lunedì 31 gennaio 2011

Sciopero migranti pronti al bis

«Bisogna sentirsi uguali per riconoscere le differenze»
Stefano Galieni
«Abbiamo ancora l'ambizione di utilizzare lo strumento dello sciopero, sappiamo che esistono diverse forme e modalità per realizzarlo, per questo stiamo cercando l'adesione di sindacati, ma anche di associazioni e forze politiche». Non usa mezzi termini Cécile Kashetu Kyenge, la coordinatrice nazionale e portavoce del "Movimento Primo Marzo". Dopo la grande giornata di mobilitazione dello scorso anno "Una giornata senza di noi" questo movimento di base ha lavorato in maniera carsica, si è radicato in molte città e si prepara a ricostruire una mobilitazione nazionale per il 1 marzo 2011, lo fa in una fase di crisi non solo economica ma politica e sociale, in cui il mondo del lavoro, migrante e no, sono tornati prepotentemente a farsi sentire. «Molte e molti di noi hanno partecipato alle manifestazioni di questi mesi - racconta Cécile - perché la nostra lotta è per migliorare la situazione di tutti, non solo per gli immigrati. Invitiamo i sindacati a mettersi in gioco, abbiamo scelto di caratterizzare la giornata di quest'anno su parole d'ordine semplici e nette, per la dignità e il diritto al lavoro, partendo dal fatto che chi è immigrato parte da condizioni particolari, ma non per immaginarci separati. E lo facciamo adesso che il lavoro scarseggia, in cui c'è un indebolimento della "cittadinanza del lavoro migrante" che ricade anche sugli autoctoni». Le condizioni particolari a cui si riferisce la coordinatrice del movimento sono facilmente evidenziabili, il fatto che i lavoratori e le lavoratrici migranti perdono, col posto di lavoro, in pochi mesi, anche il diritto a restare in Italia, il fatto che restare senza permesso di soggiorno si traduce in un reato perseguibile, una colpa causa di disagio, elemento scatenante di guerra fra poveri. Il tutto sotto uno Stato che invece di aiutare fornendo strumenti di sostegno agisce a colpi di espulsione. Lo scenario in cui tutto questo accade è quello della crisi:«Basta pensare ad un elemento, sono diminuite le rimesse con cui chi è in Italia, ma in generale in Europa, sostiene le famiglie e le economie dei paesi di provenienza. - ribadisce Cécile -Io sto partendo per Gorè, al Forum sociale mondiale, dove è prevista una lunga sessione sulle tematiche dell'immigrazione e dove arriverà a compimento un processo iniziato nel 2006, la Carta Mondiale dei Migranti. Si tratta di un lavoro enorme, frutto di una partecipazione collettiva e che nasce dalla base e dai soggetti sociali che per primi sono coinvolti. Al Forum metteremo a punto il materiale raccolto e i suggerimenti che ci sono arrivati per proporre un testo che ragioni di immigrazione reale e potenziale, che individui elementi comuni per lavorare sulla partecipazione politica, economica e sociale alla vita dei paesi in cui si emigra o si vorrebbe emigrare, che metta al punto uno dei diritti inalienabili, contenuti nella Convenzione di Ginevra e spesso non rispettato, la libertà di movimento. Quello che vogliamo è un mondo senza muri a dividere le genti». Cécile è arrivata in Italia nel 1983 per studiare ed è rimasta:«Ormai ho trascorso più anni a Bologna che nel mio paese. Quando sono arrivata c'era più curiosità che diffidenza verso di noi, non c'erano leggi sull'immigrazione, un disastro dal punto di vista burocratico ma con le persone era più facile entrare in relazione. Allora si considerava "nemico" il meridionale, "il terrone" , noi non eravamo presi in considerazione. Negli anni Novanta, siamo cresciuti in numero e le persone, grazie anche all'assenza della politica, non hanno avuto modo di abituarsi alla nostra presenza. È aumentata la difficoltà ad accettarci mentre prevaleva un approccio repressivo e securitario. Eppure senza di noi questo Paese non andrebbe avanti, perché invecchia, perché ha bisogno del nostro lavoro e delle ricchezze sociali e culturali di cui siamo portatori. Temo che invece di capire gli errori si continui con altre leggi repressive che non risolveranno nulla. Secondo me sarebbe invece utile avere al governo e in parlamento anche cittadini immigrati in grado di mettere a disposizione le proprie competenze». Nel Movimento Primo Marzo sono ben coscienti di come tante difficoltà non nascano solo da governi segnati da forze politiche xenofobe ma anche dagli errori della sinistra, errori su cui Cécile non vuole tacere:«Una sinistra che si è trovata impreparata. Ha pesato il non considerarci quasi mai in grado di occupare, nei partiti posti di responsabilità. È raro che le nostre competenze vengano considerate, al massimo prende qualche immigrato per dare una immagine di multiculturalità». Chi ha continuato a lavorare nel movimento è convinto che lo scorso anno sia stato solo un punto di partenza:« Ha rappresentato la scelta di trovare la capacità per reclamare i nostri diritti, visto che di doveri ne abbiamo sin troppi- prosegue la coordinatrice nazionale- per noi si tratta di una giornata di orgoglio che impone di ragionar su una nuova cittadinanza meticcia che deve coinvolgere tutti, in una nuova convivenza. E dobbiamo anche riparare ai guasti portati da tanta mala informazione, cambiare sia la dialettica che le terminologie utilizzate. Troppo spesso, soprattutto nei grandi giornali, le notizie non sono riportate per far conoscere la realtà ma per distorcerla. Un esempio? Si parla delle classi scolastiche piene di stranieri, eppure gran parte dei bambini sono nati o cresciuti in Italia, del proprio paese di origine non sanno nulla, perché chiamarli stranieri? Si continua ancora a parlare di immigrazione legata all'insicurezza, a terrorizzare le persone enfatizzando solo i fatti di cronaca nera e mai le buone pratiche di cui è pieno questo paese. Accomunarci solo alla violenza e all'insicurezza, significa aumentare il danno già compiuto»- Per questo Cécile porta parole di elogio e di incoraggiamento per Liberazione:«Voi potreste partire anche dalle difficoltà del momento per modificare il senso comune. Partite già da un grande lavoro che svolgete quotidianamente. Utilizzate anche le competenze di tanti di noi per affrontare in maniera migliore e più approfondita le questioni internazionali che riguardano le nostre aree di provenienza, considerandoci come possibili inviati. Dateci modo di intervenire sulle tematiche del razzismo e dello sfruttamento, delle leggi ingiuste e delle nostre aspirazioni. A mio avviso trovereste anche tanti nuovi lettori che gradirebbero la novità, persone stanche di vedersi confinati in un trafiletto di cronaca locale». Il movimento Primo Marzo potrebbe rappresentare, per le sue caratteristiche innovative e non escludenti, una novità interessante nello scenario che si va delineando in questo Paese, hanno fatto scelte precise e conducono mobilitazioni in cui si coniugano radicalità e propositività, pacifiche ma daterminate. Sanno di dover risalire la china:«Perché, conclude Cécile, bisogna sentirsi uguali per riconoscere le differenze».


Liberazione 28/01/2011, pag 12

Una mobilitazione costituente

Giorgio Cremaschi
La splendida manifestazione di Bologna ha già annunciato che quella di oggi sarà una grande giornata. In tutte le regioni d'Italia scenderanno in sciopero e in piazza i metalmeccanici e con essi lavoratrici e lavoratori di tutte le altre categorie, studenti, centri sociali, cittadini e cittadine che vogliono difendere la democrazia.
E' lo sciopero dei metalmeccanici, ma è anche una giornata di lotta che parla a tutto il mondo del lavoro. Che ha già cominciato a rispondere. Voglio qui ricordare, e so di far torto ai tanti che trascuro, le Rsu della Margheritelli di Perugia, contratto del legno, quelle della Boglioli di Brescia, tessili, quelle delle università di Torino, i lavoratori del commercio, dei trasporti privati di Trento, e tante e tanti altri, lavoratrici e lavoratori che domani daranno i primi segnali di uno sciopero generale che coinvolga tutte le categorie. Lo stesso faranno le lavoratrici e i lavoratori che sciopereranno con i Cobas, l'Usb, la Cub, il sindacalismo di base, che hanno scelto con intelligenza di far propria la giornata di lotta della Fiom senza primogeniture di date o di sigle. Questo grande movimento di lotta ha un preciso punto di avvio. Quando nel giugno dell'anno scorso, a Pomigliano, la Fiom prima e poi oltre il 40% degli operai dissero "no" al primo dei tanti ricatti messi in piedi da Marchionne, forse non era ancora chiara la portata costituente di quel rifiuto. Eppure così è stato. Da allora le relazioni sociali, i conflitti, le istituzioni e la democrazia, si sono sempre più ridefinite sul modello proposto da Marchionne e sull'opposizione ad esso. Sin dall'inizio era chiaro che quello dell'amministratore delegato della Fiat non era semplicemente un modello produttivo particolarmente feroce e ingiusto, ma un progetto reazionario per tutta la società italiana. Il primo sostegno entusiasta alla Fiat è venuto dalla ministra dell'istruzione. Mariastella Gelmini subito dichiarò che le sue riforme scolastiche si ispiravano al modello di Marchionne. E' proprio così. L'amministratore delegato della Fiat ha messo in moto la sua macchina distruttrice dei diritti e della democrazia sulla strada asfaltata da anni di governi di Berlusconi e di cedimenti della sinistra moderata al liberismo estremo.
Con la crisi, invece che provare a cambiare qualcosa nel modello liberista che l'ha prodotta, le classi dirigenti, i ricchi, la casta dei manager e la grande borghesia hanno scelto una linea di pura regressione sociale. Fabbrica per fabbrica, territorio per territorio, scuola per scuola ci si propone la cura della Grecia: pagare tutto noi perché loro possano conservare tutto. Così Marchionne ha interpretato lo spirito generale della casta dei padroni e lo ha trasformato in ideologia combattente. Gli operai sono ricomparsi sulla scena dell'informazione per subire l'accusa di essere i veri artefici della crisi. Con il loro contratto nazionale, il loro assenteismo, i loro scioperi e la mancanza di voglia di lavorare. Questa offensiva reazionaria ha conquistato gran parte della stampa e dell'informazione e la maggioranza dell'opposizione a Berlusconi. Il quale, nonostante il precipitare della sua crisi personale, si è visto così confermare la sua politica e la sua ideologia. Marchionne ha preso il posto di Berlusconi, è diventato la nuova bandiera del liberismo e dell'attacco ai diritti. La Lega Nord, che per anni ha chiesto i voti agli operai contro Roma ladrona e contro le grandi imprese multinazionali e la Fiat, è diventata il cane da guardia di Marchionne.
Di fronte alla forza e all'arroganza di questa offensiva si poteva temere un crollo della nostra democrazia e invece il no della Fiom di Pomigliano è diventato costituente di una sempre più grande opposizione sociale, culturale, morale. La notte in cui si sono scrutinate le schede di Mirafiori mezza Italia è rimasta sveglia, per seguire quel voto con più passione che se fossero state elezioni politiche generali ed in fondo era così. Con quel referendum ricatto, si imponeva ai lavoratori la rinuncia a tutto, ma si dava anche spazio a tutti coloro che volevano tirare su la testa. E così gli operai di Mirafiori in 2300 hanno detto no per conto di milioni di persone che non ne possono più e vogliono lottare. Gli operai di Mirafiori hanno detto no per conto e assieme a tutte le lavoratrici e i lavoratori che vogliono difendere le loro libertà, il contratto nazionale, lo stato sociale. Hanno detto no assieme agli studenti, che peraltro hanno subito sentito la vicinanza della loro lotta a quella dei metalmeccanici. Hanno detto no assieme a milioni di lavoratrici e lavoratori precari che hanno capito l'imbroglio di chi, anche a sinistra, spiegava che i loro guai venivano dai privilegi degli operai. Hanno detto no assieme ai migranti che lottano contro l'apartheid e le persecuzioni della legge Bossi-Fini. Hanno detto no assieme a tutti quei movimenti che sull'ambiente, sui beni comuni, sulla democrazia e i diritti, lottano contro l'arroganza del potere e le privatizzazioni.
Il no della Fiom è diventato uno spartiacque sociale e politico: chi sta con Marchionne sta di là, chi sta contro Marchionne sta di qua. Così si è messo in moto un processo unitario di massa, che certo esclude i dirigenti complici di Cisl e Uil, quei sindaci e politici della sinistra che hanno perso l'anima schierandosi con Marchionne, quel mondo dell'informazione che sbatte i tacchi appena arrivano le veline dell'amministratore delegato della Fiat. Ora si tratta di andare avanti. Bisogna chiedere con forza e ottenere dalla Cgil lo sciopero generale. Bisogna costruire un movimento in grado di durare e sconfiggere il modello sociale di Marchionne. Bisogna ricostruire una politica democratica che porti a un altro modello di sviluppo e che affermi finalmente eguaglianza e giustizia sociale. Per questo chi è in piazza oggi ha bisogno anche di ricostruire gli strumenti e i canali della propria rappresentanza. C'è un palazzo che ha ceduto armi e bagagli alla prepotenza delle multinazionali e del regime dei padroni, ma c'è un'opposizione sociale che cresce e produce impegno e cultura. Lo sciopero di oggi è dunque costituente di un grande movimento unitario e di nuove identità politiche. In pochi mesi si è rimessa in moto l'Italia, adesso bisogna andare avanti.

