giovedì 18 novembre 2010

Cosa c'è dietro lo statuto dei lavori

Piergiovanni Alleva
Dopo il "collegato lavoro" sulle cui brutture e pericoli ci siamo soffermati quindici giorni orsono sulle colonne di questo giornale, è uscita dal vaso di Pandora del ministro del Lavoro un'altra mefitica proposta normativa, che speriamo non divenga mai legge perché travolta dalla rovina del regime berlusconiano.
Adesso occorre, però, opporsi comunque con la massima fermezza e fin da ora perché, con riguardo ai temi del lavoro, l'unità di intenti nel centrodestra (e tra il centrodestra e la Confindustria) non è mai venuta meno. Il "collegato lavoro", ad esempio, è stato recentemente approvato, a gran velocità, anche da Futuro e libertà e dall'Udc, in polemica con il Pdl su tutto, ma non sulle leggi che riducono e potenzialmente annullano i diritti dei lavoratori. Esaminiamo, dunque, questa sorta di "colpo di coda del caimano", questo progetto di "statuto dei lavori" che, indecentemente, scimmiotta, nel nome, la grande legge che è stata ed è lo Statuto dei lavoratori.
Si tratta tecnicamente di un progetto di legge delega per la emanazione di uno o più decreti legislativi diretti alla redazione di un testo unico denominato appunto Statuto dei lavori, che dovrebbe sostituire lo Statuto dei lavoratori, o, piuttosto, sovrapporsi ad esso e ad altre leggi di tutela. Diciamo "sovrapporsi" perché il progetto si caratterizza per una innovazione metodologica davvero perfida essendo d'altro canto la perfidia il tratto caratteristico dell'agire dei transfughi, al cui novero sicuramente appartengono gli autori e proponenti di questo progetto. L'innovazione metodologica consiste nel fatto che il nuovo testo legislativo invece di disporre direttamente previsioni peggiorative rispetto agli attuali in tema, ad esempio, di licenziamenti, di mansioni e qualifiche, di trasferimenti, di sanzioni disciplinari, di contratti precari, di orario di lavoro, di salario ecc., consentirà ai contratti collettivi di derogare in lungo e in largo le norme esistenti in relazione, ad esempio, alla collocazione territoriale o alla dimensione dell'impresa o al settore produttivo e così via.
Tanto per intenderci, i contratti collettivi potrebbero prevedere che in Calabria l'articolo 18 sulla tutela contro i licenziamenti non si applichi o si applichi solo sopra i 70 dipendenti o che nelle imprese fino a 20 dipendenti nel centro-Sud sia legittimo, in deroga all'articolo 2103 cod. civ. dequalificare il dipendente adibendolo a mansioni inferiori e così via. Ma quali contratti collettivi avrebbero questo smisurato potere derogatorio? La proposta di statuto dei lavori del ministro Sacconi non lo specifica e quindi si può intendere che lo avrebbero tutti i contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali ma comunque un'indicazione nel progetto viene pur data: che quei contratti collettivi in deroga dovrebbero valorizzare il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali.
Ed allora tutto è chiaro, e d'altro canto coerente con quanto già si è cominciato a fare con la legge Biagi e con il "collegato lavoro": i contratti collettivi cui si pensa sono quelli che saranno firmati dai sindacati - Cisl e Uil anzitutto - che si sono già ridotti ed umiliati ad un ruolo subalterno e servente verso la controparte datoriale e che cercano di fare degli "organismi bilaterali" il luogo di una gestione corporativa, complice ed autoreferente degli interessi dei lavoratori.
In tal modo la Confindustria e le altre organizzazioni datoriali diverrebbero, con la complicità di questi sindacati serventi, i veri legislatori in tema di lavoro, espropriando lo stesso parlamento. E per di più - occorre sottolinearlo perché questo è il peggio del peggio - legislatori del caso per caso a seconda delle convenienze. L'anticipo di questa strategia lo abbiamo già visto con l'accordo separato di Pomigliano, e con quello che ha introdotto l'articolo 4-bis del Ccnl metalmeccanico, che, appunto, consente deroghe locali caso per caso alle norme contrattuali.
Tutti comprendono che un diritto del lavoro ridotto ad una specie di "colabrodo" dal moltiplicarsi degli accordi in deroga cesserebbe di essere un diritto del lavoro, cioè un'insieme di garanzie certe per i lavoratori. Bisogna, però, chiedersi come si è potuti arrivare a questo punto non tanto in sede politica, perché questo è chiaro, ma in sede di teoria giuridica. Si può dire, veramente, a questo proposito, che "la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni": quando c'era l'unità sindacale il legislatore italiano concepì l'idea - in sé non peregrina - di una integrazione tra la fonte legale primaria e la fonte secondaria contrattual-collettiva, ritenendo che in tal modo i fenomeni sociali potessero esser meglio colti nella loro dinamica. Così, per intendersi, la legge invece di stabilire solo lei quando potessero essere stipulati i rapporti a termine aveva previsto che potessero essere conclusi anche nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Su un presupposto, però, tanto politico quanto giuridico, ossia che si trattasse di contratti stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi, e fin quando vi è stata l'unità sindacale, la rappresentatività di tali sindacati, che firmavano unitariamente era indiscutibile, ed era anche suplrfluo porsi il problema di misurarla. Ora è cambiato tutto, e non per nulla il progetto di "statuto dei lavori" conferisce un enorme potere derogatorio delle norme di legge alla contrattazione collettiva senza più accennare a questioni e misure di maggiore rappresentatività, proprio perché evidentemente si vuole che gli accordi derogatori della legge siano accordi separati, firmati dai sindacati collaborativi e serventi, ancorché comparativamente meno rappresentativi.
Si tratta di una strategia incostituzionale - sia chiaro - perché la stessa Corte costituzionale ha ritenuto legittima quella integrazione tra fonte legislativa e fonte contrattuale collettiva solo in quanto questa possa dirsi effettivamente rappresentativa dell'assoluta maggioranza dei lavoratori sindacalmente organizzati, ma questa considerazione non è sufficiente a rassicurarci: è ora, pensiamo, che la fonte legale e quella contrattuale riacquistino la loro distinta fisionomia e finalità, ma soprattutto che vengano fissati come condizione di legittimità della fonte contrattuale i suoi requisiti di maggiore rappresentatività e di rappresentanza, ossia di conformità verificata attraverso referendum, dei risultati negoziali alla volontà dei lavoratori interessati.

Liberazione 14/11/2010, pag 1 e 5

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