazione straordinaria alle Carrozzerie dello stabilimento, che secondo le intese siglate nelle scorse settimane inizierà il 14 febbraio. In base agli accordi, che prevedono la possibilità di richiamare le tute blu al lavoro secondo le esigenze produttive dell'azienda, gli addetti dell'Alfa Mito rientreranno in fabbrica dal 15 al 18 febbraio e dal 7 all'11 di marzo. I lavoratori occupati sulle linee della Lancia Musa e della Fiat Idea torneranno al lavoro invece dall'8 all'11 di marzo. Oltre a questo azienda e Rsu hanno concordato il comando distacco per 80 lavoratori delle Carrozzerie che, dal 7 marzo al 31 agosto, saranno impiegati alla Powertrain di Mirafiori. La Fiat quindi chiude in attesa degli investimenti promessi da Sergio Marchionne.
«La vertenza di Mirafiori per noi è ancora aperta e per questo vogliamo mettere in campo tutte le iniziative più opportune, sia sul piano giuridico sia sul piano sindacale», ha detto Maurizio Landini, segretario della Fiom-Cgil. Landini, parlando a Cervia all'assemblea nazionale Fiom, ha poi criticato la Fiat anche dal punto di vista del piano industriale: «Si sono fatte delle gran chiacchiere ma investimenti non ne fanno, mentre diminuiscono le quote di mercato. La Fiat non vuole qualche turno in più, ma un cambiamento radicale dei rapporti sindacali e non è accettabile che si scarichino sulla testa dei lavoratori di Mirafiori e Pomigliano delle responsabilità che loro non hanno. Per noi la vertenza è ancora aperta».


Liberazione 05/02/2011, pag 6