Liberazione 28/01/2011, pag 1 e 3

Mirafiori, un no che pesa

Luciano Muhlbauer
Nella politica e nella vita esistono meteore e fatti costituenti. Pomigliano e Mirafiori appartengono indubbiamente alla seconda fattispecie. Con essi, molto semplicemente, è cambiato il quadro entro il quale dobbiamo ragionare, progettare ed agire.
Certo, per molti versi è piovuto sul bagnato, perché una moltitudine di lavoratori e lavoratrici, tra precarietà, outsourcing e polverizzazione dell'impresa, sta vivendo da molto tempo quanto Marchionne pretende oggi dagli operai. Ma, come insegnano i classici, ci sono dei momenti in cui l'accumulo di quantità si traduce in un salto di qualità e quanto sta avvenendo in Fiat rappresenta e incarna esattamente questo.
Mettere in discussione l'insieme dei diritti e delle libertà conquistati dai lavoratori negli anni 60-70, o persino quelli codificati nella Costituzione repubblicana, non in un qualche sottoscala di periferia, ma al centro, in un luogo simbolico e sfidando sulla pubblica piazza la più combattiva categoria sindacale, significa innescare una valanga che tende a travolgere e ridisegnare tutto.
Luciano Muhlbauer
Infatti, a soli sei mesi dal referendum di Pomigliano, la cosiddetta "eccezione" è sbarcata a Mirafiori e domani toccherà, come ha subito chiarito Marchionne, anche a Cassino e Melfi. Peraltro, nel frattempo l'accordo capestro è pure peggiorato, considerato che ora l'abolizione dell'elezione dei delegati sindacali e l'espulsione dalla fabbrica dei dissidenti, cioè di Fiom e sindacati di base, sono norma contrattuale.
L'operazione di Marchionne, inoltre, era fuoriuscita quasi subito dai confini Fiat, trasformandosi in richieste sempre più diffuse di derogare al contratto nazionale e sfociando il 29 settembre scorso in un apposito accordo nazionale tra i ligi Fim e Uilm e Federmeccanica. Ma non era che l'inizio. E così, all'indomani del referendum-ricatto di Mirafiori, il ministro Sacconi ha precisato che il contratto aziendale «non è tanto deroga al contratto nazionale, ma legittima uscita da esso». Poi, il giorno dopo, Federmeccanica, in accordo con Confindustria, ha chiesto pubblicamente ai sindacati di introdurre il principio della "alternatività" tra contratto aziendale e nazionale. In altre parole, la valanga sta travolgendo anche i contratti separati di chi, come Cisl e Uil, ha pensato di poter cavalcare la tigre. A meno che, ovviamente, Bonanni non fosse sin dall'inizio pienamente consenziente rispetto alla riduzione dei sindacati a semplici strutture di vigilanza dell'azienda. Ma in tal caso, dovrebbe spiegarlo ai suoi iscritti.
Insomma, siamo all'idea della tabula rasa. Niente più diritti e libertà sul luogo di lavoro e niente contrattazione collettiva, ma soltanto contratti individuali e comando esclusivo del padrone. Una concezione totalitaria dell'impresa, che non tollera rappresentanza autonoma del lavoro, conflitto e democrazia, e che gode del tifo militante del Governo Berlusconi, il quale si appresta a varare la revisione dello Statuto dei Lavoratori. Con quella concezione non si può trattare o mediare. In gioco è il modello sociale - e non solo - per il dopo-crisi e, pertanto, il pareggio non è previsto. Così stanno le cose, altro che la lotta di classe non c'è più, e far finta di non capirlo è di una miopia tremenda.
Eppure, sebbene il fronte sociale e politico pro-referendum fosse talmente ampio e trasversale da sembrare invincibile, l'offensiva di Marchionne ha trovato una resistenza straordinaria e sorprendente proprio nei soggetti più ricattati, perché in cassa integrazione e minacciati di chiusura della fabbrica, cioè gli operai e le operaie di Pomigliano e Mirafiori. Anzi, nonostante la pistola puntata e una campagna mediatica senza precedenti, il "no" di Mirafiori è stato ancora più rumoroso di quello di Pomigliano.
Ed è stata quella resistenza operaia, con il suo carico di dignità e determinazione, ad aver cambiato a suo volta il quadro generale. Non solo ha rimesso al centro del dibattito politico il lavoro e la questione sociale, diradando per un attimo i fumi tossici del bunga bunga, ma ha anche provocato, anzitutto grazie all'azione limpida ed intelligente della Fiom, una convergenza di lotte e movimenti, a partire da quello degli studenti. Insomma, ha agito da centro di gravità, favorendo l'emergenza di un possibile fronte sociale alternativo.
Oggi la possibilità di definire un modello, un percorso e una pratica alternativi passa necessariamente da lì. E, aggiungiamo, da lì passano anche le strade per rifare una sinistra politica all'altezza della situazione. Per questo è importante e prezioso il seminario/meeting nazionale di "Uniti contro la crisi" che inizia oggi al Cso Rivolta di Marghera (Ve). Ma soprattutto è fondamentale e decisivo lavorare per la riuscita e la generalizzazione dello sciopero nazionale dei metalmeccanici del 28 gennaio, proclamato dalla Fiom, utilizzando a questo fine anche le proclamazioni di sciopero di tutte le categorie promosse dai sindacati di base.


Liberazione 22/01/2011, pag 1 e 5

Federmeccanica rilancia: «Ora contratti aziendali»

Gli industriali a scuola da Marchionne: «In presenza di accordi, il contratto nazionale può essere sostituito»

Roberto Farneti
Sostituire il contratto nazionale con gli accordi aziendali. E' questo l'obiettivo dichiarato di Federmeccanica dopo l'illusoria e risicata vittoria dei Sì nel recente "referendum" alla Fiat di Mirafiori. Agli industriali non basta più la riforma del modello contrattuale del 2009, siglata con Cisl e Uil senza il consenso della Cgil. Esaltati dalla lezione di Sergio Marchionne, ora i padroni vogliono di più: chiedono che il contratto aziendale possa diventare «sostitutivo di quello nazionale», come ha spiegato ieri il direttore generale di Federmeccanica, Roberto Santarelli. Alla domanda se questo significa la "morte" del contratto nazionale, Santarelli ipocritamente risponde che «Federmeccanica ha 12mila aziende associate e che il contratto nazionale sarà utilizzato da almeno 11.500 aziende». Questo perché «saranno probabilmente soprattutto le aziende grandi che potranno avere interesse, in accordo con i sindacati, a fare un contratto aziendale».
Il pensiero corre a Mirafiori e Pomigliano. Dove però si sono verificati due problemi: il dissenso dei lavoratori, rappresentato dalla Fiom Cgil, è stato superiore alle aspettative; inoltre, per evitare ricorsi legali, Fiat è stata costretta a costituire due newco fuori da Confindustria.
Per questo Federmeccanica ritiene necessarie regole «certe sulla rappresentanza». Regole che anche Confindustria a parole auspica («Da parte nostra c'è tutta la buona volontà e disponibilità», conferma Alberto Bombassei) ma che il governo non ha alcuna intenzione di scrivere, almeno fino a quando le parti sociali non presenteranno una proposta comune e condivisa.
Ipotesi lontana anni luce. Ieri infatti il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, ha di nuovo respinto seccamente la proposta sulla rappresentanza e la democrazia sindacale avanzata dalla Cgil. In particolare, Bonanni non condivide il fatto che si possa ricorrere al referendum «a monte e a valle» di una eventuale intesa: «Il sindacato serve a fare accordi, non a costruire veti o consensi», ha tuonato il segretario della Cisl. A fare accordi sì, ma in nome di chi? Di tutti i lavoratori o solo degli iscritti Cisl? E perché i referendum è giusto farli quando il risultato è scontato, perché c'è la Fiat che tiene una pistola puntata sulla testa degli operai, mentre non vanno bene in altre situazioni di dissenso tra i sindacati? Mistero.
Intanto Marchionne va avanti per la sua strada. Che prevede l'estensione a tutti gli stabilimenti Fiat degli accordi imposti a Mirafiori e Pomigliano con il ricatto della chiusura della fabbrica. Il manager sa già che potrà contare sull'appoggio del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e del sindacato Fismic: «Si partirà da Sevel e Melfi - anticipa Roberto Di Maulo - poi Cassino e i tempi non saranno affatto lunghi. Ma attenzione anche a tutto il mondo della componentistica: per questo è all'ordine del giorno il contratto Auto, basato sugli accordi di Mirafiori e Pomigliano, che dovrà essere applicato anche nelle aziende della componentistica».
L'ipotesi che il contratto nazionale diventi alternativo ad un accordo aziendale, per cui in presenza del secondo il primo scompare, viene vista come il fumo negli occhi dalla Cgil: «Federmeccanica - osserva Vincenzo Scudiere - dichiara pubblicamente fallito il modello contrattuale che noi non abbiamo sottoscritto per proporne un altro che non potremo mai condividere, quello aziendalista. Continuare a inseguire Marchionne, come sembra voler fare Federmeccanica, su un terreno che non è quello risolutivo delle relazioni industriali, rischia di mettere in crisi anche il sistema della rappresentanza delle imprese italiane». Ironico il commento del segretario generale della Fiom, Maurizio Landini: «Mi chiedo, se un'azienda può scegliere di non applicare il contratto nazionale, a cosa serva Federmeccanica». In ogni caso lo sciopero generale dei metalmeccanici del 28 gennaio «sarà per dire che il contagio del modello Fiat va fermato e che i lavoratori non verranno lasciati soli dall'intera categoria» aggiunge Giorgio Airaudo, responsabile Auto della Fiom nazionale.
Per Roberta Fantozzi, responsabile nazionale lavoro del Prc e dirigente della Federazione della Sinistra, le «gravissime» dichiarazioni di Santarelli rendono «sempre più evidente la necessità dello sciopero generale».


