giovedì 4 agosto 2011

Lavoratori portuali una rete per battere la privatizzazione

Porti Italia

Matteo Gaddi
Le recenti lotte dei portuali italiani hanno rilanciato l'esigenza di disporre di uno strumento di organizzazione e collegamento delle loro iniziative. Nasce per questo la Rete Nazionale dei Lavoratori Portuali che già al momento della sua costituzione si è data un impegnativo programma di lavoro che sta dentro un obiettivo di carattere generale: il superamento della privatizzazione dei porti italiani e della brutale segmentazione del lavoro nelle catene logistiche.
Ma la Rete non è uno strumento di generica propaganda: i portuali, abituati alla concretezza, si sono dati da subito punti precisi rispetto ai quali organizzare specifiche vertenze.
Ecco quindi che si parla di salario di mancato avviamento, di sicurezza nei Porti, di contratto unico dei lavoratori portuali, di lotta all'autoproduzione, di tariffa unica e di contrasto agli elementi di frammentazione e precarizzazione del ciclo portuale.
Si tratta di titoli e parole d'ordine che non si limitano all'enunciazione del problema, ma che lo analizzano e ne prospettano possibili soluzioni concrete.
Alcune sono a portata di mano, altre da costruire nel tempo. Sul tema della sicurezza, ad esempio, nei principali Porti italiani, come Genova e Trieste, già esistono Protocolli per la Sicurezza, tutti nati a seguito di lotte durissime esplose come conseguenza di eventi drammatici come morti sul lavoro o incidenti gravissimi. Ma il più delle volte i Protocolli sono rimasti sulla carta, i rappresentanti dei lavoratori della sicurezza privati di risorse e di possibilità di operare, le aree dei terminalisti sono tornate ad essere off limits per i controlli.
Saranno proprio i terminalisti i principali interlocutori della Rete: i nuovi padroni dei Porti post-privatizzazione anziché migliorare l'efficienza degli scali non hanno fatto altro che dar vita ad una competizione sfrenata tra Porti (anche quelli situati a pochi km di distanza) e, addirittura, all'interno degli stessi Porti. Una concorrenza giocata tutta attraverso la frammentazione del ciclo portuale, l'esternalizzazioni di funzioni, la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, la concorrenza al ribasso sulle tariffe e quindi sul costo del lavoro.
Per questo si rende necessario definire obiettivi concreti che contrastino questa concorrenza al ribasso: ad esempio stabilendo una tariffa minima a livello nazionale (al di sotto della quale non è possibile scendere) in grado di remunerare adeguatamente il lavoro (come da Ccnl) e coprire i costi di gestione dei soggetti che svolgono attività e servizi portuali in modo da evitare che vengano continuamente "strangolati" dai terminalisti.
E ancora, per contrastare la frammentazione e segmentazione del ciclo (alla quale corrispondono decine di contratti diversi per lavoratori che sostanzialmente svolgono le stesse mansioni) si rende necessaria l'applicazione del Contratto Unico per tutti i soggetti che operano in Porto, indipendentemente dalla loro funzione e ruolo.
La tutela del lavoro portuale non può che passare attraverso il contrasto alla "autoproduzione" (che produce un duplice effetto negativo: il sovraccarico di lavoro per il personale di bordo delle navi, con conseguenti ricadute sulla sicurezza, la sostituzione dei lavoratori dei porti con evidenti ricadute sull'occupazione) e i tentativi di operare ulteriori frammentazioni del ciclo portuale attraverso la logica di esternalizzazioni e appalti.
Obiettivi precisi, quindi, da raggiungere con una forma organizzativa molto "larga": alla Rete, infatti, possono aderire tutte quelle realtà locali liberamente costituite che si riconoscono negli obiettivi e che si impegnano attivamente a sostenerli.
Una pratica dell'obiettivo, insomma, come nella tradizione concreta dei portuali.


Liberazione 16/06/2011, pag 11

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