mercoledì 24 novembre 2010

"Le multinazionali del mare", ovvero l'assalto ai porti

Matteo Gaddi
Con "Le multinazionali del mare" Sergio Bologna raccoglie una serie di scritti sul sistema portuale e le sue trasformazioni: dall'introduzione del container alla privatizzazione dei porti, dall'ingresso di operatori mondiali alla trasformazione dell'organizzazione del lavoro. Si tratta di un testo pubblicato da Egea, la casa editrice dell'Università Bocconi e che, presumibilmente, per l'elevato valore scientifico, verrà assunto in ambito accademico.
Parlare di porti e di logistica per Sergio Bologna non si tratta certo di un interesse improvviso: nel 1998 partecipò come esperto alla Commissione impegnata nella stesura del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica su impulso del Governo Prodi.
E prima ancora, anzi, molto tempo prima, sulla rivista "Primo Maggio", oltre trent'anni fa, vennero pubblicati i primi studi sui lavoratori e sui sistemi dei trasporti e della logistica.
Ed è proprio il container, o meglio la containerizzazione dei trasporti, uno dei temi ripresi da Bologna, nel descrivere la vera e propria rivoluzione intermodale seguita all'introduzione di questa unità di carico standard, giustamente definita come una sorta di "magazzino viaggiante", in grado di ridurre le rotture di carico e con un fortissimo segno di classe: il container, infatti, era in grado di ridurre l'impiego di forza lavoro e di far saltare quei passaggi della catena logistica più vulnerabili rispetto ad una possibile azione sindacale.
Il porto, infatti, è un nodo fondamentale di una lunga catena logistica rispetto alla quale diventa sempre più difficile tracciare un confine territoriale all'interno del quale misurarne gli effetti e i cambiamenti sul piano occupazionale: il perimetro portuale si allunga all'infinito.
Dalla containerizzazione deriva la moderna portualità intermodale caratterizzata anche dal gigantismo navale che a sua volta modifica le dimensioni dei porti e delle loro principali strutture e macchine (come le gru).
Ma soprattutto il container cerca di trasformare il ciclo portuale in un ciclo industriale: l'introduzione di una unità di carico standard consente di migliorare la produttività di un terminal container attraverso la programmazione delle operazioni di sbarco imbarco dalla nave e delle operazioni interne al terminal, dalla banchine alle aree di stoccaggio fino al retro porto.
Per ogni programmazione efficace, risulta necessaria una ottimale trattazione delle informazioni (in questo caso sugli arrivi e le partenze delle navi, sulle quantità ecc.), da qui l'introduzione dell'informatica il cui corretto funzionamento è ormai diventato un elemento decisivo per la funzionalità di un porto: a Genova Voltri, nel 2007 il fatto che sia entrato in tilt il sistema informatico ha portato alla paralisi del traffico di tutti terminal dell'Alto Tirreno.
Ma nonostante la standardizzazione delle unità di carico, la meccanizzazione e l'automazione di molte operazioni portuali prima svolte manualmente, la programmazione e l'introduzione dell'informatica, un terminal container può essere considerato una catena di montaggio?
La risposta di Bologna è no; nonostante per certi versi gli elementi di rigidità siano maggiore rispetto a quelli di una fabbrica. Un terminal container, infatti, non potrà mai funzionare come una catena di montaggio in termini di prevedibilità e ripetitività: troppe sono le incognite e troppi gli elementi, presenti o possibili, negli spazi di banchina, nei piazzali di deposito, nelle porte di ingresso e uscita dal terminal e persino nel terminal ferroviario, in grado di far saltare flussi e operazioni programmati e pianificati.
Nei traffici containerizzati è ormai in fase di superamento la distinzione tra le due principali categorie di attori: il carrier, quello che trasporta la merce da porto a porto, e lo stevedore, quello che scarica e carica la merce nei porti.
Frutto anche della privatizzazione che ha portato imprenditori a realizzare investimenti sul ciclo produttivo del carico, scarico, stoccaggio e trasferimento della merce e che hanno messo le mani sui terminal portuali.
Sono in particolare le multinazionali che da semplici carrier sono diventati anche operatori terminalisti sia per ottenere maggiore redditività sia per avere una maggiore flessibilità rispetto ai possibili ritardi di una nave che, se attesa in un terminal gestito da un diverso operatore, potrebbe incorrere in penali e altri obblighi contrattuali. Ma anche per il fatto che il carrier che dispone anche di una rete di terminal dispone del potere di condizionare, in questo modo, la capacità di penetrazione sui mercati dei suoi concorrenti. E infatti, le tre compagnie che oggi si contendono l'egemonia sono Maersk, Cma-Cgm e Msc, cioè quelle hanno investito maggiormente ed in più aree geografiche nel controllo di terminal.
I Global Terminal Operator operano in più aree del pianeta; ma la loro nascita ed espansione mondiale ha avuto origine da un "porto capitale": Hong Kong per Hutchinson, Singapore per Psa, Amburgo per Eurogate. Sono questi gruppi (i cosiddetti Cgto) che controllano le maggiori percentuali di traffici e che, nei Paesi con meno conoscenze specialistiche (vedi Africa), ma non solo, sono ormai in grado di dettare le decisioni principali che riguardano porti e logistica in generale.
La privatizzazione dei porti ha generato, da una parte, un afflusso di capitali senza precedenti in un settore da sempre pubblico suscitando l'interesse di grandi investitori istituzionali come Goldman Sachs, Morgan Stanley ecc.; dall'altra ha modificato alla radice le regole del lavoro portuale.
In Inghilterra la principale giustificazione alla privatizzazione dei porti fu proprio l'esigenza di cambiare radicalmente l'organizzazione del lavoro: i Dockers di Liverpool opponendosi al Governo conservatore cercavano di difendere il loro potere contrattuale e le tradizionali regole di organizzazione del lavoro. Ma la privatizzazione non è mai filata liscia; anzi si è sempre scontrata sia con dure lotte, condotte non solo da lavoratori portuali ma anche dalle Autorità Portuali e dalle città sede di porto; sia con limiti oggettivi rappresentati dal fatto che creare un porto moderno (comprensivo, quindi, di servizi logistici) è impossibile senza i poteri e le risorse di uno Stato: non a caso i due principali Global Operator sono due società statali come Psa e Dpw.
In Italia è la legge 84 del 1994 a portare in Italia i primi terminalisti privati (con l'eccezione del già presente Ravano) e ad in infliggere un duro colpo alle Compagnie Portuali: oltre alla riduzione di 20mila lavoratori, le Compagnie o sparirono, o si trasformarono in terminalisti o in pool di manodopera per la fornitura di lavoro temporaneo. Solo la Compagnia genovese, con dure lotte, riuscì a contrattare un destino diverso, seppur in un quadro di una sua trasformazione in impresa e di drastica modifica dei livelli occupazionali e delle tutele sociali per i dipendenti. Come scrive Sergio Bologna, la «cosiddetta flessibilizzazione della forza lavoro cancellò in poco tempo le prerogative che i dockers si erano conquistati nel Novecento».
La loro storia, quindi, è la storia di una sconfitta? Forse una rinnovata capacità di lotta e di organizzazione di questo centrale segmento di classe potrà invertire una tendenza non certo favorevole.

Liberazione 18/11/2010, pag 16

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