Liberazione 20/01/2011, pag 4

Come ti rieduco la classe operaia

La strategia della Fiat di Marchionne analizzata da un gruppo di ricercatori del Crs
Tonino Bucci
E vai a vedere che tocca pure ringraziare Marchionne. Per opera sua, questioni che si ritenevano seppellite assieme a un lessico d'altri tempi - il conflitto di classe, la questione operaia, il capitale - hanno occupato pagine di giornali e programmi televisivi. Erano anni che non accadeva. Chiaro, è una provocazione. Solo una boutade, nient'altro.
Anche perché con quello che è successo tra Pomigliano e Mirafiori c'è poco da scherzare. Se volessimo cavarcela con un immagine cinematografica è come se in questi giorni avessimo visto a Mirafiori un flash back, un corto circuito tra il presente e il passato, tra i diktat di Marchionne e la famigerata marcia dei quarantamila dell'80, quando un'epoca finì e un'altra iniziò, per protrarsi in una lunga transizione, in un lento, inarrestabile capovolgersi di egemonia, da sinistra verso destra, da un movimento operaio cresciuto di lotta in lotta a uno strapotere (incontrastato) del capitale quale stiamo sperimentando. Tra allora e oggi è cambiato il mondo, c'è stato il neoliberismo, la globalizzazione, il primato della finanza, insomma, una forma di capitalismo che si è imposta sulle rovine del precedente modello di accumulazione keynesiano. Un «potente progetto di ricomposizione dell'egemonia del capitale» dopo la stagione «dei conflitti sulla natura dell'accumulazione», per dirla con le parole di un gruppo di ricercatori del Centro per la riforma dello Stato, autori del saggio Nuova Panda schiavi in mano (DeriveApprodi edizioni, a cura del Gruppo lavoro del Crs, saggio conclusivo di Mario Tronti, pp. 168, euro 12). «Fuor di retorica, Marchionne punta dritto il dito verso quella transizione al neoliberismo che nel nostro Paese non è ancora stata completata», a differenza che negli Usa, in Gran Bretagna o in Canada. Si capisce bene perché la transizione sia stata così lunga (e tutto sommato non ancora scontata, perlomeno non del tutto), «per via degli ostacoli frapposti dai diritti e dalle libertà costituzionali, dalle conquiste guadagnate sul campo da un fortissimo movimento dei lavoratori, dalla storica forza delle sinistre e dalle fragilità stesse dello Stato italiano». Nei trent'anni trascorsi da quando Berlinguer un giorno si presentò davanti ai cancelli della fabbrica occupata di Mirafiori («il partito è con voi» disse agli operai) è cambiata persino la forma della Repubblica, che oggi rispetto ad allora chiamiamo Seconda. Sulla carta la Costituzione è sempre quella, ma nei fatti, nei rapporti materiali dell'esistenza (soprattutto in quelli di forza) è un'altra Costituzione a valere, a misura dell'impresa e dei suoi interessi. Ha il pregio, questo libro, di inserire la vicenda di Pomigliano e il piano industriale della Fiat di Marchionne in una storia lunga, senza perdere di vista le differenze specifiche del presente rispetto al passato. «A chiudere l'era delle lotte operaie in Italia fu lo scontro del 1980 alla Fiat di Mirafiori. Ieri Romiti come oggi Marchionne, è l'amministratore delegato Fiat a scrivere di proprio pugno gli accordi della capitolazione operaia, determinando il riassetto delle relazioni industriali per l'intero sistema-Paese». Fin qui, tutto chiaro, Marchionne è nell'onda lunga del neoliberismo, l'esito estremo di un capitale che svuota dall'interno leggi, regole, norme e costituzione materiale. La continuità della storia è innegabile, scrive Tronti, «pur tra immani salti in avanti e giravolte all'indietro». «C'è da ribaltare il tavolo del senso comune intellettuale, che pone una cesura "epocale" tra il prima e il dopo, tra il Novecento e noi. Qualcosa dovrebbe dire ai cultori del "tutto è nuovo" il fatto che proprio a Pomigliano sia scattata nel cervello padronale l'idea controriformista del "dopo-Cristo". E' un fatto: che nulla sarà come prima lo dice oggi chi comanda sui processi».
Chi comanda i processi materiali ha a propria disposizione anche un esercito di think thank, opinionisti, editorialisti, conduttori di trasmissioni politiche, specialisti della comunicazione. Fin dalle prime formulazioni del piano industriale Fiat per il nostro paese - più o meno nel dicembre 2009 - la narrazione ufficiale che lo accompagna è confezionata nei minimi dettagli. Seimilacento lavoratori polacchi producono seicentomila auto, mentre 22000 lavoratori italiani producono soltanto 650mila unità annue, quindi bisogna intensificare il livello di competizione nel mondo in un contesto di crisi. La filosofia che sottende il piano è chiara: la lotta di classe è finita, gli interessi di padroni e operai non possono che convergere «per salvaguardare la tenuta dei sistemi-Paese in un quadro di brutale competizione internazionale, tutta giocata sulla competitività tra territori per attrarre investimenti di capitale». Per la presidente di Confindustria Marcegaglia, Marchionne ha il pregio di ricordarci cos'è il mercato globale e come ci si deve stare. Fuori da infingimenti, la tenuta del sistema esige che la «brutalizzazione del lavoro» divenga «socialmente accettabile», rinuncia volontaria ai diritti in cambio della promessa di investimenti - di questo si tratta nella vicenda di Pomigliano e nell'accordo di Mirafiori. Non a torto di Pomigliano s'è detto e scritto che rappresenta un caso paradigmatico, un passaggio "costituente" nelle relazioni industriali tra padroni e operai. «La vicenda del sito campano ha reso tangibile la ratio della riorganizzazione del lavoro»: «sfruttamento senza controllo e neutralizzazione politica». Prendere o lasciare. Fabbrica Italia non è un accordo, ma un progetto Fiat non concordato con le parti sociali, una sorta di programma intensivo di rieducazione del paese alle sfide della competitività globale che viene calato all'interno della fabbrica, sulla pelle dei lavoratori. «Nel vivo dell'organizzazione del lavoro il mantra della flessibilità spinta e del World Class Manufacturing nasconde dispositivi multipli e sotterranei di intesificazione della prestazione lavorativa e di depotenziamento politico degli operai». Nuova turnistica, nuova metrica, nuove regole per pause e straordinari rappresentano, nel loro insieme, una inedita tecnica di estrazione di pluslavoro. E, se non bastasse, «nella Fiat immaginata da Marchionne non c'è sindacato, né il diritto dei lavoratori a coalizzarsi», «il conflitto è inibito con il consenso alla retorica aziendale o con la minaccia di sanzioni disciplinari o licenziamenti».
E' lui, però, Marchionne, il personaggio «da studiare», ormai un protagonista politico della vicenda nazionale. «Un politico fuori del Palazzo» - scrive Tronti - che «non viene percepito come un esponente della società civile». Marchionne è piuttosto «il rappresentante di un'antipolitica, diciamo così, nobile, comunque non plebea, sicuramente non populista. E' lui il vero uomo del fare. Il suo maglioncino d'ordinanza è più che un vezzo: blu, come le tute dei suoi operai». Il colpo d'occhio è a effetto. Anche dal punto di vista simbolico il personaggio pubblico è costruito per essere percepito come l'archetipo dell'imprenditore, l'incarnazione del «manager globale» avvezzo a muoversi nel mondo e non nelle ristrettezze provinciali dell'Italietta. E, ancora, uomo d'azione che agisce al di fuori delle istituzioni, estraneo ai giochi di potere della politica. «Marchionne è quello che ai bei tempi dell'operaismo chiamavamo il capitalista collettivo», la personificazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe, direbbe Marx. Anche il capitale - che è accumulazione di lavoro vivo in lavoro morto - ha «bisogno di soggettivarsi, di personificarsi». Molto è cambiato dai tempi di Gianni Agnelli, quando la proprietà era predominante rispetto al management. «Oggi la proprietà è più opaca, e anonima, meno immediaatamente visibile». Il manager è il vero mattatore sulla scena pubblica. Ma non è tutto. «La stessa figura del capitalista collettivo si è globalizzata. La nuova figura, e la persona fisica, del manager sta molto meno a corso Marconi che sugli aerei che lo portano in giro per il mondo». Del resto, Marchionne ha imparato il mestiere nella finanza e come si sa, la sfera del denaro non ha confini né nazionalità, prima ancora dell'industria. Oggi, la legittimazione politica non è più il governo italiano a concederla, è il «grazie Sergio» pronunciato da Obama la chiave dell'accreditamento presso l'opinione pubblica e gli operatori di mercato. Se nel Novecento era il movimento operaio a detenere il monopolio dell'internazionalismo, oggi vale il contrario, «c'è un capitale-mondo» da un lato e «lavoratori sul cosiddetto territorio» dall'altro. «Da una parte il padrone globale, dall'altra gli operai di Pomigliano, di Melfi, di Termini Imerese, al più di Mirafiori, che arriva ancora a evocare Torino». Il no di pomigliano e quello di Mirafiori sono un segnale di resistenza e, più ancora, una lezione per la politica. «La partita non è chiusa. Queste partite qui non si chiudono mai».


