mercoledì 24 novembre 2010

Pagano sempre i lavoratori

Paolo Hlacia
Prima di cominciare è necessario procurarsi una carta geografica, anzi più di una. Una mondiale, avendo l'accortezza di trovarne una che non sia eurocentrica e quindi abbia al centro o il continente americano o la Cina. Questo ci farà bene alla mente (uno dei preziosi insegnamenti lasciatici da Oscar Marchisio). La seconda carta dovrebbe essere europea, ma visto che parliamo di porti e di mari deve rappresentare dal Mediterraneo al Mare del Nord, dai porti del Nord Africa a quelli del Nord Europa. Terza e ultima, una carta dell'Italia. A questo punto andrebbero appoggiati sulla cartina dei mattoncini Lego a rappresentare le tonnellate di merci che vengono movimentate in ogni scalo per visualizzare la distribuzione dei traffici. I porti vanno classificati anche secondo la profondità dei fondali, che determina il tipo di navi che possono attraccare e scaricare le merci. Ci sono quindi dei porti come quello di Gioia Tauro, definiti "hub", dove le merci vengono spostate su navi più piccole che poi servono gli altri scali, definiti "gate" - porti cancello. Questa operazione in inglese è denominata "transhipment" ed è una delle operazioni di un porto che va aggiunta a quelle più tradizionali di scarico container e merci varie con successiva spedizione via gomma o via ferro.
Dopo il grande sviluppo del container i porti hanno cambiato aspetto: grandi piazzali al posto dei magazzini. Se vi capita di vedere la foto di un porto con i piazzali vuoti può essere che riesce a smaltire rapidamente le merci scaricate.
Per classificare un porto non bastano quindi fondali profondi, gru e banchine per scaricare rapidamente le navi, ma servono i collegamenti verso la terraferma.
Le previsioni di aumento esponenziale dei traffici hanno subito una clamorosa battuta d'arresto con la crisi. Gli esperti prevedono che per ritornare ai volumi di traffico merci del 2008 bisognerà aspettare il 2014, ma chi lo assicura? E' vero che nella crisi i primi a pagare sono stati i lavoratori portuali, anche se il costo del lavoro ha una incidenza minima sui costi complessivi e sulle tariffe.
I portuali stanno pagando la crisi in termini di salario, di posti di lavoro, di aumento dei ritmi per chi lavora, di conseguente minor sicurezza e gli incidenti sono nella maggior parte dei casi gravi e mortali. Chiamare portuali questi lavoratori risulta ormai una definizione generica. Se prendiamo come riferimento la legge 84 del 1994 possiamo già distinguere: i dipendenti dei terminalisti (art.18), i soci delle Compagnie Portuali (art. 17), i dipendenti di altre cooperative e consorzi (art.16). Dopo che alle compagnie è stata tolta la riserva (esclusiva) sulle operazioni portuali di sbarco imbarco, le compagnie si sono trasformate in imprese di lavoro; in alcuni scali c'è stata una ulteriore e definitiva privatizzazione (modificazione genetica) con l'ingresso diretto dei terminalisti che hanno acquistato quote delle cooperative che operano con l'autorizzazione art.17.
L'applicazione di questa legge dell'94 ha avuto storie diverse porto per porto, vi basti solo l'esempio di Genova dove l'anno scorso a seguito di un dibattito cittadino acceso, con manifestazioni dei portuali della Compagnia ricche di tensione, è stata trovata una ulteriore mediazione su questo tema. In altri porti le formule sono state diverse e, scendendo la penisola, il dibattito si sposta dall'applicazione della legge 84 ad altre problematiche che rendono ancora più evidente la precarietà della situazione e lo sfruttamento esistente. Lo schema con cui possiamo riassumere la tendenza generale delle iniziative dei terminalisti così come la direzione dell'ultimo intervento del Governo sulla riforma dei porti, è quello di una parcellizzazione del lavoro, della divisione della forza lavoro in una miriade di figure diverse, magari cercando di utilizzare gli uni contro gli altri. In direzione diametralmente opposta troviamo l'obiettivo sindacale di un contratto unico per tutti i lavoratori nei porti. Un obiettivo generale indicato forse ormai da troppi anni e molte volte contraddetto nelle pratiche locali. A questo proposito si possono citare sovrapposizioni tra Compagnie Portuali e sindacato in altri anni, oppure le critiche al sindacato per lo scarso impegno nella mobilitazione europea contro la riforma De Palacio che introduceva l'"autoproduzione" (la possibilità di impiegare gli equipaggi delle navi nelle operazioni di carico e scarico). In questi anni ci sono state diverse lotte negli scali della penisola che hanno riguardato i problemi legati alla sicurezza sul lavoro, le questioni salariali e l'organizzazione del lavoro con la messa in discussione di ritmi e produttività richiesta (vedi Gioia Tauro).
Ecco alcuni spunti che andranno approfonditi e soprattutto verificati nelle mobilitazioni e nei territori. 1) Sulle carte geografiche che ci siamo procurati vanno segnati i retroporti esistenti e quelli in progetto, le interazioni con i progetti di Alta Velocità e Alta Capacità, i cosiddetti corridoi transeuropei, perché tutte queste opere hanno un impatto notevole sui territori che va attentamente valutato. A Vado Ligure c'è stato un referendum che ha visto prevalere i "No" al progetto di una piattaforma logistica. 2) Lo stesso ricatto delle delocalizzazioni messo in atto nell'industria è una prassi quotidiana nei traffici marittimi. La delocalizzazione di uno stabilimento Fiat prevede investimenti e spostamenti di macchinari e costruzioni di strutture fisse. Nel caso del trasporto marittimo la delocalizzazione si realizza ogni volta che la nave "cambia rotta". 3) Il lavoro all'interno dei porti non può essere definito solamente come lavoro dei portuali, va seguita tutta la logistica o meglio tutti i lavoratori che hanno a che fare con le merci trasportate.

Liberazione 18/11/2010, pag 13

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