Liberazione 19/01/2011, pag 9

Precari, solo pochi giorni per denunciare i padroni

C'è tempo fino al 21 gennaio per impugnare il contratto scaduto. Le istruzioni sul sito dei Giovani comunisti

Checchino Antonini
Ultimi giorni per glissare la tagliola anti-precari, la norma del collegato lavoro che stabilisce un tetto per contestare contratti a termine irregolari. Ennesima sanatoria per le imprese più scorrette. Come dire si parli ora o si taccia per sempre. Il tempo scadrebbe il 23 gennaio ma, siccome è domenica, c'è ancora meno tempo per attivarsi. Prima del collegato lavoro, entrato in vigore il 24 novembre scorso, solo la prescrizione - cinque anni - fermava la possibilità di denunciare un padrone che ti costringeva a lavorare con un contratto illecito o con ruoli diversi da quelli stabiliti sulla carta. La nuova norma, l'articolo 32 del collegato, ha applicazione retroattiva, si riferisce cioè anche a tutti i contratti scaduti. Per quelli ancora in corso, il termine dei sessanta giorni partirà dalla conclusione del contratto.
Corso Italia, la Cgil, stima tra i 100 e i 150mila i ricorsi in arrivo specie da medici e insegnanti, per il settore pubblico, o tra gli addetti precari della comunicazione, per il settore privato, Poste e Rai in prima fila nel campionato delle irregolarità datoriali. Certo, la questione non è che sia stata pompata dagli organi di stampa e, alla carenza informativa si va a sommare la paura, sempre decisiva nella governance delle relazioni industriali, di entrare in rotta di collisione con le aziende che spesso, Rai e Poste sono un caso da manuale, attingono a una sorta di bacino di precarietà. Spesso i contratti sono stagionali e passano più di sessanta giorni tra un rinnovo e l'altro e l'impugnazione potrebbe compromettere il rientro.
Anche il governo s'è sottratto all'obbligo di informare i lavoratori attraverso una campagna mirata di puvbblicità istituzionale ma questo è lo stesso esecutivo che, quando ha adoperato quello strumento, lo ha fatto per insinuare che le morti bianche siano colpa dei morti, perché non si vorrebbero abbastanza bene. Dunque non si stupisce nessuno che il sito di Sacconi non accenni a scadenze di alcun tipo nell'articoletto che riassume la truffa del collegato lavoro.
«Norma sbagliata, ingiusta e con vizi di incostituzionalità», sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil scettico sulla possibilità che si riesca a ridurre il contenzioso, vista la mole di ricorsi previsti, alzando il livello di trasparenza.
Ecco come sfruttare al meglio questo scampolo di tempo: buona norma quella di entrare in contatto - di persona o virtualmente - con il sindacato per avviare la causa e capire se il proprio contratto sia impugnabile. Tuttavia è sufficiente una raccomandata con ricevuta di ritorno per avvisare l'azienda dell'intenzione di procedere. Dopodiché ci saranno 270 giorni per produrre le carte necessarie e portarle al giudice del lavoro.
Utilissimo il sito dei Giovani comunisti che, assieme ai loro compagni di strada della Fgci, già al congresso della Federazione della sinistra hanno lanciato una vera campagna di informazione e attivazione. In rete, appunto, c'è una serie di materiali per i lavoratori e per la lavoratrici precarie, a termine, a progetto, a tempo, in apprendistato. Si tratta impugnative per ricorsi in proprio o mediante l'assistenza di un legale. Tra la modulistica suggerita ci sono anche quella di un'impugnativa per lavoro nero, per licenziamento verbale e di contestazione trasferimento. Oltre a schede e tabelle riepilogative del famigerato lavoro. Su un altro sito molto utile, controlacrisi.org, c'è la storia interessante di un lavoratore, a tutti gli effetti dipendente, che viene inquadrato in un call center con un contratto a progetto, anche se il suo rapporto è invece chiaramente di lavoro subordinato. Il giudice del lavoro di Reggio Calabria ha condannato l'azienda (telefonate outbound) a convertire il contratto a tempo indeterminato e a riconoscere al lavoratore un risarcimento della bellezza di 46.961 euro. Capito perché Sacconi ci teneva molto alla tagliola antiprecari?


Liberazione 19/01/2011, pag 6

La lotta a Mirafiori può cambiare la politica

Ferrero: «Ora un candidato sindaco espressione della Fiom»
Maurizio Pagliassotti
Torino
Il nome che circola è quello di Giorgio Airaudo, lui si schermisce e propende per il No anche se sono in molti che lo vedrebbero bene come sindaco di Torino. Punto e capo. Cognomi a parte, la vicenda sindacale della Fiat deborda nell'agone politico per ovvie ragioni attraverso questa domanda: può Mirafiori riportare il tema del lavoro al centro dell'agenda politica torinese e di riflesso anche di quella nazionale? La Torino che ha vibrato venerdì notte ed ha gioito vedendo la vittoria della Fiom sull'arroganza degli Agnelli si domanda: è possibile evitare la solita vittoria dei poteri forti in città? I primi a domandarselo sono gli stessi operai di Mirafiori, ieri nuovamente in fabbrica a ranghi completi. Rosa ha votato no: «Se mi sta chiedendo se voterei Airaudo sindaco le dico di sì. Però lui è un sindacalista e ci serve in fabbrica. La politica ne deve trovare uno come lui e lasciarci il nostro». Roberto invece dice un po' ruvido: «A Mirafiori noi abbiamo votato al posto della politica che nel Parlamento oltre a non fare un cazzo non è manco capace di prendere delle decisioni. Un politico che porti avanti le esigenze dei lavoratori? A me sembra che ci siano già, il problema è che perdono sempre. Non sarà la Fiom a risolvere questo problema in Italia». Barbara Tibaldi, dirigente Fiom a Torino: «Il referendum è andato bene ma abbiamo un problema molto grave. La verità è rimasta chiusa dentro questa fabbrica, murata. La sanno gli operai a soprattutto i capi che hanno fatto passare il sì. E' necessario che la verità esca da qua dentro anche entrando nell'agone della politica». Federico Bellono, segretario provinciale Fiom: «Penso che le istanze del mondo del lavoro abbiano in questo momento delle autostrade aperte per affermarsi, soprattutto a Torino. Ed è inutile la rincorsa del centro sinistra di Fassino a questi lavoratori che chiedono di essere rappresentati. Adesso è troppo facile dire che gli operai devono essere ascoltati».
Spente le telecamere la presenza politica a Mirafiori è semiscomparsa. Unico presente, in maniera sobria, ieri era Paolo Ferrero, segretario Prc: «La Federazione della Sinistra è qui per testimoniare tre cose. Primo: è necessario allargare il conflitto a tutto il gruppo Fiat. Secondo: lo sciopero generale è un obbligo. Terzo: Torino necessita di un candidato sindaco forte ed espressione della Fiom. E' necessario dire che c'è qualcuno che non sta solo contro Berlusconi, ma anche contro Marchionne - ha continuato Ferrero - è una cosa fondamentale in questo momento. Noi lavoriamo per questo anche a Torino. Marchionne dovrebbe capire il segnale che gli è arrivato se gli interessa produrre automobili. C'è una parte del centrosinistra molto contro Berlusconi e molto a favore di Marchionne, serve invece una sinistra contraria a entrambi». Anche SeL torinese è tentata dalla carta Fiom. Monica Cerutti, consigliera regionale, dice: «Il nostro desiderio è arrivare alle primarie di coalizione con un candidato espressione di quanto si è raccolto intorno ai cancelli di Mirafiori in questi giorni. Riportare al centro dell'agenda politica il lavoro può essere uno strumento valido per coagulare, con forza, le forze in campo». Non piace al Pd torinese l'idea di una candidato sindaco figlio di Mirafiori e del lavoro. Paola Bragantini, presente venerdì scorso per un attimo alla Porta due in mezzo agli irriducibili della Fiom in attesa degli esiti, dice: «Vendola sta giocando una partita nazionale sulla pelle del centrosinistra torinese, incurante dei percorsi che la coalizione ha imboccato».
Se la politica desidera un passo avanti da parte di chi ha combattuto a Mirafiori il mondo della cultura ne consiglia due indietro. Marco Revelli: «Il lavoro al centro della politica, sarebbe molto bello. Ma è un sogno. L'incubo è che personaggi come Airaudo finiscano nel tritacarne a seguito di una appropriazione indebita da parte della classe politica del suo volto ». Luciano Gallino: «Un sindaco legato al lavoro è una speranza irrealizzabile. Le forze in campo a Torino legate ai poteri forti sono predominanti e il rischio sarebbe di prendere pochi voti solo tra gli operai». E la società civile sulle barricate del precariato? Alberto Pantaloni, Rsu della Slc Cgil, fa parte dell'Assemblea Lavoratori Studenti del Politecnico di Torino: «L'esperienza di Obama dimostra che un nome, anche ottimo, non può nulla in assenza di un programma e soprattutto della forza necessaria per realizzarlo». I giovani delle Officine Corsare invece si schierano: «Il nostro impegno in campagna ci sarà solo in caso di Airaudo candidato, cosa che auspichiamo. La Fiom è salita con noi sui tetti ed ha organizzato diversi incontri con i giovani».


Liberazione 19/01/2011, pag 19

Lavoro e dintorni, la lezione delle tute blu

A Roma da tutta Italia per l'attivo del Prc

Stefano Galieni
Sono venuti da molte città d'Italia, lavoratori e lavoratrici del Prc, per un attivo in cui si doveva fare il punto su numerose questioni riguardanti quanto sta accadendo, anche di sorprendente, non solo fra i metalmeccanici. E non a caso all'attivo - durato quasi sei ore ed aperto da un ampia analisi sulla situazione economica italiana ed internazionale, preparata da Roberta Fantozzi - ha partecipato gran parte della segreteria nazionale (responsabili Area della conoscenza, comunicazione, economia), la coordinatrice nazionale dei giovani comunisti, e numerosi responsabili regionali e provinciali delle tematiche inerenti lavoro e welfare.
Fantozzi, dopo aver espresso una valutazione di quanto accaduto in Fiat, ha provato a guardare al giorno dopo, a quanto questo risultato modifica, anche nella narrazione collettiva, il rapporto con il mondo del lavoro e come questo, a catena, trascini la necessità di comprendere meglio la crisi economica che si attraversa, e le reazioni che nel paese si vanno rafforzando. Inevitabile, per molti interventi, partire da quanto accaduto a Mirafiori e quali ripercussioni questo potrà avere nel quadro nazionale.
Ma il risultato torinese ha fornito anche una chiave interessante anche se non onnicomprensiva per definire strategie di intervento politico di cui il Prc e la Federazione possono farsi carico. Si è confermata l'urgenza di definire un profilo politico che attraverso poche ma inequivocabili parole d'ordine, riesca a ridare visibilità sociale all'interno del mondo del lavoro come nei movimenti. Le analisi emerse e fatte proprie da Paolo Ferrero nelle conclusioni porteranno in tempi brevi ad una direzione che dovrà individuare queste "campagne di massa", ma alcuni elementi dovranno comunque trovare collocazione nell'intervento politico. Il partito, pur presente in fabbrica come nei movimenti, deve riuscire ad esserlo in maniera più pronta e coordinata, farsi carico di proposte, ragionare, come ha sottolineato Forenza, non di "direzione del movimento" ma di "direzione nel movimento". Questo significa non solo raddoppiare gli sforzi e cercare pari legittimità, ma essere pronti ad intervenire nei nessi e nelle interconnessioni per favorire una politicizzazione già forte.
La crisi, secondo Rocchi, consegna un quadro europeo altamente preoccupante che ci dovrebbe far riflettere anche in maniera più decisa rispetto a questa Europa, ma, come hanno sottolineato Patta e Boghetta fra gli altri, va anche svelata e denunciata una condizione di errato utilizzo delle risorse nazionali. Risorse che ci sono ma che vengono spese per le grandi opere, per l'acquisto di armi, che non appaiono a causa di corruzione ed evasione fiscale, ma che invece potrebbero garantire condizioni di vita e di lavoro decenti per tutti. È questo un lessico semplice e immediato, che potrebbe se ben utilizzato tra l'altro contribuire alla ricomposizione di una sinistra divisa e percepita come inefficace.
Ampliamento del movimento e realizzazione di una sinistra di alternativa sono essenziali a fronte della crisi tanto del Pdl che del Pd ed alla impossibilità di soluzioni che passino per un liberismo temperato. In maniera più o meno netta, da Giardiello che aveva seguito direttamente la situazione torinese a compagni e compagne che lavorano in piccole e grandi aziende, si avverte che il clima sta cambiando e che esiste una capacità reattiva in cui sembrava impossibile sperare, dovuta tanto al peggioramento delle condizioni materiali quanto alla consapevolezza che le ricette moderate hanno fallito in pieno.
Di crisi strutturale i cui effetti emergono in maniera asimmetrica nello scenario mondiale - Cina, India, Brasile e altre realtà emergenti hanno tassi di sviluppo del Pil che permettono di assorbire occupazione, Europa e Usa no - ha parlato nelle conclusioni Paolo Ferrero. A fronte di un peggioramento delle condizioni di vita, secondo il segretario del Prc, emerge la possibilità di costruire una fase di resistenza e di opposizione in cui i soggetti colpiti dalla crisi individuano un unico nemico. Esiste insomma, non solo a Mirafiori, l'Italia che non si piega e che potrebbe cominciare a cercare una soluzione di uscita dalla crisi "in basso a sinistra", cominciando ad esempio a ragionare della gestione dei beni comuni come beni pubblici e ad individuare nel lavoro e nella lotta alla precarietà elementi fondativi per ripartire. Cacciare Berlusconi in quanto pericoloso per la democrazia resta un obbiettivo principale che lascia inalterata la proposta del fronte democratico, ma di pari passo va mantenuto l'obiettivo di cacciare anche Marchionne e l'attacco antidemocratico di cui è portatore per i diritti dei lavoratori.


Liberazione 18/01/2011, pag 5

A Marchionne un no chiaro ed inequivocabile

Giorgio Cremaschi
Con le lacrime agli occhi, di gioia stavolta, i lavoratori italiani hanno accolto il voto di Mirafiori. Al di là di qualche piccolo escamotage dell'ultima ora oramai è chiaro che la maggioranza degli operai non ha detto sì a Marchionne e che la netta maggioranza di coloro che subiscono il più duro attacco alle condizioni di lavoro, gli addetti ai montaggi e alla lastroferratura ha detto un no chiaro ed inequivocabile. Il sì passa sostanzialmente per la valanga di voti favorevoli degli impiegati che, come da tradizione in Fiat, hanno deciso che era giusto che gli operai lavorassero a condizioni che essi non subiranno mai.
La portata immediata di questo voto è enorme. Questo vuol dire che il disegno di Marchionne di cancellare la libertà e l'autonomia del lavoro in fabbrica è, allo stato attuale, privo del consenso e della forza necessaria per affermarsi. Le tante mosche cocchiere politiche e sindacali possono anche affrettarsi a dire che ha vinto il sì, ma Marchionne sa perfettamente di avere perso. Ora si apre la via per mettere in discussione questo accordo. C'è il tempo necessario anche perché ai lavoratori a cui è stata chiesta una rinuncia preventiva a tutto, spetta ancora un anno di cassaintegrazione. Altro che i 3.500 euro in più.
Bisogna costruire una risposta sindacale, politica e giuridica, vista la quantità di violazioni di leggi e diritti che sono contenuti nelle clausole capestro dell'accordo. Ma ancora più grande è la portata di fondo di questo voto. Il no degli operai di Mirafiori ci dice che la politica del lavoro usa e getta, la negazione di piani industriali seri e credibili, l'assenza di reali programmi per il futuro, non possono più essere spacciati come la modernità che risolve la crisi.
Si è creato lo spazio oggi per costruire un programma economico e sociale alternativo a quello di Marchionne e del liberismo selvaggio e per sostenerlo con un grande movimento di lotta.
Il no degli operai di Mirafiori parla a tutto il mondo del lavoro che non vuol più piegare la testa, parla ai giovani e agli studenti, a tutti i movimenti. Questo no dice a tutti che è possibile respingere il ricatto e incrinare quel regime di ingiustizie e sopraffazione che solo sul ricatto fonda la sua forza. Il no degli operai di Mirafiori parla alla Cgil e le chiede con chiarezza di mettersi a fianco di tutti i movimenti di lotta e di programmare finalmente quello sciopero generale che è oramai nell'ordine delle cose. Infine questo no parla alla politica. Le anime morte della sinistra che hanno spiegato al mondo che come operai di Mirafiori avrebbero votato sì, oggi si identificano solo con il voto degli impiegati. La sinistra che non capisce più gli operai e la questione sociale e che si innamora di ogni Marchionne che le vende modernità a basso costo, ha finito il suo percorso nel nostro Paese. Gli operai di Mirafiori chiedono di essere rappresentati da altro.
Infine è giusto che tutti e tutte noi ringraziamo i militanti della Fiom e del sindacalismo di base, le loro Rsu che a Mirafiori, contro tutto il regime mediatico e tutte le intimidazioni, hanno creduto in questa battaglia. Certo grandi sono i meriti della Fiom, e provo orgoglio nel ricordarli. Ma so anche che il merito principale di questa organizzazione è quello di essere in sintonia con quella parte crescente del nostro Paese che non ha più voglia di piegare la testa e che considera che il regime del ricatto nel nome del profitto non sia più socialmente e moralmente tollerabile.
Così il no degli operai di Mirafiori accompagna un'altra grande buona notizia. Il successo della prima rivoluzione del ventunesimo secolo: quella dei giovani e degli operai tunisini che hanno travolto la dittatura che li opprimeva. Proprio in queste settimane la Tunisia, assieme alla Serbia, era diventata uno di quei paesi utilizzati per spiegare agli operai italiani che debbono rinunciare a tutto altrimenti lì va a finire il loro lavoro. Come si vede anche questi ricatti alla fine hanno una prospettiva corta perché tutto il mondo comincia a ribellarsi al supersfruttamento dell'economia globalizzata. E proprio in questi giorni, anche in Serbia, gli operai stanno scioperando contro i ricatti della Fiat. Grazie operai e operaie di Mirafiori, con voi oggi ci sentiamo tutti più liberi e un po' più forti. Ci ritroveremo subito tutti assieme in piazza il 28 gennaio.


Liberazione 16/01/2011, pag 1 e 3

Il metodo argentino di Marchionne. In fabbrica paura e sfruttamento

Alla Fiat di Cordoba 12 ore di lavoro per 6 giorni alla settimana. Per gli operai pressioni, fatica, straordinari, malanni e punizioni
Lorena Capogrossi*, Elisabetta Della Corte**, Paolo Caputo**
Non si uccidono così anche i cavalli? E' un film di Sidney Pollack del 1969. Nell'America in crisi degli anni '30 un gruppo di persone, costrette a fare di tutto per vivere, partecipa ad una maratona di ballo in vista di un premio in soldi. Ballare per ore e ore, muoversi melanconicamente per necessità fino allo sfinimento; alcuni dopo ore si ritirano, altri stramazzano al suolo. Da qui la domanda: non si uccidono così anche i cavalli? Pensate ora ad un operaio Fiat argentino, costretto a lavorare anche per dodici ore al giorno, per sei giorni a settimana, con i tendini infiammati, la schiena a pezzi e lacrime che scorrono giù lungo il viso per il dolore. Ma non si uccidono così anche i cavalli? Veniamo al caso italiano, al nuovo contratto Fiat per gli operai di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, e alle analogie e differenze con il caso argentino. Marchionne ha in testa un modello di governabilità del tipo "obbedire per competere", che somiglia molto a quello argentino, e lo ha imposto di forza anche in Italia con la compiacenza di Cisl e Uil. Fuori dai piedi, quindi, i vecchi diritti, con l'imposizione della mordacchia per la riluttante Fiom; e via libera alla flessibilità spazio-temporale e al disciplinamento stretto degli operai. In tempo di crisi, anche se la Fiat ha infilzato all'amo un piccolo investimento di 700 milioni di euro, non pochi sono disposti ad abboccare. E dal momento che il manager fa bene il suo lavoro, e sa che, minacciando di spostare la produzione verso nuovi "paradisi" dello sfruttamento, avrà più possibilità di imporre ciò che vuole ad un'italietta sempre pronta a genuflettersi ai piedi di un imprenditore globale, non c'è da meravigliarsi dei risultati dei referendum. L'operaio ideale che dovrebbe uscire dalla disciplina Marchionne dovrà parzialmente rinunciare al diritto di sciopero, accettare turni di lavoro umanamente insostenibili e straordinari sotto il ricatto di punizioni e licenziamenti, come già accade in Argentina. A differenza dell'Italia, lì, però, gli operai sono pagati con un salario che per la realtà Argentina è alto: circa 4000 pesos è quello base (un maestro ne guadagna quasi 3000) che con gli straordinari arriva a circa 7000, quasi 1400 euro. Tuttavia, quel salario, ha un costo umano enorme; a spiegarcelo sono gli stessi operai Fiat di Cordoba: anche se il contratto prevede otto ore giornaliere, con due pause da 15 minuti a cui si sommano i trenta della mensa a fine turno, gli straordinari sono diventati di ordinaria amministrazione. Lo straordinario, secondo quanto stipula il contratto collettivo di lavoro e la legge laboral vigente, sono opzionali. Però in pratica si utilizzano sottili meccanismi di pressione che obbligano i lavoratori a sottomettersi a giornate di lavoro prolungate. In questo modo si viene inghiottiti dalla fabbrica alle sei del mattino e se ne esce dopo 12 ore; poi il tempo di tornare a casa, cenare e via a dormire, ogni giorno per sei giorni a settimana. Dopo un po' di tempo iniziano i malanni fisici anche nel caso di operai giovani; sicché molti sono quelli che, nonostante i dolori lancinanti, non lasciano la linea per paura di perdere il posto. Salario e miedo (paura) sono i termini che più di frequente ritornano nelle interviste con gli operai Fiat di Cordoba, li usano per spiegare le ragioni per cui accettano quelle condizioni di lavoro. E' necessario tenere presente che l'esperienza degli anni '90 ha lasciato la sua impronta nella memoria collettiva dei lavoratori. Con livelli di disoccupazione che superavano il 13% della Pea (Popolazione economicamente attiva) nel 1999 e la pauperizzazione crescente di milioni di lavoratori, il miedo, la paura, diventò un'arma fondamentale del capitale per imporre le sue condizioni di sfruttamento. Anche così, oggi, nonostante il peso di quel passato e l'aggiunta di incentivi per favorire la fidelizzazione all'impresa, quel regime di prestazione psico-fisica, fatto di attenzione e forza fisica, che sfiancherebbe anche un giocatore di rugby, fa sì che il controllo della forza-lavoro vacilli di frequente. Quasi ogni mese, spiega un operaio, la politica del "miedo" viene ribadita con le punizioni esemplari, ovvero, i licenziamenti utili non solo per allontanare le "pecore nere" ma anche per riportare alla docilità gli altri operai. I licenziati, però, non devono comparire come tali ma come dimissionari, perché la Fiat, nell'accordo siglato con il governo di Cordoba - in base alla legge 9727 del programma di promozione e sviluppo industriale della provincia - si impegnava a non licenziare in cambio di consistenti agevolazioni, come, ad esempio, un forte sconto sul costo dell'energia elettrica. Fatta la legge trovato l'inganno: gli operai vanno via, nella maggior parte dei casi, con un foglio di dimissioni e un po' di soldi in tasca, una sorta di incentivo all'uscita. Ma cerchiamo di capire come si è arrivati a questo e quali altre similitudini presenta il caso argentino con quello italiano. Nei primi anni '90, in Argentina, sempre in tempo di crisi, così come in Italia oggi, si mandarono al macero una parte dei diritti sul lavoro per attrarre gli insediamenti delle multinazionali favorendo le contrattazioni di secondo livello, quelle aziendali. Da lì in poi le multinazionali dell'auto Fiat, Peugeot, Volkswagen, hanno potuto fare a Cordoba il bello e il cattivo tempo, ognuna con il suo contratto e con un solo sindacato (Smata), che registra molti tesserati ma pochi consensi. Anche in Argentina in quegli anni prevalse il discorso sull'efficacia degli investimenti per la ripresa economica ed occupazionale, trasformando gli sfruttatori in benefattori; anche lì si gonfiarono i dati sulla presunta ricaduta occupazionale e si dragarono in cambio vantaggi e incentivi. In fondo tutti sanno, operai, sindacalisti e sociologi del lavoro, che in quelle fabbriche - dove il sistema di produzione è stato adeguato al World class manufacturing (Wcm), il nuovo cavallo di troia ideato dai padroni del settore auto per ampliare controllo e disciplina sotto l'apparente neutralità delle esigenze produttive - le condizioni di lavoro sono peggiorate. Questo è lo scenario che gli operai Fiat di Pomigliano e Mirafiori si troveranno a vivere nei prossimi mesi. Anche se è prevedibile che questo regime disciplinare sia destinato a provocare resistenze, dallo sciopero generale alle proteste fabbrica per fabbrica, rimane il fatto che spremere come limoni migliaia di operai per favorire un settore decotto come quello dell'auto sia una scelta strategica catastrofica non solo in termini economici ma anche e soprattutto umani. Prima di assecondare il modello Marchionne, come fanno Chiamparino, Fassino e altri invasati del tardo industrialismo, ci si dovrebbe chiedere quali saranno le conseguenze tanto sui produttori quanto sui consumatori.
*Università di Cordoba, Argentina **Unical


Liberazione 14/01/2011, pag 3

Fiat, solidarietà dall'Europa alle tute blu

I metalmeccanici francesi sono pronti a sostenere lo sciopero del 28 gennaio
Fabio Sebastiani
Andare «avanti per il bene» del Paese. Sergio Marchionne, dopo l'ok del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi la butta in chiave nazionalista. Al Governo, però, dell'automotive non gliene importa un fico secco.
Nonostante questo clima, però, il "paese reale" per la prima volta nel pieno dell'abbuffata edonista di stampo berlusconiano ha avuto modo di accorgersi che c'è un pezzo che suda e soffre sulle linee di produzione. E domani si accorgerà, dovesse passare il "Sì", che esistono le "fabbriche-caserme", come ha definito la Fiat, ieri, la segretaria della Cgil Susanna Camusso.
La vicenda Fiat ha attirato l'interesse anche dei sindacati europei.
La proposta di Marchionne «è totalmente inaccettabile», dichiara il consigliere federale della Cgt Mètallurgie, Patrick Correa. «Appoggiamo la Fiom in questa azione contro un accordo che sferra un attacco fondamentale al diritto sindacale, alla contrattazione collettiva e alla carta sociale». La Cgt Mètallurgie aderisce allo sciopero generale del 28 gennaio indetto dalla Fiom e alle manifestazioni che si svolgeranno in quell'occasione. La Cgt guarda «con molta attenzione» a questa vicenda, che rappresenta un «cattivo segnale inviato a livello europeo». Da parte della Fiat, aggiunge Correa, «si tratta di un ricatto fatto ai lavoratori che peggiora le condizioni di lavoro e riduce il peso dei sindacati. È un cattivo segnale inviato dalla Fiat e temiamo che possa estendersi altrove, anche se la situazione sindacale in Italia non è la stessa rispetto agli altri paesi europei». In Francia e in Europa, infatti, sottolinea il sindacalista metalmeccanico della Cgt, «c'è più unità sindacale: Berlusconi e Marchionne hanno rotto questa unità sindacale in Italia». «Un attacco delle dimensioni di quello sferrato dalla Fiat in Italia in Francia e in Europa -sottolinea Correa- ancora non si avverte, anche se assistiamo da parte delle imprese a reazioni sempre più dure. In Francia nel corso delle ultime mobilitazioni rappresentanti sindacali sono stati sanzionati per aver scioperato e per noi questo dimostra solo la debolezza del padronato». Per il sindacato delle tute blu francesi, servirebbero nuove iniziative a livello europeo come la mobilitazione dei sindacati europei del 29 settembre scorso a Bruxelles contro le politiche di bilancio. «Con la crisi c'è stato una specie di ripiegamento nazionale mentre la riposta dovrebbe essere non solo nazionale ma anche a livello europeo. In Europa -in Spagna, in Francia, in Grecia, in Portogallo e in Germania- stiamo assistendo ad una moltiplicazione dei conflitti. Sarebbe auspicabile una convergenza dei sindacati».
E la Ces che dice? Nulla. Il segretario generale John Monks si limita ad osservare accordi come quello di Mirafiori, che introducono più flessibilità nel lavoro, «a volte funzionano, a volte no». La vicenda assomiglia a tante altre in giro per l'Europa. «È una storia che in Inghilterra conosciamo molto bene - ha spiegato - avendola vissuta più volte negli ultimi 20 anni». Senza entrare nel merito delle polemiche che in Italia hanno diviso i sindacati, Monks ha commentato solo le parole dell'ad di Fiat, Sergio Marchionne, che ha minacciato di lasciare l'Italia se al referendum vincerà il "no": «È quello che pensano tutte le imprese in Europa, non solo la Fiat», ha tagliato corto.
A ricordare che contro la minaccia di portare la Fiat all'estero si può opporre la Costituzione è Publio Fiori, ex ministro e oggi leader della Federazione dei democratici cristiani. «La delocalizzazione della più importante industria italiana (che fra l'altro ha usufruito di notevolissimi aiuti pubblici) è contraria all'interesse nazionale. E gli Art. 42 e 43 della Costituzione ne consentono l'espropriazione».


Liberazione 14/01/2011, pag 3

Nove domande alla Yamaha

Matteo Gaddi
Nove domande, secche e precise, che esigono risposte e che, al tempo stesso suonano come un atto d'accusa nei confronti della multinazionale giapponese che, nonostante i trionfi mondiali e i positivi risultati economici, ha deciso, di punto in bianco, di chiudere il reparto produzione dello stabilimento brianzolo licenziando 66 lavoratori.
In barba alla tanto sbandierata "responsabilità sociale di impresa" o alla mission di "Creare un clima aziendale favorevole all'iniziativa personale" così ben descritta nel Book Vision, il comportamento concreto della Direzione aziendale è stato quello di mettere i lavoratori in strada.
È dell'ottobre 2009 la decisione della Yamaha Motor Italia di far partire la procedura di licenziamento senza nessuna forma di confronto preventivo. «Per la Yamaha non bisognava nemmeno tentare la strada della cassa integrazione, avremmo dovuto accontentarci di qualche incentivo all'esodo rinunciando a tutti i nostri diritti espressamente previsti dalla legge italiana», spiegano i lavoratori in presidio. Davanti ai cancelli dello stabilimento Lesmo, nei pressi di Arcore, infatti, sono spuntate nuovamente tende, roulotte e striscioni che hanno accompagnato la ripresa della protesta. «Siamo tornati qui, nonostante i disagi del periodo invernale e delle feste natalizie, perché non ci stiamo a farci prendere in giro. Ci devono delle risposte e da qui non ci muoveremo fino a quando non le avremo».
Yamaha ha tentato persino di mettere in discussione l'applicazione dell'accordo sottoscritto al ministero del Lavoro il 7 gennaio del 2010, quando i lavoratori salirono sul tetto della fabbrica per ottenere almeno la cassa integrazione. Yamaha attraverso una interpretazione strumentale ha cercato di far saltare il secondo anno di Cassa senza riuscirci, ma contribuendo ad appesantire ancor di più il clima. Ma la ragione più forte che ha spinto i lavoratori cassaintegrati a riprendere il presidio è stata la volontà di avere risposte chiare sul Bilancio 2009, quello che a detta dell'Azienda avrebbe giustificato la chiusura della produzione.
Come Liberazione ha già avuto modo di spiegare, il Bilancio 2009 di Yamaha Italia finì in rosso a causa di una voce straordinaria: quasi 10 milioni di euro di accantonamento economico di cui oltre 7 milioni per rischi legali, incentivi economici all'esodo, sostegno per il raggiungimento dei requisiti pensionasti, supporto per ricollocazione professionale nonché ripristino del sito. Senza questa posta straordinaria anche il Bilancio 2009 avrebbe chiuso in attivo di oltre 3 milioni di euro. Mentre l'ultima voce, quella del ripristino del sito, appare talmente incredibile da non essere nemmeno presa in considerazione («se chiudi un sito produttivo cosa vai a ripristinare?!»), su tutte le altre sembrava essersi aperto un confronto, visto che per i lavoratori l'accordo del gennaio scorso destinava una cifra di dieci volte inferiore a quella iscritta a Bilancio dalla multinazionale: circa 700 mila euro contro gli oltre 7 milioni iscritti a Bilancio.
In occasione di incontri avvenuti nei mesi di novembre e dicembre 2010, la direzione aziendale, per voce del suo consulente, sembrava aprire una trattativa (definita dallo stesso "manutenzione dell'accordo") che implicitamente ammetteva che una parte di tale accantonamento sarebbe potuto essere redistribuito ai lavoratori ancora in cassa integrazione. Ma poi la chiusura totale, con l'ulteriore evidente strumentalizzazione del tentativo di far mancare il rinnovo del secondo anno di Cassa per i motivi sopra spiegati: l'impresa si è ridotta «a utilizzare questo argomento per distogliere l'attenzione sulle reali motivazioni all'origine della nostra protesta che nulla hanno a che vedere con il rinnovo della Cigs».
Ma non solo. La situazione si aggrava ulteriormente quando i lavoratori scoprono che a poca distanza (ad Arcore) dalla sede di Yamaha Motor Italia, appoggiandosi ad un terzista del settore, vengono prodotti (modificandoli), dei motocicli Yamaha, senza utilizzare nessun lavoratore cassaintegrato. Ce n'è abbastanza, quindi, per organizzare un presidio e diffondere una lettera aperta alla società civile con la quale diffondere le 9 domande.
Perché Yamaha non vuole rispondere nel merito sulla cifra complessiva dell'accantonamento (Euro 7.140.000) messa a bilancio?
Perché Yamaha ha chiuso la produzione e nello stesso tempo dichiara di voler "ripristinare il sito"? O si chiude o si ripristina!
Perché Yamaha non sostiene come era previsto nell'accordo, e come è specificato nella relativa voce messa a bilancio, i lavoratori pensionabili?
Perché Yamaha rispetto a un costo dell'accordo di circa Euro 700.000 ne accantona Euro 7.140.000?
Perché Yamaha dichiara la chiusura dell'unità produttiva mentre nello stesso tempo, a pochi chilometri di distanza continua a produrre, modificandole, moto Yamaha e, cosa ancora più grave, senza coinvolgere i lavoratori posti in cassa integrazione?
Perché Yamaha attraverso i suoi comunicati continua a mentire sulla cifra economica che era disposta a erogare ai lavoratori (2 retribuzioni annue lorde), senza mai averla veramente ufficializzata?
Perché Yamaha ha cambiato in modo repentino e mirato il contratto, passandolo da Commercio a Industria, a lavoratori in categorie protette per poi licenziarli?
Perché la direzione aziendale, per i lavoratori del commercio, non ha applicato la rotazione come previsto dalla legge?
Perché Yamaha incomprensibilmente continua a sperperare denaro aziendale attraverso consulenti e avvocati senza ottenere alcun risultato, se non intensificare la protesta, e non intraprende la strada più logica e responsabile di un riconoscimento economico direttamente proporzionale all'accantonamento di bilancio, evitando inevitabili danni alla propria immagine?
E per chiudere, i lavoratori fanno capire che, come sempre, fanno sul serio: «È meglio essere chiari: il nostro presidio non si smobiliterà fino a quando Yamaha Motor Italia non accetterà di discutere e risolvere le gravissime questioni all'origine di questa protesta. Nelle prossime settimane saranno messe in campo nuove e fortissime forme di protesta per portare al più alto grado di attenzione questa situazione».


Liberazione 13/01/2011, pag 16

Che la ruota (panoramica) torni a girare

Roma Luneur

Saverio Pedrazzini*
1953. A Roma nasce il Luneur, il più antico lunapark d'Italia. L'occasione fu la Fiera dell'Agricoltura. Da allora, visto il grande successo di pubblico, si decise di ridar vita al parco una volta l'anno fino al 1960 quando, per dare ulteriore lustro alla Roma Olimpica, il Luneur restò aperto per tutti i 365 giorni. Un anno dopo, si decise di dotare la Capitale di un lunapark permanente. Così, dal 1961, ogni nove anni il contratto di concessione tra l'Ente Eur e la società di gestione del Luneur (Luppro) è sempre stato rinnovato. Fino al 2007, anno in cui la ruota panoramica che domina l'Eur ha smesso di girare.
Chi vi scrive fa parte di una delle 150 famiglie che dal 2007 sono abbandonate a loro stesse da un'amministrazione comunale che sta facendo dell'Eur, e della città di Roma, l'ennesima vetrina per le proprie politiche incentrate su grandi eventi a motivare (e coprire) grandi speculazioni. Non passa giorno in cui il "nostro" sindaco non rilasci interviste per tirare acqua al devastante mulino della Formula Uno che porterà alla definitiva cementificazione del quartiere per favorire gli interessi del gruppo Flammini e dei grandi investitori che hanno deciso di fare scempio del quartiere. Non una parola, però, è pervenuta dal Campidoglio per noi che, da oltre tre anni, siamo stati lasciati senza lavoro per favorire gli interessi dei poteri forti della città, nel nostro caso il gruppo Cinecittà Entertainment. Eppure ricordiamo benissimo le parole del candidato sindaco Alemanno quando, in campagna elettorale, ci raccontava delle sue domeniche passate con famiglia al Luneur. Ma oggi, il vero sindaco di Roma, quel Maurizio Flammini deus ex machina del Gp di Roma, non può di certo pensare di ridar vita a un parco al cui posto sono già in progetto nuove speculazioni edilizie.
Per questo, quando venne stilato il bando di gara ad evidenza pubblica europea per l'assegnazione dello spazio, questo fu confezionato in modo tale da scoraggiare qualunque partecipante avesse interesse a ridar vita al parco. Troppo serrati i vincoli per la gestione. Poco interessanti le prospettive di rilancio. E comunque, per non rischiare che il terreno del Luneur finisse nelle mani "sbagliate", l'Eur Spa inserì una clausola per riservarsi «a suo insindacabile giudizio la decisione». Compresa l'assegnazione. Così oggi non possiamo che soccombere davanti al "mostro Eur": un ente pubblico (Eur spa è del 90% del ministero dell'Economia e Finanze e del 10% del Comune di Roma) a gestione privata. Così, anche se il destino delle nostre famiglie è ormai segnato, se una "tradizione" familiare lunga cinquanta anni è stata stroncata da una politica sempre più "gestione della cosa privata", non ci fermeremo.
L'abuso che è stato fatto, con la chiusura di uno dei parchi più importanti d'Italia, "colpevole" di incidere su un quadrante ad alto tasso di interesse speculativo, tra una grande opera, la Nuvola di Fuksas, e un grande evento, la Formula Uno di Flammini, è sotto gli occhi di tutti. Noi, che per cinquanta anni abbiamo creato, con il nostro lavoro, un punto di aggregazione e socializzazione non solo per l'Eur ma per tutta Roma, siamo tra la gente, e la gente è con noi. Siamo parte del tessuto sociale di questa città, mentre chi ci governa non sa neanche cosa sia il tessuto sociale. Noi, per cinquanta anni, abbiamo creato divertimento. Addirittura, su nostra iniziativa, abbiamo dato vita alla giornata "Divertiamoci insieme": per venti anni, nel silenzio dei media, senza il minimo riconoscimento istituzionale, abbiamo dedicato un'intera giornata ai diversamente abili. Per ventiquattro ore, con un impegno senza pari in Europa, abbiamo dedicato tutto il luna park a chi quotidianamente viene abbandonato, dalla nostra classe politica, al suo destino. A noi, infatti, è sempre bastato il riconoscimento delle associazioni di disabili e delle famiglie che hanno riempito il Luneur. Non solo. Il Luneur, per cinquanta anni, è stato l'unico parco a ingresso libero. Infine, cosa da non sottovalutare nel paese dei finanziamenti statali a manica larga, nella sua lunga attività il Luneur ha contato sempre e solo sulla propria forza e capacità di attrattiva: non abbiamo mai ricevuto un euro di contributo statale. Al contrario, tutto ciò che abbiamo realizzato, lo abbiamo fatto per la città di Roma, dimenticati dalla nostra amministrazione ma ricevendo diversi attestati a livello europeo. Ebbene, oggi, a difesa di questo pezzo di storia di Roma, abbiamo avviato una serie di iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica su questa vicenda: interrogazioni parlamentari e comunali, ma soprattutto manifestazioni di piazza sono già in calendario per le prossime settimane. Noi del comitato per la riapertura del Luneur, affiancati e sostenuti dal circolo Che Guevara e da Rifondazione Comunista tutta, stiamo rialzando la testa sperimentando sulla nostra pelle che solo attraverso la lotta è possibile far valere i propri diritti. Così, stiamo aggregando i comitati che si occupano della difesa degli studi di Cinecittà, anch'essi parte della storia e della cultura di Roma e purtroppo sotto attacco da parte della speculazione edilizia (che porta lo stesso nome del Luneur, Cinecittà Entertainment). E se dietro le scrivanie, su ricche poltrone, siedono personaggi del calibro di Luigi Abete, dietro le barricate, nelle piazze, ci siamo noi. I lavoratori e le maestranze del Luneur e di Cinecittà.
*(ex) lavoratore Luneur


Liberazione 13/01/2011, pag 13

Resisteremo al fascismo aziendale

Giorgio Cremaschi
Comunque vada il referendum a Mirafiori noi andremo avanti. La lotta contro l'autoritarismo e il fascismo aziendale di Marchionne e per un lavoro dignitoso e libero continuerà.
E' stata la Fiat a volere questo referendum, come hanno mostrato anche le goffe richieste di alcuni sindacati di rinviarlo. E' stata la Fiat a volere il giudizio di Dio conclusivo sul contratto nazionale e sui diritti e le libertà sindacali.
I lavoratori di Mirafiori dovrebbero votare per conto di tutti i lavoratori italiani la rinuncia a tutto. Questo referendum non ha alcuna legittimità formale e morale, è solo una brutale estorsione a danni di lavoratrici e lavoratori che, in condizione libera, non avrebbero un dubbio a dire di no. La Fiat per prima ha dichiarato di non essere disposta ad accettare il no minacciando la chiusura della fabbrica. Perché allora, nel caso opposto, dovrebbe farlo la Fiom? Sapendo che anche coloro che voteranno sì lo faranno con la rabbia e le lacrime agli occhi?
Che il principale partito di opposizione, che si autodefinisce democratico, non veda la lesione dei principi costituzionali della democrazia in questo plebiscito autoritario, è la più grande vittoria di Berlusconi. Questo referendum è illegittimo formalmente e moralmente, anche perché secondo l'accordo dovrebbe essere l'ultima volta che si vota. Come in tutte le tirannie, si vota di non votare mai più. Non si eleggeranno più le rappresentanze sindacali, e le assemblee di oggi dovrebbero essere le ultime libere. Le iscrizioni alla Fiom saranno proibite, così come qualsiasi forma di libera scelta sindacale. Come chiamare questo, se non fascismo aziendale? D'altra parte, per imporre le condizioni di supersfruttamento che vuole la Fiat si può solo creare un regime di ricatto permanente. Anche dopo il voto, se dovesse passare il sì, i lavoratori subiranno sempre la minaccia o del licenziamento individuale, con le clausole capestro che saranno costretti a firmare uno per uno, o della chiusura della fabbrica, come è scritto nell'accordo.
Di fronte a questa vergogna tutte le parole paiono insufficienti e forse solo le lacrime del pensionato Fiat, comparse su tutte le tv, esprimono il dramma. Chi vede in questo il progresso o è un mascalzone o è un'idiota.
Comunque vada il voto i lavoratori non resteranno soli perché avranno la Fiom al loro fianco, dentro e fuori dalla fabbrica, nell'iniziativa sindacale così come di fronte ai giudici. La Fiom non firmerà mai questo accordo e continuerà la lotta per rovesciarlo. Non ci sono riusciti i tedeschi, nel 1945, a distruggere Mirafiori, non ci riuscirà Marchionne oggi.


Liberazione 13/01/2011, pag 1

L'irruzione del conflitto sociale e la deriva mercatista del Pd

Dino Greco
Poiché l'ipocrisia è sempre di tutti i mali quello peggiore, converrà venire in chiaro su ciò che la vicenda Fiat rivela della mutazione che ha compiutamente trasformato il partito di Bersani in una formazione liberale sempre più labilmente contaminata da reminiscenze democratiche. Sotto il reiterato invito che il Pd rivolge alla Fiom di rispettare l'esito del referendum/ricatto di cui i democratici immaginano e - diciamolo con chiarezza - auspicano un esito favorevole all'azienda, si scorgono, senza bisogno di ricorrere a sofisticate dietrologie, due tesi precise. La prima è che il piano industriale della Fiat, del quale pressoché nulla si conosce, va bene ugualmente, perché la minaccia di smobilizzo fa salire la paura a 90 e induce a fare finta che il fiele contenuto nel bicchiere sia vino di qualità; la seconda è che l'oggetto intrinseco dell'accordo, le condizioni imposte da Marchionne non siano, come con tutta evidenza sono, insopportabilmente peggiorative delle condizioni di lavoro e altrettanto lesive di diritti individuali e collettivi - una sorta di spada di Brenno che l'Ad della Fiat cala con sprezzante arroganza sul piatto della bilancia - ma un provvisorio ripiegamento che potrà essere in seguito superato, magari attraverso una legge sulla rappresentanza. Che è esattamente quanto fino ad ora - da parte del centrosinistra come del centrodestra - si è scrupolosamente voluto evitare, ritenendo l'uno e l'altro schieramento alquanto pericoloso riconoscere la sovranità dei lavoratori sull'attività contrattuale di chi presume di rappresentarli. Poi c'è anche di peggio perché, con buona pace di Stefano Fassina, nel Pd tengono banco orientamenti come quello di Veltroni, o di Fassino, o di Chiamparino e via sbaraccando: orientamenti apertamente filoaziendali, con la sola variante di considerare casomai opportuno che chi si ostina a non capire la modernità e i vincoli della globalizzazione (la Fiom) non sia escluso dalla rappresentanza sindacale aziendale. Ma, anche in questo caso, l'invito non è rivolto al management, o al padrone, o al governo perché si impegnino ad impedire una palese vulnerazione democratica, bensì al sindacato di Landini che dovrebbe disarmare e aderire - sia pure dissentendo e recalcitrando - al sistema neocorporativo di relazioni industriali che la Fiat intende solennemente instaurare.
Sicché la richiesta di non sottrarsi all'esito del plebiscito imposto da Marchionne suona, inequivocabilmente, come una pressione esercitata sui lavoratori affinché si rassegnino a passare sotto le forche caudine e votino "sì".
Tuttavia, la rivolta operaia contro la Fiat ha già avuto un merito formidabile: quello di riportare al centro dell'attenzione generale la verità dei rapporti sociali, per gran tempo rimossa dalla cortina fumogena di una dialettica politica congelata nel Palazzo e ripiegata su se stessa, fra una maggioranza ed un'opposizione di "sua maestà", avvinte in un gioco di specchi dove mai nulla succede davvero, perché tutto accade fuori dai riflettori e fuori dalla portata delle sbiadite controfigure che si agitano convulsamente su quel proscenio.
Il fatto è che proprio mentre costoro hanno cercato di inscrivere la contesa politica in un'area neutra, artificialmente e consensualmente mondata del conflitto sociale, questo ha fatto irruzione nelle quinte di una rappresentazione fraudolenta che dà per estinte le classi e - in modo esplicito o surrettizio - intesta il progresso al capitale, solo orizzonte pensabile, dove i progetti politici paiono copie intercambiabili del tutto interne al medesimo paradigma.
L'irriducibilità dei metalmeccanici della Cgil a questo disegno di ruvida involuzione reazionaria, ha bruscamente interrotto lo stucchevole minuetto, e la lotta dei lavoratori si è saldata, non per giustapposizione, ma per organica connessione, al movimento degli studenti, dei precari, dei migranti, portando alla luce la natura crudelmente classista e autoritaria del potere, quello reale, incardinato nei rapporti di produzione, pedissequamente servito, come mai accaduto prima in epoca repubblicana, dalla casta al governo.
La contraddizione senza scampo in cui è imprigionata l'opposizione parlamentare è che, proprio mentre si appalesa nel modo più duro la dittatura dell'impresa, essa si smarrisce e rincula, aumentando la distanza che la separa dagli strati sociali che dalla sferza della crisi sono più colpiti.
Dai primordi fino a trent'anni fa, la sinistra aveva costruito la propria identità, il proprio profilo culturale, strategico e programmatico su un'idea di fondo: che sviluppo e diritti formassero una coppia indivisibile, camminassero insieme e solo dall'indissolubilità di questo sodalizio derivasse il progresso sociale. Questa convinzione si è via via attenuata fino a dissolversi completamente, per approdare, più o meno acriticamente, nei dintorni dell'ideologia mercatista che consegna all'impresa capitalistica la funzione di motore e di guida della società. Senza intralci politici sociali costituzionali ambientali che ne limitino o condizionino funzionamento e direzione di marcia.
Provi a chiedersi, il Pd, per quale ragione alla crisi di consenso del più screditato dei governi di centrodestra corrisponda anche il proprio declino.


Liberazione 12/01/2011, pag 1 e 3

Fiat, la Fiom rilancia lo sciopero «La partita non è chiusa»

«Non siamo quelli del "No". Firmati oltre mille accordi». Landini lancia una sottoscrizione straordinaria

Fabio Sebastiani
«Per noi la vertenza con la Fiat rimane aperta». Il segretario generale della Fiom Maurizio Landini, fino ad oggi noto per la mitezza nell'atteggiamento unita ad una decisione nei contenuti, lancia un vero e proprio guanto di sfida a Sergio Marchionne. Lo fa circondato da un nugolo di telecamere e di block notes dal bunker di Corso Trieste, storica sede della ex-Flm (l'organizzazione sindacale che univa sotto un'un ica bandiera Fiom, Fim e Uilm), nel corso della conferenza stampa di presentazione dello sciopero generale del 28 gennaio. Il clima è talmente carico che un cronista inesperto titola "Possiamo vincere la partita", lasciando intendere il referendum.
Quasi impossibile vincere il referendum, ma la Fiom in questa fase ce la sta mettendo tutta. Tra le altre ipotesi anche il ricorso legale. Su questo, dopo gli incoraggianti segnali che sono arrivati nei giorni scorsi dagli ambienti vicini alla Corte Costituzionale, è in programma un incontro con la Consulta giuridica della Cgil.
Intanto, i metalmeccanici della Cgil rilanciano tutte le ragioni dello sciopero, che a questo punto si configura sempre di più come uno sciopero politico contro l'attacco alla Costituzione italiana e ai diritti dei lavoratori. E poi apre «una sottoscrizione straordinaria» il cui obiettivo non è solo quello di valutare la solidarietà in termini di risorse ma anche in termini di consenso. La sottoscrizione si può fare anche attraverso internet.
A pochi giorni dal referendum sul futuro dello stabilimento, fissato per giovedì e venerdì, ieri ripartita la produzione a Mirafiori, dopo tre settimane di cassa integrazione. Da mercoledì saranno nello stabilimento tutti i 5.500 operai. I primi a rientrare sono stati gli operai dell'Alfa Mito (300 con il primo turno, alle 6; altri 500 negli altri due turni della giornata).
Ad accoglierli c'era un opuscolo della Fiom con il testo integrale dell'accordo: una pubblicizzazione che nemmeno Fim, Uilm, Ugl e Fismic, avevano ancora tentato. Strano, eppure loro dovevano considerarsi i diretti interessati.
Sul frontespizio la Fiom ha scritto: «Se cedi un dito ti prendono il braccio»: un vecchio slogan del '68 torinese sempre attuale.
Sarà sulla base di quell'opuscolo che la Fiom proprio in questi giorni terrà le assemblee a Mirafiori.
A "rimanere aperto", poi, è anche il confronto con la Cgil. Il "pari e patta" di domenica lascia aperti tutti i nodi strategici. Non a caso ieri sera c'è stato un incontro tra la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso e la minoranza della Fiom. Nel "sindacalese" stretto equivale ad un aperto atto di ostilità.
Landini, nel corso della conferenza stampa, invece, ha sottolineato come lo sciopero sarà ampiamente partecipato e sostenuto dai segretari nazionali della Cgil, presenti in moltissimi comizi di chiusura. Susanna Camusso sarà a Bologna nella iniziativa che, però, è stata anticipata in questo caso al 27 gennaio. Insomma, nessun cenno ai dissensi e nemmeno alla partita della "firma tecnica", che a questo punto viene sostenuta solo all'interno del Pd. Al summit di Corso d'Italia non si è parlato di sciopero generale. Ma a questo punto è chiaro che a tutti convenga fare un passo alla volta. Il primo lo farà oggi Camusso che dal palco della assemblea delle Camere del lavoro a Chianciano parlerà della proposta Cgil sulla rappresentanza.
Maurizio Landini ci tiene a ribadire un concetto: «Siamo il sindacato che firma più accordi nel Paese». Oltre mille gli accordi che hanno coinvolto circa 230 mila metalmeccanici, dalla Ferrari alla Brembo, dalla Indesit alla Lamborghini che è tedesca. Non è finita, perché nei rinnovi delle rsu per le quali hanno votato complessivamente 30 mila lavoratori la Fiom, dichiara Landini, «è l'unica categoria che ha aumentato voti e delegati passando dal 61,7% al 66,6%, per i primi e dal 62,7% al 70% per i secondi. La Fim, invece, in termini di voti è passata dal 21,7% al 18,3% mentre in termini di delegati è passata dal 20,6% al 17,2%. Così come la Uilm è passata dal 13,2% al 10,7% in termini di voti e dal 14,2% al 10,3% in termini di delegati.
Ieri la Fiom ha incontrato i vertici della Federazione della Sinistra, di Sinistra critica e del Partito democratico. Per Oliviero Diliberto, portavoce di Fds, «la vicenda Mirafiori rappresenta oggi un punto cruciale e dirimente per la sinistra e per la democrazia. Non c'è spazio per ambiguità. In casi come questi ci si schiera. E la Federazione della Sinistra si schiera senza tentennamenti con i lavoratori metalmeccanici e con la Fiom attorno a cui nel Paese sta nascendo una vasta solidarietà probabilmente inaspettata per tutti gli sponsor delle imprese e del mercato 'a prescindere».
Sinistra Critica, infine, ha ribadito la totale solidarietà alla battaglia dei lavoratori della Fiat per difendere il lavoro e i diritti, nonchè il sostegno alla Fiom e alle iniziative intraprese per contrastare l'offensiva padronale, lesiva di fondamentali tutele democratiche. Ha anche sottolineato la necessità «di un'ampia convergenza tra i soggetti che stanno pagando i costi della crisi, per contrastare la guerra sociale scatenata in Europa da governi ed imprese». La proposta è quella di un «Forum delle opposizioni sociali».


Liberazione 11/01/2011, pag 2